Rinnovamento di una parrocchia e contatti con un supercarcere italiano

 

 

Quando la pastorale si fa irradiazione

 

 

di Flavio Tosi

 

La verità cristiana è ben più di una determinata teoria o prassi. E’ innanzi tutto Persona: la persona di Gesù che vive Risorto là dove si è riuniti nel suo nome. Evangelizzare significa, quindi, dare spazio innanzi tutto a Lui. E’ quanto ha cercato di fare un parroco veronese...

 

 

Sono stato, fino a poco fa, per una decina di
anni, parroco di un piccolo centro nel veronese, Parona. In tutti questi anni ho sentito come mio compito primario basare la vita parrocchiale sulla Parola vissuta e specialmente sul comandamento nuovo di Gesù. L’incontro con il Movimento dei focolari e con la sua spiritualità dell’unità, avvenuto già anni fa, mi aveva infatti portato a considerare la pastorale in una luce ben precisa: come pura e concreta irradiazione della carità. Così, quando arrivai a Parona, ho cercato di farne l’orientamento decisivo per muovermi in ogni ambiente e per ogni iniziativa pastorale. Col tempo, poi, mi divenne sempre più connaturale far nascere e sviluppare la vita parrocchiale nel clima dell’amore scambievole. Ogni incontro che si teneva con i collaboratori, i programmi, i momenti formativi, tutto prendeva le mosse ed era animato dalla carità, vista come cuore e sintesi del vangelo. Ben presto ho potuto notare un primo effetto che questo modo di fare ha provocato nella comunità: colpito dalla novità e freschezza del vangelo riscoperto sotto questa nuova luce, un certo numero di persone si sono sentite come rinascere nella fede e, magari dopo anni di disimpegno, si dichiaravano disponibili per la vita della comunità.

 

 

 

Il vangelo della carità
diventa fermento di comunione

 

Dopo qualche anno, l’avvenimento della missione parrocchiale diede un grande impulso a questa incipiente trasformazione. Ricordo che intitolammo quell’anno «l’anno della Parola». Da allora, un po’ alla volta, anche quelli che erano più legati alla tradizione hanno cambiato atteggiamento, essendo anch’essi ora coinvolti nell’avventura che il vangelo, così vissuto, andava aprendoci.

Una conseguenza è stata il clima di fratellanza che si è instaurato fra tutti i parrocchiani, assieme alla nascita di molti rapporti profondi, tra famiglie e la conseguente accoglienza di tanti immigrati. Inoltre quasi subito venne spontaneo praticare molto semplicemente una certa forma di comunione dei beni. Fino a tutt’oggi parecchie famiglie danno mensilmente una parte del loro superfluo per le necessità della parrocchia.

Una realtà particolarmente significativa che è seguita alla vita di comunione tra di noi è la forza positiva che questo fermento ha iniziato a rappresentare per tutta la città. Ci sono, infatti, in città, parecchi gruppi di varia ispirazione (sportivi, umanitari, ecc.) che a volte sono venuti in contrasto tra di loro fino ad arrivare a pubbliche accuse ed offese. Proprio queste situazioni, che umanamente offrivano poche possibilità di soluzione, sono state risolte e come sgonfiate dalla presenza discreta, ma decisiva, di persone del consiglio parrocchiale che vivono da anni la spiritualità dell’unità. Il risultato è che tra i gruppi ora i rapporti sono buoni e in occasione di feste comunitarie la collaborazione è molto aumentata.

 

 

 

Un contatto apparentemente marginale...

 

Ma l’esperienza che in questi anni ha più arricchito la nostra comunità è quella che facciamo con i carcerati di un superpenitenziario italiano. Tutto è nato da una Parola di Gesù che ha sempre avuto grande rilievo fra noi: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

Un giorno, una parrocchiana molto attiva, aveva letto su di un giornale il desiderio di una carcerata di avere qualcuno con cui corrispondere. Da allora quel rapporto continua (sono circa dieci anni) ed è diventato profondo e costruttivo.

Per ottenere i permessi di visita al supercarcere dove viveva la sua corrispondente, la nostra parrocchiana fece tutti i passi dovuti. Seppe, che sarebbe stato possibile ottenerli solo per un motivo culturale. Preparò allora con alcune ragazze della parrocchia uno spettacolino da proporre, così che si potesse entrare e fare visita.

 

Venivo di continuo informato dell’iniziativa che ammiravo ma nella quale, in un primo momento, pensavo di non essere coinvolto. Mi sembrava fosse molto al di fuori dei miei programmi, anche perché non capivo cosa avrei potuto dire o dare a quei carcerati. Fu solo la frase: «ero carcerato...», assieme al consiglio di alcuni confratelli, a convincermi in extremis ad accettare l’invito di partecipare alla prima visita al carcere sito, a 600 km di distanza da noi, nei pressi di Roma.

 

 

 

... stipula un legame originale

 

Ricordo ancora benissimo la partenza da Parona in quella fredda alba di dicembre, dove facevano contrasto la non perfetta organizzazione nello stipatissimo pulmino rigurgitante di doni, e la nostra gioia e carica di entusiasmo per vivere la Parola del vangelo. Ciò che ci siamo detti prima di entrare nel carcere era solamente di vedere in ogni detenuto Gesù. E il nostro desiderio più grande era che essi potessero cogliere almeno qualcosa della sua presenza fra di noi.

 

Arrivati nel carcere ci fanno accomodare nella sala-cappella dove avremmo atteso i detenuti. E’ il momento più emozionante. Non avevo mai incontrato un carcerato con gravi condanne e per di più alcuni erano fra gli esponenti più famosi del terrorismo. Intanto mi ripeto: è Gesù che arriva!

 

Finalmente incominciano ad entrare, uno alla volta, con un certo intervallo fra l’uno e l’altro, e come ci vedono sorridono. E noi, io compreso, stranamente, ci lanciamo loro incontro e li abbracciamo: ci sentiamo fratelli, in una sola dimensione e realtà.

 

Alla fine dello spettacolino ci fanno tante domande sulla comunità in cui viviamo. Vorrebbero poter rendersi conto di persona di come un paese sia diventato, almeno un po’, una famiglia per l’amore che unisce e conquista. E qualcuno aggiunge: «Se prima avessimo incontrato voi, o persone come voi, non avremmo fatto quello che abbiamo fatto!».

 

Il colloquio si fa sempre più personale, profondo. Ma il permesso ha una scadenza e viene il momento di lasciarci, con il più deciso «arrivederci». Usciamo dal carcere quasi in silenzio... qualche mamma non è riuscita a trattenere le lacrime. Ritorniamo a casa il giorno dopo, mettendo insieme le cose più belle vissute da ciascuno e con il desiderio di comunicare a tutta la parrocchia i frutti di quel momento così straordinario.

Negli anni seguenti poi il rapporto con i carcerati è cresciuto e ripetutamente siamo tornati da loro. Sin dall’inizio abbiamo aggiornato di queste visite tutta la parrocchia e una domenica ho letto in chiesa alcuni brani di lettere di detenuti in cui si coglieva, specialmente in due o tre di essi, un cammino di fede e l’impegno a mettere in pratica il vangelo nei difficili rapporti con i loro compagni. Vedevo importante far percepire alla parrocchia che le nostre visite non erano sulla linea dell’assistenza e quasi della pietà per quelle persone sfortunate, ma tendevano a creare un autentico rapporto di carità e unità in Gesù, proprio sulla base del vangelo. In chiesa lo ricordo bene si è fatto un profondo silenzio. Qualcuno si è anche commosso per certe espressioni delle lettere. Abbiamo raccolto quel giorno più di 800.000 lire e tre scatoloni di pandoro.

Ormai questo rapporto col carcere dura da quasi sei anni e fa parte della vita stessa della parrocchia. Ritornare ogni anno da loro, costituisce uno dei momenti più forti dell’esperienza di Dio e del suo amore, al quale ogni persona anche la più «lontana» secondo i nostri schemi è candidata.

 

Flavio Tosi