Intervista
a Mario Pezzotti, missionario nel bacino amazzonico
a
cura di Germano van der Meer
Gli
indios kayapòs appartengono alla famiglia linguistica «Gê» e abitano nella
regione loro riservata nel sud dello stato del Parà nel bacino amazzonico, tra
il fiume Xingù e il fiume Fresco. Sono stati scoperti nel 1936. Attualmente
sono circa duemila in cinque villaggi. Padre Mario Pezzotti, missionario
saveriano, ha preso contatto con loro nel 1979 e da alcuni anni si è stabilito
in mezzo a loro nel villaggio chiamato Kikretum, per offrire loro il messaggio
del vangelo, immergendosi pienamente nella loro cultura.
GEN’S:
Quale il motivo
che l’ha spinto a
scegliere questo tipo di presenza tra gli indios kayapòs?
Fin
da quando mi è maturata dentro la vocazione missionaria ho sempre sognato di
poter vivere un giorno in un villaggio di indios per condividere con loro la
vita. Il sogno si è realizzato vent’anni dopo la mia ordinazione sacerdotale.
Cominciai col visitare questi indios, ma mi resi conto che le visite lampo non
servivano a molto. Insieme ad un altro missionario abbiamo deciso di chiedere
il permesso ai superiori di rimanere in mezzo agli indios, perché solo così
avremmo potuto conoscere a fondo la loro cultura e «farci uno» con loro. Nel 1987,
terminato il mio mandato di superiore regionale, ottenni il permesso sia del
nuovo superiore che del vescovo per iniziare questo nuovo servizio. Insieme
all’altro missionario siamo andati ad abitare con gli indios nel loro
villaggio, chiamato Kikretum. Volevamo lavorare insieme, ma dopo un po’
egli fu eletto coordinatore della pastorale missionaria per gli indios di tutta
la regione ed io rimasi solo.
Ma
il vero motivo che mi ha portato a fare questa scelta è la convinzione che solo
convivendo con i kayapòs, partecipando concretamente alla loro vita e
servendoli ventiquattr’ore su ventiquattro, sarei potuto entrare nel loro
mondo, con la conseguente possibilità di capire la loro visione cosmica della
vita.
Come
Gesù si è incarnato, anch’io, nei limiti del possibile, volevo incarnarmi in
questa cultura dei kayapòs, affinché il messaggio evangelico potesse
essere da loro capito e riempire la loro vita.
Imparare
a vedere e pensare le cose
dal loro punto di vista
GEN’S:
Che tipo di vita lei vive tra gli indios?
Quando
sono andato a risiedere in quel villaggio il mio confratello già era là da
quattro anni, e stava lavorando per alfabetizzare quella popolazione. Cominciai
a lavorare anch’io in questo progetto: aiutare i nativi ad imparare il
portoghese che si parla in Brasile. Essi vogliono imparare questa lingua per
difendersi nelle difficili situazioni in cui sono posti dalla società che
tutt’attorno li avvolge e spesso li travolge ad opera soprattutto dei cercatori
d’oro e dei commercianti di legname. Uno
di questi ha già aperto una strada nella foresta mettendo un villaggio di
questi indios a contatto con la città più vicina, Tucumâ, a 100 km.
L’alfabetizzazione viene fatta usando elementi tribali che sono alla loro
portata, perché la nostra preoccupazione costante è di vedere e pensare le cose
dal loro punto di vista.
Quanto
al nostro stile di vita ci siamo adattati al ritmo della vita indigena nel
villaggio. Il mio amore si esprime, per esempio, nel farmi dipingere e nel
prendere parte alle loro danze. Dipinto da loro e abbellito con un collare, un
pennacchio di piume in testa e una particolare cintura ai fianchi, una volta ho
danzato per tutta la notte con loro: ne erano particolarmente felici. Il
mattino seguente, ben presto, ho preparato la colazione e l’ho portata nella
casa dei guerrieri. Gli uomini radunati attorno al fuoco apprezzarono il mio
gesto e cantarono in segno di gioia fino alle sette del mattino. In poco tempo
ho potuto stabilire con questi guerrieri un ottimo rapporto. Ho fornito loro materiale
da pesca e quando a notte ritornano dalla caccia mi portano un po’ di carne o
di pesce che hanno preso. Abito in una casetta di terra e paglia a un solo
locale, sempre aperta agli indios, e loro si sentono bene con lo wayanga
(uomo dello spirito), come mi chiamano.
GEN’S:
Si sente realizzato come missionario in questa esperienza?
Sono
contento di poter offrire la mia vita in questo modo. Penso che la vocazione
missionaria consiste nel mettersi a servizio dell’altro con un amore radicale.
Io cerco di donarmi in tutto, ventiquattr’ore al giorno.
Le
donne anziane già dichiarano di essere ibè ina (tua madre). Alcuni
uomini un po’ più giovani di me mi chiamano i-kamy (mio fratello) e
vogliono che i loro figli siano considerati i-tabdjwy (miei nipoti). La
parentela tra di loro è una struttura solida e importante e mi hanno già
incorporato come parente. La maggior parte mi chiama Wayanga, uomo dello
spirito, ma una vicina di casa mi ha dato il nome di un suo antenato: Bepbyro.
Faccio
l’esperienza di vivere in una grande famiglia dove tutti si conoscono e mettono
tutto in comune. Quando devo viaggiare per partecipare a riunioni della
prelatura, loro si dicono tristi; e quando ritorno fanno festa e corrono nella
mia casa per vedere che cosa ho portato dalla città.
Un mondo molto diverso,
pieno di valori umani
GEN’S:
Quali valori ha scoperto nella cultura di questi indios?
Sto
scoprendo che il loro mondo è molto diverso dal nostro. Per i kayapòs la
persona umana vale più di tutto ed è al di sopra delle stesse strutture
tribali. Conseguentemente accolgono con molta gioia qualsiasi persona che
mostri loro di accettarli. Però vogliono vedere gesti concreti, come un regalo,
un qualche segno anche piccolo come una caramella, uno specchio, un coltellino,
una collanina... Per loro le sole parole non bastano.
I
kayapòs danno molta importanza alla comunità, al gruppo, alla parentela.
Ogni membro appartiene ad una determinata categoria: i bambini, gli adolescenti
ragazzi e ragazze i giovani, le giovani, le giovani vergini, le giovani sposate
senza figli, le mamme con figli, i guerrieri, le donne e i vecchi. Il bambino kayapòs
da quando nasce non resterà mai solo, ma sarà sempre accompagnato. Fino ai tre
anni resta attaccato alla madre, poi comincia a separarsi. Una cosa mi ha
sempre impressionato: qui i bambini crescono con tanto equilibrio tra libertà
personale e senso di responsabilità comunitaria.
La
famiglia è molto unita. Gli indios si sposano presto e il matrimonio diventa
valido con la nascita del primo figlio. Nelle decisioni familiari il marito
consulta sempre la moglie. In un senso più ampio il rapporto tra i kayapòs
è quello di fratelli, molto spontaneo. C’è l’abitudine di condividere tutto
cominciando tra i propri parenti. Nella loro struttura sociale l’autorità è
vista come servizio alla comunità. Purtroppo questo tratto molto positivo della
loro vita attualmente corre il rischio di essere distrutto a causa della
presenza dei cercatori d’oro e dei commercianti del legno.
Infine
la vita dei kayapòs è una festa, una celebrazione, e anche il lavoro ha
carattere festoso. Essi poi hanno un forte senso del valore del momento
presente. Per esempio, se c’è abbondanza di cibo, tutti mangiano
abbondantemente; domani sarà un altro giorno. Non esiste l’idea di accumulare,
di mettere da parte.
Naturalmente
ci sono anche dei difetti, dei limiti che bisogna purificare col vangelo. Solo
per dare un esempio: il capo (cacique) può essere tentato di usare il potere a
suo vantaggio; i vecchi ormai incapaci di cacciare possono essere emarginati.
Hanno anche idee sbagliate sull’aldilà: per loro la vita veramente felice è su
questa terra, perché dopo la morte l’anima è triste avendo perduto il proprio
corpo.
GEN’S:
Come vede il loro cammino verso una visione della vita più piena?
Vedo
il cammino di questo popolo simile a quello del popolo d’Israele nell’Antico
Testamento. Ci vuole molta pazienza storica a contatto con questa tribù. Per
questo abbiamo un certo programma che si svolge progressivamente:
Innanzitutto
valorizziamo il positivo che troviamo nella loro cultura, vivendo nel loro
mondo, come loro, senza nulla esigere. Vogliamo dir loro con la nostra
presenza: «Dio vi vuole bene!».
Concretamente
diamo loro quei servizi che essi ci chiedono nelle circostanze attuali, senza
voler stabilire noi quello che è buono per loro.
Cerchiamo
di suscitare in loro delle domande che possano coscientizzarli e portarli alla
ricerca di uno stile di vita che, senza rinnegare i valori positivi del
passato, li prepari ad affrontare la modernità che ormai bussa inevitabilmente
alla loro porta.
Naturalmente
lo scopo della mia vita lì è di donare il vangelo, ma in modo che non sia
un’imposizione: è importante che essi stessi scoprano i valori evangelici di
cui hanno bisogno. Per esempio, essi non hanno una risposta al grave problema
del dolore e qualsiasi sofferenza o malattia li spinge alla disperazione.
Sono cosciente che per fare
questo cammino ci vorranno molti anni; a me basta poter testimoniare che Gesù
sta lì e che desidera offrir loro una vita più piena.
GEN’S:
Lei convive con questo gruppo di indios, mentre in Brasile ci sono
parrocchie enormi senza sacerdote; questo non le provoca una certa angustia?
Tante
volte mi è stata fatta questa osservazione, ma per me si tratta di una scelta:
convivere con un popolo, anche se numericamente piccolo, ma che è minacciato di
estinzione. Per me, aver cura di 300 indios kayapòs, accerchiati da una
società che li può ingoiare e far sparire, vale almeno quanto curare 50.000
persone di una grande parrocchia. Oggi, quando tutto sembra tramare contro gli
indios, oppressi economicamente e culturalmente, mi sembra un dovere mettere la
mia vita a loro servizio.
Di
giorno in giorno Dio si mostra
un meraviglioso maestro
GEN’S:
Come fa a non scoraggiarsi in questo servizio missionario senza risultati
immediati?
La
forza mi viene dalla fede, dalla fede nella presenza di Cristo in questi
indios. Questa fede mi ricorda il Corpo mistico di Cristo. Io non sono solo
mentre vivo e lavoro per loro; sono un membro di Cristo in unità con tutti gli
altri missionari e con tutti i cristiani.
Di
giorno in giorno Dio si mostra un meraviglioso maestro: gli indios
costantemente mi lasciano stupito per quel qualcosa di grande che esiste nel
loro cuore. I kayapòs sono molto sensibili: quando ho bisogno di
qualcosa, essi lo vanno a cercare e me lo portano; quando passo il giorno a
zappare, la vicina di casa mi offre un piatto abbondante di riso con jabutì
(un rettile amazzonico commestibile).
Ogni
mese, mi faccio un esame chiedendomi: «Che cosa mi hanno insegnato gli indios
con la loro vita in questo periodo?». Per esempio, all’inizio mi irritavo
quando un bambino prendeva una penna per giocare e la rompeva; poi mi son reso
conto che tante volte è meglio far felice un bambino lasciandolo giocare con
una penna che conservarla per sé egoisticamente.
Dio
mi insegna soprattutto il distacco totale e radicale da me stesso per mettere
lui solo al primo posto nella mia vita. Così l’anno scorso mi sono ammalato di
erisìpela. Di mattina continuavo a fare scuola, nel pomeriggio e di notte
riposavo. Gli indios, pur sapendo della mia malattia, non sono venuti mai a
visitarmi, perché hanno una gran paura di essere contagiati. Sono rimasto solo
una settimana nella mia casupola con febbre alta. Nel silenzio della notte mi
chiedevo: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questa sofferenza?». Mi veniva la
tentazione di abbandonare tutto e tornarmene in città... Poi mi parve di
capire: Dio vuole che io ami gli indios come Egli ci ama, senza mai esigere
nulla da nessuno.
Ecco,
io vorrei che la mia vita fosse qui un piccolo segno dell’amore disinteressato
di Dio per gli indios kayapòs.
a cura di Germano van der Meer