Gli anni della scuola del deserto raccontati dal nuovo arcivescovo di Praga

 

 

Dio ci purificava dai nostri «idoli»

 

 

di mons. Miloslav Vlk

 

Coi suoi accenti di purificazione e di riscoperta, la sofferta vicenda della Chiesa ceca e slovacca durante gli anni della persecuzione rappresenta uno straordinario esempio di rievangelizzazione di una Chiesa di antica fondazione. Emerge da essa ciò che veramente può rinnovare e ravvivare la Chiesa. Ne ha parlato nell’autunno scorso a Milano, in una testimonianza già a suo tempo molto apprezzata, mons. Miloslav Vlk, nominato nel frattempo nuovo arcivescovo di Praga.

 

 

La  nostra  Repubblica  è  formata  da   due nazioni, ciascuna delle quali ha una sua cultura, una sua storia, le sue abitudini, il suo carattere religioso.

 

Gli slovacchi vivono nella parte orientale del Paese, con la città capitale Bratislava e le alte montagne Tatra; sono cinque milioni di abitanti, hanno una vita religiosa piuttosto intensa, pur se in gran parte tradizionale, e conservano un’identità nazionale molto forte.

 

La parte occidentale comprende due terre: la Boemia e la Moravia, dove vivono i cechi e dove si parla la lingua ceca. In Boemia si trova la capitale di tutta la Repubblica, Praga. La vita religiosa in Boemia è meno intensa poiché già da alcuni secoli la popolazione ha subìto l’influsso dell’Occidente europeo, quindi dell’illuminismo, del positivismo, del materialismo. Tra Boemia e Moravia gli abitanti sono pure cinque milioni.

Io vengo dal meridione della Boemia e rappresento perciò la parte ceca della Repubblica.

 

Prima dell’arrivo del comunismo, la fede del popolo era di tipo tradizionale e ancora segnata dal lungo periodo della monarchia austro-ungarica che aveva operato la malsana unione tra la Chiesa e lo Stato. La vita e le strutture della Chiesa rispecchiavano in questo modo la vita e le strutture della società civile, delle abitudini e dello spirito civili, più che la Parola di Dio e lo spirito evangelico.

 

Il comunismo si è servito proprio di questa situazione, di identificazione tra Chiesa e stato, cogliendoci del tutto impreparati al confronto.

 

Da parte loro, invece, i comunisti avevano un piano preciso per sopprimere la religione, e colpire proprio la vita della Chiesa. E hanno avuto gioco facile anche per l’onda di entusiasmo che si era venuta a creare a causa della liberazione dagli orrori della guerra.

 

 

 

Sotto l’urto della persecuzione:
un gregge senza pastori

 

La propaganda comunista attribuiva falsamente la liberazione unicamente all’esercito sovietico, preparando in tal modo l’atmosfera favorevole all’accettazione della loro ideologia. La gratitudine che il popolo sentiva per i «liberatori» dell’Unione sovietica aveva fatto scomparire ogni senso di critica verso il nuovo sistema.

 

D’altra parte, l’orientamento quasi esclusivo della società verso i beni terreni e il desiderio di costruire un mondo diverso, ha fatto sì che la gente potesse inghiottire il vuoto spirituale, la mancanza profonda di valori, le idee comuniste. Tutto ciò che proveniva dal mondo sovietico era magnificato come il più alto, l’unico, il vero. Tutto ciò che era contrario al comunismo per esempio il sistema occidentale di vita, i suoi valori, la Chiesa con la sua missione veniva gradualmente messo in cattiva luce ed etichettato con titoli negativi: antiprogressista, antipopolare, controrivoluzionario, reazionario, antinazionale, antisocialista.

 

Anche chi non voleva sottomettersi era tacciato di reazionario e di oscurantista, di arretrato e di incolto. Così, tutti gli avversari del comunismo furono configurati come nemici del popolo e della nazione, e fu perciò facile liquidarli. La maggior parte della gente credeva a tutto quello che dicevano i comunisti, perché essi dapprima soppressero la libertà di stampa e, subito dopo, incominciarono a raccontare bugie.

 

Per dividere la Chiesa e conquistarsi la moltitudine dei credenti, i comunisti si sono impadroniti dell’Azione Cattolica affermando che essa era d’accordo con il partito. Sui giornali, per giorni e giorni, vennero pubblicate lunghe liste di nomi delle più importanti personalità, sacerdoti e laici (spesso anche nomi di persone defunte), le quali avrebbero espresso il loro consenso al nuovo sistema. Lo scopo era di ingannare la gente obbligandola a unirsi alla rivoluzione.

 

Molti sacerdoti sono stati imprigionati. Una notte i comunisti assalirono tutti i conventi religiosi maschili, considerati centri di preparazione della controrivoluzione; furono chiusi i conventi e internati i religiosi. I superiori degli Ordini religiosi apparvero in giudizio come agenti di potenze straniere e quindi vennero condannati a lunghi periodi di prigionia. Anche i vescovi furono internati e i loro posti occupati da candidati scelti, da sacerdoti graditi al partito.

 

Così, per trenta denari d’argento (cf. Mt 26, 15), la Chiesa fu colpita al cuore: una Chiesa senza vescovi è un gregge senza pastori. Sta scritto infatti: «Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26, 31).

 

 

 

L’obiettivo del regime:
distruggere la Chiesa come comunione

 

Questa era l’intenzione principale del comunismo: distruggere la Chiesa come comunione, cominciando dalla testa, dai capi.

 

Un altro passo in tale senso è stato l’introduzione del consenso o licenza statale obbligatoria: poteva lavorare solo quel sacerdote al quale il regime dava il permesso e, comunque, in una parrocchia soltanto. Il sacerdote col permesso non poteva cioè aiutare un confratello nella predicazione o nella confessione senza un ulteriore permesso. Così a poco a poco i sacerdoti rimasero separati tra loro e chiusi nella propria parrocchia.

 

Il governo cercò di conquistarsi altri sacerdoti formando il «movimento dei Sacerdoti per la Pace». Non si chiedeva nulla di straordinario, non si obbligavano i sacerdoti a diventare comunisti. Semplicemente dovevano dare un tacito consenso al governo, dovevano dare l’impressione di essere d’accordo: non dovevano parlare male dello Stato o della sua politica, ma tacere.

 

Il governo aveva bisogno infatti di creare una facciata, di dare l’impressione che la Chiesa lo appoggiasse, per indebolire in tal modo gli avversari e creare all’estero un’idea falsa di stabilità interna.

 

Intanto la comunione ecclesiale si frantumava, i sacerdoti venivano divisi, si creavano barriere di diffidenza.

 

Un ulteriore passo verso la distruzione della Chiesa come comunione fu la limitazione dell’attività ecclesiale al campo liturgico. Fuori della chiesa non era permesso praticamente niente: non l’attività coi giovani, niente gruppi sociali e culturali. Ai laici era vietata ogni attività nella chiesa ad eccezione dei sacrestani, organisti e cantori.

 

La divisione tra sacerdoti e laici accrebbe l’individualismo, che aveva profonde radici storiche, e permise l’atomizzazione della comunione ecclesiale. Non potendo operare pastoralmente, i laici a poco a poco si divisero tra loro.

 

La paura era presente dappertutto facendo sì che venissero osservate le disposizioni ingiuste. L’atmosfera di paura era mantenuta dalla polizia segreta che puniva con la prigione, o comunque con l’interrogatorio o con la minaccia, chiunque avesse il coraggio di disobbedire. La chiesa poteva essere ancora frequentata dai laici, non però dagli insegnanti o da coloro che ricoprivano posizioni importanti.

 

In tutta questa situazione i giovani hanno sofferto più degl’altri. I comunisti erano gelosi della gioventù, perché dicevano i giovani sono il futuro della nazione. E proprio perché i giovani sentivano molto il desiderio di trovarsi, di stare insieme, era loro vietato di incontrarsi in chiesa per dialogare tra loro: chi disobbediva non poteva, per punizione, accedere alle scuole superiori.

 

 

 

La nostra debolezza:
una fede non fondata sulla Parola

 

Abbiamo detto che l’attacco principale dei comunisti era alla Chiesa come comunione, approfittando del grande attaccamento che gli uomini hanno alla «pentola della carne». Questo fatto ha messo a nudo quanto la nostra fede fosse debole perché non fondata nella Parola e non incarnata nella vita quotidiana.

 

Ora ci chiediamo: di fronte alla catastrofe del comunismo, che cosa abbiamo pensato, che cosa hanno pensato i vescovi?

 

Che tutto sarebbe presto finito, che ci sarebbe stato un colpo di stato, che l’Occidente ci avrebbe liberato, che gli americani sarebbero arrivati per scacciare i comunisti.

 

Questa è stata la nostra attesa durante gli anni Cinquanta; e la rivoluzione ungherese del 1956 ci aveva incoraggiati su questa linea. Mi viene in mente un salmo: «Si mescolarono con le nazioni, e impararono le opere loro, servirono i loro avversari, li oppressero i loro nemici e dovettero piegarsi sotto la loro mano» (cf. Sal 106).

 

In una parola: noi confidavamo nell’uomo e Dio ci purificava dai nostri «idoli», dal nostro modo di pensare pagano, senza fede ; ma noi non comprendevamo. Tuttavia a poco a poco abbiamo incominciato a capire che «i carri e i cavalli» non ci avrebbero salvato; abbiamo preso coscienza che «guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto e pongono la speranza nei cavalli... L’egiziano è un uomo, non Dio, i suoi cavalli sono carne e non spirito... vano e inutile è l’aiuto dell’Egitto» (cf. Is 30).

 

Così abbiamo abbandonato la speranza del colpo di stato e abbiamo cominciato a «cercare il Signore Dio». Gradualmente si è fatta luce nella nostra mente e abbiamo compreso il senso di ciò che era accaduto: Dio aveva tolto tutto alla sua Chiesa, anche la stima del popolo, «siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione» (Dn 3, 37), «non ci sono più profeti...» (Sal 74, 9). Abbiamo capito di esserci lasciati ingannare da «ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri», e abbiamo sperimentato che questo era accaduto «perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità» (2 Tess 2, 9-10).

 

 

 

Gli anni della rinascita:
Dio al primo posto e la sua Parola

 

La catastrofe era dunque nel disegno di Dio su di noi, il tempo del deserto, il cammino verso la terra promessa.

 

Non abbiamo più aspettato la liberazione dagli uomini, e abbiamo incominciato ad aprirci a Dio. Nella nostra vita si faceva strada una nuova scelta di Dio, una nuova fiducia in lui: ritornavamo a Dio. L’attesa dopo gli anni Cinquanta, che ci faceva guardare verso i monti per vedere da dove sarebbe venuto l’aiuto, prendeva forma: il nostro posto era quello in cui ci trovavamo, il «socialismo». A popo a poco abbiamo perduto la paura, non abbiamo più osservato i divieti ingiusti, abbiamo confidato nella salvezza che viene dal Signore.

 

Nemmeno la ‘primavera di Praga’ fermò il nostro cammino. La Chiesa clandestina era nata e di nuovo ci trovavamo insieme, formavamo comunità, cercavamo la comunione che ci era tanto mancata. Attraverso le piccole comunità di studio, di preghiera, di ascolto della Parola, abbiamo riscoperto la Chiesa viva. Non avevamo paura del pericolo a cui ci esponevamo; rischiavamo perché eravamo felici di aver ritrovato il retroterra, la casa, la famiglia, la Chiesa.

 

Mettere Dio al primo posto significò, concretamente, vivere non secondo la nostra immaginazione umana, secondo la nostra mentalità e i nostri criteri, bensì secondo la parola del vangelo.

 

Ci sembrava che si fosse realizzata in noi la profezia di Ezechiele: «Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» (Ez 34, 11) e ancora: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119, 105).

 

Dio al primo posto, la sua Parola, e poi tutto il resto.

 

Soprattutto d’estate i boschi e le montagne erano pieni di gruppi della ‘Chiesa viva’.

 

La nostra ripresa coincideva con il crollo di tutte le speranze umane e con la perdita di fiducia nei falsi apostoli degli anni Cinquanta. Dopo la ‘primavera di Praga’ la gente anelava al bene e alla verità, i giovani sentivano il bisogno di una nuova ricerca. Noi potevamo offrire, con la nostra esperienza di Dio, quello di cui avvertiva la necessità.

 

I candidati al sacerdozio studiavano nella clandestinità, poi venivano ordinati. Emergeva sempre meglio quella personalità simbolica, segno della fedeltà al Santo Padre, che era il Cardinale Tomasek: attorno a lui la Chiesa si era riunita, come lo dimostra la raccolta delle firme negli anni 1987-1988. Era ormai chiaro che questa Chiesa rinnovata era una forza grandissima, era l’elemento più importante per futuri cambiamenti.

 

 

 

Ciò che veramente è importante...

 

Cosa rappresentano ora per noi questi anni?

 

Per noi, come ho detto, sono stati anni del deserto, anni nei quali abbiamo capito che la Chiesa è una comunità interiormente viva attraverso l’unità tra vescovi, sacerdoti, laici; che la Chiesa può non solo vivere ma anche crescere senza case, senza benefici, senza organizzazione, senza teologia; che la Chiesa ha soltanto bisogno dell’unità nell’amore reciproco. Per noi il segno dei tempi di questi quarant’anni è la riscoperta dell’unità e la presa di coscienza che non dobbiamo più perderla.

 

Un altro segno dei tempi è stata la scoperta, dolorosa, che nella nostra vita concreta ci appoggiamo su noi stessi, sulle cose umane, sulle nostre capacità, sui potenti, sulla politica, più che su Dio. I sacerdoti che sono entrati nella organizzazione statale, in quel mmovimento per la pace denominato Pacem in terris, volevano vivere nella tranquillità, volevano salvare la loro vita. Abbiamo creduto che ci potessero salvare gli eserciti e i carri armati, mentre la salvezza è venuta dal Signore. Anche i non credenti dicevano, durante la rivoluzione di «velluto»: ma questo è un miracolo! «Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare... Allora si diceva tra i popoli: il Signore ha fatto grandi cose per loro» (Sal 126, 1-2). Sì, il Signore ha compiuto il miracolo, il miracolo mariano di Fatima, perché «il mio aiuto viene dal Signore che ha fatto cielo e terra... non si addormenta, non prende sonno il custode di Israele» (Sal 121, 2.4).

 

E perché questo segno non venga dimenticato da noi, Dio lo ha posto su uno sfondo molto contrastato: «Ho visto l’empio trionfante ergersi come cedro rigoglioso; sono passato e più non c’era, l’ho cercato e più non si è trovato» (Sal 37, 35-36). Chiedo al Signore che il suo volto non ci abbandoni, che il suo volto, apparso nella notte oscura e senza speranza, non ci lasci nei tempi tranquilli, nei tempi della libertà, delle speranze e delle prospettive nuove.

 

 

 

... per il viaggio verso il futuro

 

Per lungo tempo Dio ci ha lasciati senza pastori. Nella mia diocesi non c’è stato un vescovo per diciotto anni; con la ‘primavera di Praga’ è rimasto per quattro anni e poi di nuovo, per altri diciotto anni, ne siamo stati privati.

Abbiamo sperimentato che cosa significa un gregge senza pastore: «Si sono disperse le pecore e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34, 6).

 

Non solo i laici, ma pure i sacerdoti hanno sofferto; soli, senza vescovo, ciascuno era vescovo a se stesso e tanti si sono orientati verso il potere statale. Non a caso il profilo del sacerdote in questi anni si è tanto deformato.

 

Quelli che hanno ricoperto, durante questo tempo, la «cattedra di Mosè» erano spesso uomini molto deboli e così il Signore ci ha fatto capire duramente la sua parola: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere» (Mt 23, 3).

 

Il Signore ci ha insegnato ad apprezzare il vescovo. Quando stavo uscendo dalla cattedrale di Praga in occasione delle celebrazioni per il novantesimo compleanno del cardinale Tomasek, un cardinale dell’Europa occidentale mi disse sospirando: «Da voi, quando si menziona un vescovo, la gente applaude, mentre da noi fischia!». A noi l’ha insegnato il Signore, nella scuola del deserto.

 

mons. Miloslav Vlk