L’evangelizzazione verso la «civiltà dell’amore»

 

 

Per una cultura europea:
il contributo dei cristiani

 

 

di Hanspeter Heinz

 

L’Europa di domani sarà fatta di nazioni, culture e fedi riconciliate, con porte e finestre aperte a uomini e donne del resto del mondo, se oggi la civiltà dell’amore con la sua forza vitale riesce a permeare l’uomo intero fino ai suoi criteri di giudizio, ai valori che lo determinano, agli interessi che lo guidano. Ecco il fulcro di un possibile contributo cristiano alla cultura della nuova Europa. L’autore, in un articolo già pubblicato sulla edizione tedesca della nostra rivista, lo esemplifica esaminando alcuni ambiti particolari.

 

 

La chance  e la  sfida  per  l’Europa  oggi  si condensa bene in quel giorno-simbolo che è stato il 9 novembre 1989. Da un lato esso è simbolo delle mostruosità compiute in Europa da uomini nei confronti di altri uomini, nonostante le grandi conquiste della nostra cultura; e dall’altro esso è gravido di una speranza che sembrava essersi spenta da tempo, nonostante il messaggio cristiano e gli ideali umanitari. Quel giorno non illumina soltanto la storia dei nostri giorni, ma sintetizza in maniera drammatica tutta la storia movimentata del nostro vecchio continente. Ma come camminare, ora, verso nuove sponde? Dopo decenni di impegno per l’unità dell’Europa Jean Monnet ha potuto dire ripetutamente: «Se avessi previsto quanto è avvenuto, avrei cominciato dalla cultura e non dal mercato economico». Sottoscrivo pienamente. Ma il profilo che assumerà la cultura europea per la nuova epoca dipende, non per ultimo, dall’impegno cristiano. Proprio in Europa, considerata un po’ ovunque come il continente cristiano, noi cristiani abbiamo contratto un debito che dobbiamo assolvere.

 

 

 

L’inizio di una nuova epoca

 

L’apertura del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, divenne un simbolo di speranza ben oltre la Germania divisa. In un baleno era scomparsa la cortina di ferro che aveva diviso l’Europa intera. Gli uomini ancora una volta sono stati, e sanno di poterlo essere, più forti di qualunque sistema, per quanto possa apparire invincibile.

L’improvvisa svolta, infatti, era stata preparata da tempo con l’apporto di tanti: dai grandi europeisti dell’ovest e dai protagonisti delle ribellioni popolari sin dagli anni ’50 nei paesi satelliti del comunismo, a singole personalità come Walesa, Gorbaciov, Giovanni Paolo II, Havel, ma anche ai movimenti di liberazione nelle Filippine, in Cina e Cile. La speranza che si può giungere con i mezzi della non-violenza ad un mondo libero e unito, purché vi siano negli uomini i presupposti necessari, non si può ormai più spegnere.

 

Questo processo storico è irreversibile: il futuro appartiene alla democrazia, ad una economia del mercato attenta ai problemi dell’ecologia e del sociale, a un ordine internazionale della pace e dell’economia. Il fallimento della politica di segno contrario ne è la conferma. Resta da sperare che il nostro secolo diventi, almeno al suo tramonto, il secolo dell’uomo grazie al rispetto dei diritti umani non soltanto postulati ma anche praticati. Certo, non ci rimane altra scelta che risolvere i problemi esplosivi della pace, della giustizia e dell’ambiente, con una solidarietà a livello mondiale. Se non cogliamo la +chance del momento, la catastrofe è assicurata. All’Europa occidentale tocca fare il primo passo. Chi infatti ha più spazio d’azione delle ricche nazioni industrializzate?

 

Ma la necessità di una umanità unita non è di per sé, purtroppo, la garanzia che questa meta sarà raggiunta. Il contraccolpo del conflitto del Golfo è stato per tutti una brusca frenata. Nell’epoca dell’uomo tutto dipende dagli uomini che fanno la storia dagli innumerevoli piccoli assieme ai pochi grandi e naturalmente dal Signore della storia il quale però «fa con noi ciò che fa per noi», come usano dire i Padri della Chiesa.

 

 

 

Il debito contratto nel passato

 

Esattamente un anno prima dell’apertura del muro di Berlino, il 9 novembre 1988, ricorreva il 50o anniversario della cosiddetta «notte dei cristalli». In tutte le città tedesche questo giorno ha avuto grande eco nei mezzi di comunicazione. In quella notte di terrore erano state distrutte tutte le sinagoghe esistenti in Germania. Le trasgressioni violente contro i concittadini ebrei non rappresentavano che una radicalizzazione della persecuzione contro di loro e alla fine avrebbero portato all’assassinio di sei milioni di ebrei, uomini, donne e bambini. Ha detto il premio Nobel, Elie Wiesel: «Dimenticare significherebbe tradire: se siamo sopravvissuti per tradire i morti sarebbe meglio per noi non essere sopravvissuti».

 

Con i recenti avvenimenti, l’asse dell’Europa si è spostato ad est. Auschwitz ora è al centro dell’Europa. Più di ogni altro, questo nome ricorda i campi di sterminio della dittatura di Hitler. Originariamente allestito per l’annientamento della intellighènzia polacca, questo campo è stato tristemente testimone dell’assassinio di milioni di europei: polacchi, russi, ungheresi, tedeschi, olandesi, belgi, francesi, nomadi. Ma soprattutto ebrei, semplicemente perché erano ebrei. Quale cimitero ebraico più grande d’Europa, Auschwitz è il «simbolo reale» dell’olocausto, la schoah, vale a dire il tentativo di sterminare il popolo ebraico. Specialmente nei paesi di lingua tedesca, questo nome è diventato anche il simbolo della storia disastrosa dei rapporti ebreo-cristiani e monito alla conversione cristiana. Auschwitz sembra rappresentare il capitolo più buio della storia della civiltà europea ed anche della storia della Chiesa. Non si può infatti immaginare attacco più malvagio e disumano a quell’immagine di Dio nel mondo che è in maniera particolare il popolo ebraico.1

 

Gravido di una imprevedibile speranza e di un duro monito che ci impegnano in vista del futuro, il 9 novembre sembra inaugurare una nuova epoca per l’Europa. Berlino, senza Auschwitz, non sarebbe una base adeguata al futuro rinnovamento. Chiudere definitivamente con il brutto passato sarebbe un’utopia pericolosa; perché ben presto questo passato finirebbe per catturarci nel nostro tentativo di una fuga in avanti.

 

 

 

Costruire insieme la nuova città

 

All’insegna della libertà e dell’unità, sono da sviluppare e creare nuove strutture politiche, economiche e sociali. Questa seconda tappa, vale a dire la costruzione della casa europea, ovvero della nuova città Europa, esige forse ancor più forze di quelle richieste per lo smantellamento dei muri.

 

Oggi si presenta a tutti gli europei la domanda: quale città vogliamo costruire? Vogliamo mirare a una restaurazione della cristianità occidentale nella quale certi gruppi per secoli rimasero estranei? Pensare in maniera eurocentrica significherebbe voler prolungare l’epoca della tentazione totalitaria che sta per tramontare. Smantellare i muri che attraversano e circondano l’Europa e impegnarsi per un continente aperto, fatto di nazioni, culture e fedi riconciliate: ecco il nostro compito storico! Una città con porte e finestre aperte per tutti gli europei e anche per uomini e donne provenienti dal resto del mondo. Questo risponde alla promessa biblica e anche alla storia della cultura europea.

 

Una seconda domanda si impone oggi a tutti gli europei: chi dovrà costruire la nuova città? Attualmente vediamo all’opera soprattutto economisti, banchieri e politici. Ad essi tocca senz’altro un compito quasi troppo oneroso. Ma senza uomini nuovi una nuova economia e una nuova politica, una nuova arte e una nuova scienza, ma anche una Chiesa rinnovata, sono destinate a rimanere illusioni. Non c’è speranza di progresso senza una civiltà dell’amore. Vale a dire: l’amore deve permeare con la sua forza vitale l’uomo intero fino ai suoi criteri di giudizio, ai valori che lo determinano, agli interessi che lo guidano, al suo modo di pensare, di parlare e di rapportarsi con gli altri; in una parola: fino a tutto il vasto ambito che la cultura abbraccia. Non solo la fiducia in Dio, ma anche la nostra storia fa pensare che una tale civiltà dell’amore in Europa è realmente possibile.

 

Persuasi dell’azione dello Spirito anche nel nostro secolo, ci chiediamo se, per un’epoca in cui il mondo va sempre più verso la propria unità, non sono forse doni provvidenziali anche per il «cantiere Europa» gli orizzonti aperti dal concilio Vaticano II (quale iniziativa del ministero gerarchico) e gli orizzonti aperti dai molteplici movimenti spirituali (quali iniziative in seno alla comunione della Chiesa)!

 

 

 

 

ELEMENTI
DI UNA CIVILTA’ DELL’AMORE

 

L’economia, la comunicazione, la mistica, sono alcuni degli elementi necessari per la costruzione di una nuova Europa. Non ci interessa però qui direttamente il mondo dell’economia, della comunicazione o della religione. Ravvisando nella «civiltà dell’amore» un nome cristiano per una autentica cultura europea, vorremmo piuttosto interrogarci sulle radici culturali di questi ambiti della vita e della convivenza umana. Essi non sono infatti governati da leggi anonime e oggettive, indipendentemente dalle persone e dai loro modi di comportamento.

Cercheremo, per ciascuno dei tre ambiti, di descrivere rapidamente la situazione attuale per evidenziare poi lo specifico contributo cristiano condensandolo in una idea programmatica e in un esempio, rifacendoci così alle due dimensioni parole profetiche e segni profetici che caratterizzano in Gesù l’annuncio del regno di Dio.

 

 

 

1.

Una nuova economia:
la comunione dei beni

 

L’amore richiede lavoro, tempo, denaro. L’amore non trattiene nulla per sé. L’amore fa circolare i beni. Perciò la civiltà dell’amore non può prescindere dal mondo dell’economia. E giacché qui ci occupiamo della cultura dell’Europa, la domanda da porsi è come impostare l’economia, affinché essa serva alla vita e alla convivenza degli uomini e dei popoli.

 

 

Nuove sfide e nuove opportunità

 

 

L’economia dei paesi un tempo comunisti non può reggere la concorrenza sul mercato europeo sia per la scarsa qualità dei prodotti sia per l’insufficiente formazione della dirigenza. E’ inoltre impossibile superare da un giorno all’altro la mentalità della popolazione abituata ad attendersi tutto da uno stato assistenziale.

 

Anche negli stati occidentali sono da segnalare pesanti deficienze. Innanzitutto un senso di superiorità nei confronti dei vicini dell’est che induce a mettere sotto tutela e a interdire chi è economicamente più debole: «Rimetteremo ben presto in ordine la vostra economia corrotta e inefficiente!». Un atteggiamento del genere non può non provocare nuovi conflitti sociali. Senza parlare poi della visione prevalentemente «economica» della vita che caratterizza la mentalità occidentale che in ogni campo pone la domanda: «Che vantaggio ne posso trarre?».

 

Il mercato dell’est è crollato; quello dell’Europa dell’ovest si è allargato. Da un lato non si può far fronte alla crescente domanda, per mancanza, soprattutto, di mano d’opera qualificata; dall’altro centinaia di migliaia di persone desiderose di lavorare rimangono disoccupate principalmente perché sprovviste delle capacità richieste in una economia di mercato. Come uscire da questo vicolo cieco? Verrebbe da concludere che l’unica via è prendere sul serio le qualità umane, affinché da esse si sviluppino a poco a poco anche le capacità professionali. Sono, di fatto, riscontrabili nell’est delle qualità umane assai preziose che, per il bene dei singoli e dell’insieme, non possono essere più a lungo ignorate e poco valorizzate: prontezza a lavorare, responsabilità per la famiglia, solidarietà nella sofferenza, impegno per i diritti umani, coraggio nella resistenza.

 

L’impegno a risolvere gli immensi problemi ecologici nei paesi orientali deve portare a intensificare gli sforzi ecologici nell’ovest, per avvicinarci così alla meta di una economia di mercato con orientamento ecologico. Allo stesso modo la cooperazione economica tra est e ovest non deve assorbire le forze volte a superare il dislivello globale tra Nord e Sud e a far fronte, all’interno della stessa Europa occidentale, alla emarginazione dei più svantaggiati. D’altra parte, se si evitano nocive chiusure, l’atteso successo del comune e tenace lavoro di ricostruzione, in ambito europeo, potrebbe rafforzare la decisione di affrontare con altrettanta tenacia e solidarietà anche altre sfide. Niente infatti sprona ad un ulteriore impegno come l’esperienza di progressive conquiste.

 

 

Il contributo dei cristiani

 

L’immane dimensione dei problemi economici può condurre sia alla presunzione di voler risolvere tutto sul piano tecnologico, che alla rassegnazione e all’egoismo secondo una logica in cui ciascuno tenta di salvare per sé il salvabile. Può venire però anche compresa come opportunità per superare, con sforzo congiunto, i livelli attualmente raggiungibili. Dal punto di vista del vangelo solo questa via è legittima. Può servirci qui di chiarificazione una teoria economica.

 

Il concetto ideale di un’autentica economia di mercato che attualmente ha troppo scarso riscontro nell’economia di marca occidentale mi fu spiegato così da un consulente d’impresa di Monaco di Baviera, un uomo di successo: «Con l’aiuto di istituti specializzati mi disse i nostri rappresentanti analizzano innanzitutto il mercato, cercando in questo modo di individuare i bisogni autentici e profondi delle persone distinguendoli da quelli solo effimeri, legati a qualche moda. Evitiamo così che i nostri clienti, in un secondo momento, ci rimproverino di aver fornito loro delle cose inutili. Ed avrebbero senz’altro ragione, anche se prima sono stati loro stessi a chiedercele. Ciò che importa, per noi, è fare il bene del cliente. In base ai risultati di queste ricerche la nostra ditta sviluppa determinate offerte e programma la produzione e la diffusione del prodotto secondo il criterio della riduzione al minimo dei costi. Va detto però che la più efficace forma di risparmio sta nella maggiore o minore soddisfazione dei collaboratori». E il mio interlocutore concluse: «Il nostro vero prodotto non sono determinate merci o servizi, ma ciò che noi in fondo produciamo è la comunicazione tra clienti, rappresentanti, ingegneri, operai, impiegati e imprenditori. Se manca questa comunicazione una ditta oggigiorno è destinata a fallire, per quanto possano essere validi i suoi prodotti, vantaggioso il mercato, rispettabili le riserve di capitale».

La chiave di volta indicata da questo esperto in economia e questo è significativo sta nelle relazioni umane. Viene da chiedersi: il dialogo, il prendersi sul serio reciprocamente, la collaborazione, il comune impegno per gli altri, non sono forse traduzioni di quello che la Bibbia chiama «amore»? E allora questo ideale imprenditoriale non è anche un ideale genuinamente biblico a condizione, evidentemente, che veda negli altri non solo dei partner di affari ma creature di Dio, fratelli e sorelle?

 

L’impegno sociale di gruppi cristiani lo conferma. Esso mette in luce quale capacità di amarci scambievolmente viene sprigionata dall’amore di Dio in noi; testimonia come il lavoro, andando al di là della pura efficienza, guadagna in bellezza e soddisfazione; fa vedere infine che la comunione, mettendo in atto un generoso scambio di beni materiali e spirituali, è ben più dell’economia di mercato, anche perché fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio che non farà mancare i suoi doni. Lo sta a testimoniare questo racconto dal Nord Italia.

 

Venti anni fa, durante un incontro con altre parrocchie, un piccolo gruppo di persone di Vallo Torinese ha scoperto la potenza del vangelo: «In quell’incontro racconta il parroco comprendemmo che dovevamo fare di Dio il centro della nostra esistenza e che era possibile vivere il vangelo anche nel nostro tempo ed anzi viverlo insieme». Da allora molte cose sono avvenute a Vallo Torinese. Si sono incontrati regolarmente per approfondire la Parola della Scrittura e  per comunicarsi le esperienze fatte a contatto col vangelo. Con naturalezza e spontaneità questo scambio di beni spirituali condusse a una comunione che fece circolare nella comunità anche i beni materiali. «Periodicamente, come famiglia, facciamo una revisione delle cose che possediamo spiega Gianna, infermiera e madre . Tutto ciò che per noi è superfluo viene donato a chi ne ha bisogno, cosa che anche altri della comunità fanno, in modo che tutto circoli fra di noi». Senza una comunione del genere questa parrocchia con i suoi 800 abitanti, prevalentemente operai e contadini, certamente non sarebbe stata in grado di costruire un Centro parrocchiale e di dar vita a quelle strutture caritative che oggi la caratterizzano. «Alle volte Dio ci fa capire attraverso qualche segno che siamo sulla strada giusta», ci racconta Valeriano, diacono sposato. «Alcuni mesi fa, ad esempio, venne da noi un ospite che aveva bisogno di un prolungato periodo di riposo. Alla sua partenza abbiamo speso gli ultimi soldi che avevamo per procurargli le medicine necessarie. Due giorni dopo, mia moglie è arrivata a casa con un assegno che non osava neppure guardare, donatole da una persona con cui prima non avevamo alcun rapporto. Era venti volte quello che avevamo speso, esattamente la cifra che occorreva per acquistare il gasolio per l’inverno». «Esperienze insolite come questa non ci fanno gridare al miracolo dice ancora il parroco , ma ci incoraggiano a continuare a praticare nella vita di ogni giorno la comunione cristiana dei beni».

 

 

 

2.

Una nuova esigenza: il dialogo

 

L’amore non vuole soltanto mettere in circolazione i beni; l’amore vuole anche irradiare, coinvolgere altri e aprirsi agli altri. Nello scambio interculturale acquista sempre più rilevanza l’intesa circa i criteri etici.

 

 

Nuove sfide e nuove opportunità

 

Ai nostri giorni un malinteso «zelo missionario» mette in pericolo la progressiva unificazione dell’Europa. Dopo l’apertura delle frontiere degli stati esso finisce per erigere fra gli uomini nuove barriere. Se uno dei partner si atteggia nella posizione di chi sa tutto, lasciando all’altro solo il ruolo dell’allievo ignorante, si viene meno al principio base della comunione interpersonale: la parità dei partner. La nuova situazione di fondo, con il crollo del sistema dell’est e la sua sostituzione col sistema dell’ovest, può condurre a simili ruoli, ma sarebbe disastroso se essi si prolungassero nel tempo.

 

L’aperto scambio culturale fra gli europei viene tuttora  contraddetto dalla emarginazione di minoranze (come ad esempio gli ebrei e i musulmani) e dà rivalità nazionalistiche. Un’Europa solo per i cristiani non sarebbe affatto un’Europa cristiana. Non possiamo non imparare ad apprezzare anche altre religioni e culture, specialmente quando ci rendiamo conto che lo Spirito Santo ha fatto maturare in esse dei frutti che hanno magari prosperato meno nei «giardini cristiani»...

 

Riscoprendosi oggi nella sua integrità, l’Europa diviene in maniera nuova e diversa partner nel dialogo con gli altri continenti. Ma ciò richiede che l’Europa oltre ad essere maestra impari ad essere anche allieva. Per fare qualche esempio: dai sudamericani noi europei possiamo imparare molto circa la dignità e il rispetto della vita, e non meno dagli africani quanto al senso della comunità e delle relazioni interpersonali.

 

 

Il contributo dei cristiani

 

Nell’enciclica Ecclesiam Suam, Paolo VI ha disegnato l’ideale di una Chiesa in dialogo, confermato poi dal Concilio quale sfida per la Chiesa di oggi. Certamente, nella realtà, noi cristiani spesso non corrispondiamo ancora a questo ideale: siamo in cammino verso una Chiesa in dialogo. Evidentemente ciò significa un chiaro «no» a ogni forma di integrismo e indifferentismo, senza rinunziare a un autentico spirito missionario.

 

La «strategia» cristiana del dialogo si potrebbe forse riassumere nel modo seguente: ascoltare l’altro per conoscerlo meglio a partire dalla sua autocomprensione (imparare anche a vedere noi stessi con gli occhi dell’altro); testimoniare all’altro la propria autocomprensione, perché ha il diritto di conoscere anch’egli il suo partner; imparare l’uno dall’altro, perché almeno storicamente nessuno «possiede» la verità tutta intera.

 

L’auspicato risultato del dialogo sarebbe che la Chiesa in questo modo diventi più Chiesa. Col contributo di nuove culture essa diviene infatti sempre più quell’«universale sacramento di salvezza» per il mondo di cui parla la Gaudium et Spes (GS 45). Nello stesso tempo le culture, nell’incontro col vangelo, trovano un’occasione di crescita e di una più profonda comprensione dei loro valori autentici.

 

Quale allora lo specifico contributo dei cristiani nell’ambito del dialogo? Ricorriamo ancora una volta ad un esempio.

 

Un’esperienza particolarmente profonda di dialogo è stata per me il recente viaggio di una delegazione del Comitato centrale dei cattolici tedeschi a Budapest dove vivono tuttora più di ottantamila ebrei. In tutta l’Europa solo la Francia e l’Inghilterra registrano una simile percentuale di ebrei nel quadro della loro popolazione. Se ce ne fosse stata necessità, quel viaggio mi ha fatto prendere nuovamente coscienza dell’inutilità di tutti i mezzi economici, di tutte le riflessioni

 

intellettuali e gli studi approfonditi, se non c’è contemporaneamente l’incontro personale e cordiale. Ebbene, quei pochi giorni sono stati costellati di incontri di questo tipo. Ad esservi coinvolte sono state molte personalità di primo piano nella società ungherese: due vescovi, sei dei dieci rabbini di quella nazione, il vicepresidente del consiglio dei ministri, il presidente un ebreo del partito all’opposizione, ma anche una parrocchia urbana di recente fondazione, ecc. Tutti i nostri interlocutori ci hanno manifestato il loro desiderio di darsi da fare, benché consci di non possedere ancora né un progetto già pronto né le forze sufficienti. Pur riconoscendo la loro fragilità di fronte agli immensi compiti del futuro e le manchevolezze del loro passato non sempre glorioso, hanno manifestato unanimemente la volontà di guardare al di là del proprio ambito anche se, nell’attuale situazione, ciascuno ha molto da fare in casa propria. C’era quindi grande interesse per il dialogo cristiano-ebraico, che noi portiamo avanti ormai da più di venti anni con risultati assai positivi. Questo viaggio ci ha incoraggiato molto, perché abbiamo visto come persone che vivono in situazioni ben più difficili delle nostre, non cedono, e ci siamo potuti render conto di inizi già promettenti. Non solo. La nostra delegazione, che contava venti persone, ha potuto fare un’autentica esperienza di comunione sulla base della Scrittura. «In questi giorni non ho avvertito alcun cenno di quello spiacevole senso di superiorità che spesso si nota: ci siamo incontrati sempre come partner alla pari», ha osservato, a conclusione del viaggio, una partecipante. Quanto agli ungheresi, in più occasioni abbiamo potuto fare da catalizzatori per un primo incontro tra i due partner del dialogo in quella nazione, col risultato che questi ora desiderano rimanere in contatto. E’ un fatto non secondario sullo sfondo della prossima visita del Papa, alla quale si sta guardando con particolari speranze proprio per un rapporto più costruttivo fra ebrei e cristiani.

 

 

 

3. Una nuova mistica: l’unità

 

L’amore vuole andare in profondità. E’ noto che le radici della civiltà sono nel culto, nel rapporto con Dio. Tagliata da questa radice, presto una civiltà si inaridisce come un fiore reciso. Anche il vangelo conosce i «classici esercizi» che in tutte le religioni guidano verso il profondo: preghiera, digiuno, elemosina (cf. Mt 6, 1-18). Ma la novità e il suo distintivo è la scoperta che proprio la carità reciproca dei cristiani deve divenire il luogo dell’esperienza di Dio.

 

 

Nuove sfide e nuove opportunità

 

All’est l’ateismo militante organizzato dallo stato ha creato un vuoto spirituale, ma non ha potuto spegnere un «bisogno elementare» per le realtà dello spirito, anzi ha ravvivato un’acuta sensibilità al divino. Il crollo di una ideologia non conduce però automaticamente ad aprirsi a ideali autentici, ma può indurre anche a un generale clima di sospetto e, di conseguenza, a una visione della vita meramente pragmatica, come è avvenuto in certo modo nella Germania del dopo guerra.

Ad ovest l’ateismo pratico ha creato un vuoto altrettanto grande con effetti non dissimili. Da un lato dilaga l’indifferentismo religioso, che può essere ben più grave del conflitto aperto; dall’altro sono largamente subentrati alla fede cristiana una vaga religiosità, una gnosi e un esoterismo in chiave moderna.

Assieme alla fede in Dio è rimasta scossa anche la fede nell’uomo, la fiducia reciproca. Come sperare allora in una riconciliazione all’interno degli stati dell’Est e fra i popoli dell’Europa se non si è disposti a concedersi reciprocamente fiducia? D’altra parte, recuperare la fede nell’uomo significa anche crescere nella fiducia in se stessi, esprimere un sano senso di identità, scoprirsi capaci di assumere la propria responsabilità e di affrontare ragionevoli rischi.

 

Non poche forme in cui si esprime la ricerca religiosa in Occidente («New Age») testimoniano l’esigenza di una spiritualità che prenda in considerazione non solo l’al di là ma anche l’al di qua, il bene non solo del singolo ma anche dell’insieme, il benessere non solo dell’anima ma anche del corpo. La classica dinamica della vita spirituale, come l’ha formulata sant’Agostino: «dall’esterno (mondo) all’interno (anima) verso l’alto (Dio)», chiede di essere integrata.

 

 

Il contributo dei cristiani

 

Giovanni Paolo II ha chiamato l’eclissi di Dio, propria dei nostri giorni, notte mistica collettiva, alludendo con ciò a quella esperienza altrettanto feconda quanto tremenda dell’assenza di Dio  vissuta da tanti santi come una tappa del loro cammino spirituale. Secondo il Papa, questa esperienza individuale, alla cui fine la luce della fede si rivela con nuova forza, può servire da chiave di lettura della situazione attuale anche di un continente intero. Come non mai prima, infatti, l’uomo di oggi sperimenta il limite e la paura; paura motivata non soltanto dalle circostanze esterne, ma anche di origine interiore. Senza pietà la filosofia del nostro secolo mette a nudo la lacerazione dell’uomo. Parlare di una notte mistica collettiva, di una generale esperienza di assenza di Dio, non appare esagerato. Ma questa diagnosi per il credente contiene anche una promessa: nell’amore reciproco vuole nuovamente rifulgere la luce dell’amore di Dio che vince ogni paura. Solo una mistica collettiva, vale a dire: solo la comunione come luogo della rivelazione di Dio, potrà capovolgere la situazione spirituale dell’Europa. Sta qui la rilevanza di una spiritualità come quella dell’unità proposta da Chiara Lubich.

Il concilio Vaticano II è stato un segno profetico in questo senso, un segno che fece destare l’opinione pubblica. Per chi, come me, ha potuto seguire da contemporaneo il Concilio, esso apparve una «dimostrazione» singolare di come la comunione cristiana produce luce, forza e speranza. La reciproca accoglienza senza accettazione di persone, la comune ricerca per la riforma della Chiesa, il raggiungimento di risultati unanimi grazie alle virtù della pazienza e del dialogo sincero, la comunione spirituale e la comune preghiera hanno dato origine a un’esperienza di Chiesa che ebbe riflessi ben oltre i suoi confini visibili. Altra caratteristica di quell’Assemblea è stato il contributo generoso e l’esame critico di conquiste regionali per il bene dell’insieme. Così ad esempio i vescovi nordamericani hanno messo in luce il bene, fiorito nella loro terra, della libertà di religione che poi avrebbe fatto storia soprattutto nella sfera dei paesi comunisti; la Francia e i paesi di missione hanno offerto il bene del catecumenato degli adulti che ha trasformato nel postconcilio soprattutto il paesaggio delle Chiese americane; i paesi di lingua tedesca hanno trasmesso la loro sensibilità alla riforma della liturgia, all’ecumenismo e all’apostolato dei laici, diventati poi bene comune in tutto il mondo. In breve: l’amore reciproco ha sprigionato «energie», che hanno trasformato i Padri del concilio non meno che i tradizionali esercizi spirituali e gli sforzi ascetici, facendo crescere in loro e fra loro la vita di Dio e testimoniando come la comunione ecclesiale diventi per la nostra epoca luogo privilegiato dell’esperienza di Dio.

 

 

 

Conclusione

 

Prendendo ad esempio tre grandi ambiti, abbiamo cercato di illustrare il contributo dei cristiani per la costruzione della nuova «città» Europa. Certo il nostro abbozzo non fornisce che un’idea di quanto in Europa ci si può attendere da parte della Chiesa per una civiltà dell’amore.

 

Di fronte alla sfida storica tale contributo può apparire sì originale, ma assai limitato. A ben guardare, questa impressione tuttavia non è esatta, non solo perché assieme a noi cristiani anche molti altri lavorano a loro modo per la cultura di una Europa unita ed aperta sul mondo, ma anche perché ci sono tutti i motivi per pensare che Dio stesso concorrerà generosamente a questo futuro. Visto così, ciò che all’occhio umano può apparire piccolo e parziale è da considerarsi, in seno alla storia, una realtà «sacramentale», segno e strumento umano-divino di un progetto che ci fa davvero sperare.

 

Hanspeter Heinz