Alla riscoperta di una storia imbevuta di dolore e di speranza

 

 

Cenni storici sull'evangelizzazione

in America Latina

 

 

di Enrico Pepe

 

 

La Chiesa latinoamericana, nel suo magistero e spesso nella sua pastorale, da alcuni decenni è seriamente impegnata in una linea evangelica di formazione delle coscienze e di cambiamento delle strutture. Ma cosa ha fatto essa nel passato? Da questi cenni storici si potrà capire la complessità dell'argomento  e perché esso abbia suscitato ai nostri giorni tante riflessioni e spesso anche accesi dibattiti.

 

 

Quando  i  primi  europei   sbarcarono   nei Caraibi nel 1492, l'America Latina non esisteva ancora; c'era invece un grande continente, sconosciuto al vecchio mondo, ma ben noto ai suoi abitanti - erano almeno 60 milioni e parlavano più di 600 idiomi differenti -. Si pensa che essi siano venuti dal mondo asiatico, via terra, attraverso il nord, da tempi immemorabili. Avevano sviluppato le proprie civiltà, da quelle ben organizzate degli Incas e degli Aztechi a quelle più semplici delle numerose tribù che basavano la loro vita soltanto sulla pesca e la caccia.

Cristoforo Colombo pensava di aver raggiunto le Indie e perciò chiamò gli abitanti di queste terre erroneamente indios, nome che ancora oggi viene attribuito agli aborigeni che sono riusciti a sopravvivere senza mescolarsi con i nuovi arrivati.

 

 

 

La prima evangelizzazione

all'ombra della conquista

 

Dopo il primo stupore della scoperta, la Spagna e il Portogallo, che attraversavano un periodo di prosperità economica e di fervore religioso, si lanciarono subito alla conquista di quel mondo, che in seguito sarà chiamato America.

I re cattolici della penisola iberica diedero alla conquista un duplice scopo: aggiungere nuove terre ai loro regni e portare la fede ai nuovi popoli. Certamente in alcuni c'erano queste buone intenzioni, ma non si può neppure negare che altri guardavano all'America come al luogo ideale dove si poteva raccogliere oro a palate. Così, chi per motivi di fede, chi per la fame dell'oro e i più mescolando le due motivazioni, furono molti coloro che intrapresero l'avventura americana.

Quando il Papa Giulio II volle erigere una provincia ecclesiastica nell'isola EspaZola (Santo Domingo), il re di Spagna, Fernando il cattolico che pure ne aveva sollecitato la fondazione, lo impedì perché la bolla pontificia non gli riconosceva espressamente il patronato regio. Come poteva il re permettere che un'altra autorità, anche se religiosa, interferisse nelle terre che considerava proprie? Se egli, come re cattolico, si impegnava a diffondere la fede tra gli aborigeni, mettendo a disposizione della Chiesa la struttura statale e tutti i mezzi economici, non aveva il diritto di scegliere i missionari e di nominare i vescovi?

La Santa Sede, occupata in problemi europei sempre più complessi, ritenne opportuno non aprire un contenzioso con il re cattolico e gli concesse il diritto di patronato con la bolla Universalis Ecclesiae del 28 luglio 1508.

Per il Portogallo la cosa fu ancora più semplice, perché già dal 1456 l'Ordine di Cristo aveva ottenuto il patronato su tutti i territori conquistati o da conquistare e dal 1561 la carica di Gran Maestro dell'Ordine apparteneva di diritto alla persona del re portoghese.

In pratica con il patronato i re avrebbero governato la Chiesa d'America per delega del Papa. D'ora in poi tutta la corrispondenza dalla e verso la Santa Sede doveva passare per le corti reali e persino i decreti pontifici non potevano essere pubblicati senza il beneplacito del sovrano.

Questo connubio tra Chiesa e Stato, accettato senza traumi dalla mentalità del tempo, permise al cattolicesimo una rapida diffusione in tutte le regioni del Nuovo Mondo. Man mano che avanzava la conquista spagnola o portoghese, i missionari seguivano e a volte anche precedevano i conquistadores e ricevevano da loro tutto l'appoggio. In questo modo la fede cristiana, piantata nei Caraibi dai domenicani, fu portata a nord nel Messico dai francescani e a sud nel Perù e nella Colombia ancora dai domenicani, nel Brasile dai gesuiti  e in seguito dai carmelitani e dai cappuccini, e così in tutti gli altri territori, dall'Ecuador e dal Cile fino all'Argentina e al Paraguay.

 

 

 

Tentativi di inculturazione

 

Nel periodo della conquista avvennero fatti dolorosi, incomprensibili non solo alla mentalità moderna ma anche al buon senso di quei tempi, come il caso di aborigeni costretti al battesimo sotto la minaccia delle armi. Bisogna però riconoscere che molti missionari si impegnarono in un'opera di evangelizzazione disinteressata e volta al vero bene degli indigeni, dei quali spesso furono gli unici difensori.

Alcuni missionari rimanevano dove i conquistatori si attestavano, in genere lungo le coste o in altre terre particolarmente fertili e qui si prendevano cura dei coloni europei e dei loro figli, nonché degli indigeni con cui venivano a contatto. Altri missionari invece si inoltravano verso l'interno con grave pericolo della propria vita e venivano a contatto diretto con i nativi, ne imparavano la lingua e i costumi e scrivevano per loro i catechismi. Il primo di essi fu scritto nel 1539 in lingua nahuati e in pochi anni ne seguirono una cinquantina, tutti scritti negli idiomi locali.

In questi luoghi, lontani dal controllo centrale, i missionari, soprattutto i gesuiti, si posero il problema che noi oggi chiamiamo inculturazione. Valorizzando tutto quello che di positivo scoprivano nei costumi delle popolazioni, vi innestavano sopra i valori evangelici, ispirandosi ai primi tempi del cristianesimo, soprattutto agli Atti degli Apostoli.

 

 

 

Le «Riduzioni»

 

Dove essi arrivavano, prendevano contatto con la popolazione del posto, anche se sparsa nella foresta, costruivano una capanna, si mettevano al servizio della gente e, quando ne avevano guadagnato la stima, predicavano il vangelo. Attorno a loro lentamente si formava la comunità cristiana. Essendo gli indigeni abituati alla proprietà in comune, non fu difficile sviluppare con le tecniche europee un'agricoltura fiorente e persino un'architettura rispettabile nella costruzione di chiese, scuole, case per le famiglie, locali per l'esercizio dei vari mestieri. Sorsero vere cittadine completamente autonome in mezzo alle foreste, le Riduzioni, chiamate così perché riunivano in villaggi gli indigeni che prima vivevano sparsi nelle foreste.

Le Riduzioni, giuridicamente dipendenti dal sovrano europeo, erano esenti dall'autorità coloniale ed erano governate dai missionari. Al re, spagnolo o portoghese, andava bene, perché i missionari occupavano le terre in nome del proprio re, e per un certo tempo non dispiaceva neanche alle autorità coloniali del posto, perché si sentivano le spalle al sicuro da improvvise incursioni di indigeni. Così per quasi 150 anni - dal 1631 al 1767 - le Riduzioni dei Gesuiti in Paraguay, Argentina e Brasile prosperarono in maniera sorprendente. I missionari non dovevano più andare in cerca dei guaranì per convertirli; erano loro stessi che venivano alla missione per chiedere di far parte della comunità. La Chiesa ebbe l'impressione di aver trovato la via per portare il vangelo a questi popoli e il metodo gesuitico fu imitato da altri ordini religiosi in diversi altri paesi dell'America Latina.

Ma con l'andar del tempo il progresso economico di questo esperimento suscitò il risentimento dei coloni europei, che non riuscivano più a catturare e a schiavizzare gli indios per utilizzarli nei loro lavori.

Purtroppo gli intrighi politici - soprattutto ad opera del ministro portoghese Sebastiano Giuseppe, marchese di Pombal - riuscirono ad allontanare i gesuiti dal Brasile e ad intimorire gli altri missionari. I capi indigeni furono messi gli uni contro gli altri, le terre furono spartite e fu imposta la proprietà privata, e quelle che fino allora erano state cittadine floride e felici in pochi anni andarono distrutte.

Solo in alcune località povere e lontane dai centri di potere le Riduzioni continuarono a mantenersi in vita, ma sempre con una spada di Damocle sulla testa, per poi sparire o trasformarsi in villaggi e città occupate dai bianchi.

All'inizio molti indigeni resistettero, poi, quando videro che erano costretti a diventare schiavi dei bianchi, preferirono fuggire nelle foreste tornando a vivere secondo i vecchi costumi. Furono pochi quelli che si sottomisero ai bianchi e che entrarono pian piano a far parte della nuova società che si andava formando in America Latina. In certe regioni più povere, di cui i conquistatori non si interessavano e che quindi non soffrirono il trauma della persecuzione, la fede cristiana penetrò nei nativi ed è viva ancora oggi.

Sebbene cronologicamente l'esperienza delle Riduzioni si collochi nel periodo coloniale, di fatto il suo sviluppo si svolse al di fuori dell'influsso dei dominatori europei, fino a quando essi non la distrussero con la violenza.

L'espulsione dei gesuiti e la conseguente intimidazione esercitata sugli altri ordini religiosi, costituirono  una grave perdita per lo sviluppo e l'evangelizzazione dei popoli nativi del continente americano.

 

 

 

Dal patronato al vicariato regio

 

L'epoca coloniale (dal 1574 al 1808) segna un periodo di enorme sviluppo economico in America Latina a vantaggio degli emigrati e delle potenze europee.

Dal punto di vista religioso, il patronato regio era riuscito a impiantare le diocesi nei punti più importanti del territorio esplorato. I vescovi eletti dall'autorità civile e inviati dall'Europa erano anch'essi garanzia di stabilità per le autorità d'oltremare.

La Santa Sede, estromessa dal governo della giovane Chiesa, cercò di correre ai ripari con la creazione della Congregazione de Propaganda Fide, ma ormai il patronato regio era diventato vicariato regio, per cui i re non si consideravano più dei delegati del Papa nel governo della Chiesa, ma ritenevano di aver ricevuto tale potere direttamente da Dio.

 

 

 

La schiavitù negra

 

Fu in questo clima che si consumò il triste fenomeno della schiavitù. Essendo fallito il tentativo di schiavizzare gli indios nonostante l'espulsione dei gesuiti, i coloni europei ricorsero alla mano d'opera degli schiavi neri.

Tante nazioni si arricchirono con questo vergognoso commercio. L'Inghilterra organizzò uno scambio triangolare: vendeva i suoi tessuti in Africa in cambio di schiavi che rivendeva in America Latina per trasportare in patria denaro e prodotti tropicali. I francesi popolarono di schiavi negri Haiti e divennero i più grandi produttori di zucchero fino alla rivoluzione francese, quando i neri si ribellarono. Da Haiti la produzione dello zucchero si spostò a Cuba dove gli schiavi africani arricchivano la Spagna. Dalla piaga della schiavitù non fu esente neanche l'Olanda nella Guinea e tanto meno il Portogallo in Brasile, dove la libertà agli schiavi fu concessa in forma completa e definitiva solo nel 1888.

A chi in quel tempo si opponeva in nome della fede, si rispondeva che in fondo per gli africani era meglio vivere in schiavitù in un regno cristiano che restare pagani nelle loro foreste.

Anche se nella Chiesa si levarono voci contro la schiavitù da parte di uomini coraggiosi come Bartolomeo de las Casas e Pietro Claver e della stessa autorità pontificia, la sottomissione al potere civile, in cui la maggioranza degli uomini di Chiesa erano ridotti a causa del patronato, non facilitava loro lo svolgimento della missione profetica, anche se certamente non li dispensava.

Gli africani, trapiantati a forza in un ambiente ostile e completamente diverso da quello d'origine, separati gli uni dagli altri senza tener conto dei legami familiari e tribali, spesso non potevano comunicare neanche tra loro, perché non parlavano la stessa lingua. Per poter sopravvivere si videro costretti ad accettare tutte le condizioni imposte dai padroni, anche nel campo della fede.

Il calvario della schiavitù negra si protrasse giuridicamente fin oltre la metà dell'ottocento e presenta degli strascichi ancora oggi.

Certamente questa piaga secolare ha dato anche un contributo determinante non solo per lo sviluppo economico del continente, ma anche per la cultura del popolo latinoamericano. Infatti i suoi tratti essenziali provengono da una componente india formata dagli abitanti precolombiani, più numerosa nella parte ispanica; da una componente africana formata dai discendenti degli schiavi importati dall'Africa, molto sviluppata nell'America centrale e del nord, e nella parte portoghese; da una componente europea costituita dai discendenti dei conquistatori e degli altri emigrati che continuarono a venire dal vecchio continente fin dopo l'ultima guerra mondiale; infine da una componente meticcia scaturita dall'incrocio tra le tre precedenti. Quest'ultima è in continua crescita e attualmente costituisce più della metà della popolazione di questo continente.

 

 

 

Il periodo dell'indipendenza (1808-1825)

 

Naturalmente l'élite di origine europea, che aveva in mano il potere nel periodo della scoperta e conservava forti legami con la patria di origine, già nel periodo coloniale, dopo essersi stabilita definitivamente nel nuovo continente, cominciava a dare i primi sintomi di insofferenza verso i governi europei.

Con il frantumarsi dell'impero coloniale spagnolo (il Brasile restò unito) e con il sorgere delle nuove e numerose nazioni, le autorità ecclesiastiche furono colte di sorpresa. Elette e protette per tre secoli dall'autorità regia, non seppero cogliere i segni dei tempi e il clero si divise tra indipendentisti e regalisti. Dopo un primo tempo di sconcerto, man mano che le varie repubbliche si affermavano, la Santa Sede poté riprendere i contatti diretti con la Chiesa latinoamericana e il Papa poteva finalmente scegliere i vescovi fra il clero locale e prendersi cura della sua formazione.

Per questo scopo Pio Iì fondava a Roma il Collegio Pio Latino Americano da dove uscirono sacerdoti e vescovi culturalmente più preparati e con una mentalità non più regalista.

Le nuove repubbliche nate dall'indipendenza, sotto l'influsso del liberalismo europeo, sanzionarono in forme diverse la piena separazione tra stato e Chiesa, ma la lunga tradizione del patronato continuò ad avere il suo influsso, anche perché economicamente la Chiesa non aveva strutture autosufficienti.

 

 

 

Il nostro tempo

 

Solo agli inizi di questo secolo, con il Concilio Plenario celebrato a Roma nel Pio Latino, con i primi semi delle conferenze episcopali nazionali e con il sorgere di associazioni cattoliche laicali molto vive, la Chiesa latinoamericana prese un nuovo slancio. Un cammino lungo e faticoso che maturò col Concilio Vaticano II e diede i primi frutti nella Conferenza di Medellín (1968) e poi in quella di Puebla (1979).

In queste due assisi la Chiesa di questo continente ha riaffermato la sua piena indipendenza da ogni ingerenza del potere temporale. Ha riscoperto inoltre la sua missione profetica, operando la scelta preferenziale dei poveri con l'impegno di attuare una nuova e più profonda evangelizzazione, affinché il messaggio evangelico penetri più profondamente non solo nelle coscienze dei singoli ma anche nella cultura del popolo e nelle strutture stesse della società.

Su questa linea pare si stia muovendo il prossimo incontro dei vescovi a Santo Domingo.

 

Enrico Pepe