Il
mistero dell’uomo nel mistero di Dio. Intervista a Giuseppe M. Zanghì
a
cura di Lino D’Armi
Come
parlare oggi di Dio? Quale il rapporto tra teologia e vita? Quale in
prospettiva cristiana il fulcro del mistero di Dio? E quale la sua rilevanza
per il cammino dell’uomo nella storia? Sono queste alcune delle domande che si
pone, con acutezza, uno stimolante volume pubblicato recentemente, dal titolo
«Dio che è Amore. Trinità e vita in Cristo». Ne abbiamo parlato, in
un’intervista, con l’autore, Giuseppe Maria Zanghì, il quale offre in questo
saggio riflessioni intense che hanno per costante riferimento la propria
vigorosa esperienza cristiana e umana, vissuta da quasi 40 anni nel Movimento
dei focolari.
Come
parlare oggi di Dio?
GEN’S:
Non è una novità parlare di crisi della cultura dell’Occidente. Sotto il
profilo religioso, ci troviamo di fronte a un modo di vivere e di pensare che,
pur non giungendo sempre ad esplicite professioni di ateismo, tuttavia di fatto
prescinde da Dio, soprattutto se si considera l’influenza esercitata da un
consumismo crescente. Secondo lei, cosa è all’origine di questa situazione? E
in quali termini parlare di Dio in questo contesto?
Sì,
il parlare di Dio oggi è in crisi: Dio è una parola che risulta consumata,
svuotata. E il motivo principale mi sembra questo: Dio, da mistero che è, negli
ultimi 200-300 anni è diventato problema.
Se
mi pongo davanti a Dio come mistero, io assumo l’atteggiamento di adorazione,
di ascolto, cioè gli faccio quello spazio esistenziale e intellettuale, senza
del quale Dio non potrà mai parlarmi. E, se è Lui a parlarmi, allora vengo
provocato a un parlare a mia volta che è adeguato a Lui; per cui chi mi ascolta
senz’altro mi accoglierà e mi comprenderà.
Al
contrario, se io prendo Dio come problema, allora, invece di lasciarmi
compenetrare da lui, lo pongo e lo mantengo di fronte a me, come realtà che può
rispondere alle mie e altrui esigenze; ma sono io, anche senza accorgermene,
che purtroppo costruisco con la mia mente questa immagine di Dio: per cui essa
porterà con sé i miei stessi limiti.
Il
frutto maturo del porre Dio come problema è il progressivo appannamento ed
eliminazione del mistero. E, scomparso il mistero, scompare il Dio vivente,
senza del quale non ha senso la mia vita, nè quella degli altri. Infatti,
quando Dio diventa problema, diventa problema anche l’uomo, poichè ciò che
viene ferito con l’eclissarsi del mistero, è il rapporto stesso, con
chicchessia: è nel mistero che io posso autenticamente incontrare l’altro. Per
riconoscere che qui affonda le radici la crisi della cultura dell’Occidente,
basta avere una certa dimestichezza con le espressioni di punta della cultura
contemporanea.
Allora,
come parlare di Dio oggi? Avanzo un’ipotesi fondata nell’esperienza e che mi
sembra va alla radice: oggi l’uomo ha bisogno di riscoprire un parlare di Dio
che chiamerei «sostanziale»; un parlare fatto non innanzi tutto di parole ma di
un «discorso» ben più vitale. Mi spiego: ciascuno di noi, nell’unica Parola di
Dio, che è il Cristo, è una parola nella quale il Padre parla. E questa non è
una parola come quelle che si dicono con la bocca: essa è ciascuno di noi,
l’esistenza e la vita di ciascuno di noi. Ora, come le parole che pronunciamo
con la bocca non hanno senso se non sono relative l’una all’altra, e se non
sono unificate dal verbo, che dà loro significato, così, per parlare di Dio con
la nostra vita, occorre che ciascuno di noi si lasci comporre con le altre
parole di Dio, che sono i nostri simili, in un rapporto di reciprocità, da
colui che è il Verbo con la V grande. E’ lui che unifica e dà significato; è
tramite lui che possiamo insieme costituire quel parlare di Dio, di cui oggi
l’umanità ha un estremo bisogno e al quale anche oggi essa si mostra sensibile.
E’ proprio questo che intendeva Gesù, penso, quando disse: «Che siano uno,
affinché il mondo creda...» (Gv 17, 21).
Sostanzialmente
questo è il contenuto del primo capitolo del mio libro.
Una
rifondazione della teologia
GEN’S:
Un rifiuto, dunque, della teologia come si è intesa finora?
Non
direi, anche se non esiterei ad affermare che oggi si avverte l’esigenza di una
rifondazione della teologia. Non nel senso che quella a cui siamo tutti
abituati non sia più necessaria, ma nel senso che si sente il bisogno di
un’altra teologia che deve precederla e fondarla, e che io nel secondo capitolo
del libro intitolato «Teologia e vita» ho chiamato la «grande teologia», o, con
termini più tecnici, la teologia mistica o la teologia apofatica.
Lo
stesso Tommaso d’Aquino, come ricorda Maritain, si rendeva conto che il parlare
di Dio di quella teologia che ci è più nota, è un parlare che sono io ad avere
in mano, un parlare che dipende da me, che io determino... Mentre la teologia
apofatica o la teologia mistica è un’altra cosa: è un aprirsi al parlare di
Dio, un lasciare che Dio mi parli di Sé, si apra e si riveli nel suo mistero
che è Trinità.
Posto
a fondamento il fatto che, essendo noi divenuti parole nella Parola, grazie
all’unità tra di noi la Parola in persona, Gesù, ci rivela il Padre, possiamo
poi ritrovare la teologia come scienza, la quale in ambito cristiano ha
anch’essa senz’altro il suo posto. Il cristianesimo è l’avvenimento del Verbo
che si fa carne, del Figlio di Dio che assume interamente la natura umana: la
corporeità, la dimensione dell’anima umana, quindi la dimensione della volontà
e dell’intelligenza. Perciò è logico che la ragione abbia un suo ruolo: è qui
che si situa il sapere scientifico all’interno della fede.
Mi
preme però sottolineare la specificità del «logos» cristiano su Dio. Quando,
nella sua vicenda terrena, il Logos incarnato muore sulla croce, gridando al
Padre «perché mi hai abbandonato?», praticamente egli dichiara di non sapere,
di non vedere. Nello stesso tempo egli compie un gesto, in cui è la chiave
della risposta alla nostra domanda: «chinato il capo, diede lo spirito». Molti
esegeti sono concordi nell’interpretare che con queste parole viene indicato
non solo il morire del Verbo incarnato, ma anche il suo donare lo Spirito
Santo.
Quindi,
nel momento dell’eclissi della capacità conoscitiva, dal Logos scaturisce lo
Spirito Santo: ed è tramite questi che il Logos poi riapparirà in pienezza.
Infatti lo Spirito viene dato ai discepoli, ai quali lo stesso Logos aveva
detto prima di morire: «Quando me ne sarò andato, ve lo manderò (lo Spirito)» (Gv
16, 7); e «quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta
intera» (Gv 16, 13). Cioè il Logos mi dice la verità quindi mi dice Dio
non direttamente, ma in un altro, che è lo Spirito. Qui, a mio parere, sta la
radice di una cultura dell’amore, di una civiltà dell’amore.
Noi
purtroppo abbiamo creato una civiltà di parole, le quali, invece di essere
mezzi di comunione, sono diventate ostacoli che si frappongono tra me e gli
altri. Allora io ritengo che la nostra cultura, oggi smarrita nella selva dei
molti logos, deve tornare alla scuola del Logos e del Logos crocifisso, per
imparare da lui a dire il Padre in tutta verità: cioè lasciando parlare in noi
lo Spirito, che è lo Spirito dell’amore. Questo poi parla dando parola al
Verbo, ma lo fa come amore.
Portare
la teologia
sul piano della persona
GEN’S:
In questo contesto lei, nel suo libro, accenna alla importante distinzione tra
individuo e persona...
La
distinzione tra questo modo più completo di fare teologia di cui abbiamo appena
parlato e quello di sempre si riconduce in effetti alla distinzione tra la
persona e l’individuo. Se non si chiarisce tale distinzione, e non la si
risolve positivamente, a mio parere, diventa difficile poter fare un discorso
risolutivo e nuovo nella cultura contemporanea.
L’individuo
si caratterizza per una sorta di inseità: io sono io perché vivo in me e mi
differenzio da chiunque altro: di qui, poi, il bisogno di alzare gli steccati
per difendermi dagli altri. La persona, invece, è caratterizzata dalla sua
estrema capacità di alterità, cioè di essere se stessa nell’altro.
Applichiamo
questa distinzione al pensare umano e quindi al fare teologia. Se io vivo come
persona, il pensiero, sì, parte da me, ma si apre all’altro, che io vedo come
costitutivo della mia stessa interiorità. Nel senso che pervengo a una
interiorità che non può essere la mia di partenza, altrimenti finirei per
tradire l’alterità dell’altro; d’altra parte non può essere neppure l’alterità
dell’altro come tale, altrimenti avrei l’effetto esattamente opposto, cioè
verrei distrutto dall’alterità dell’altro. Dev’essere allora un tertium,
se così si può dire: cioè una presenza, una realtà, nella quale io e l’altro ci
incontriamo, uscendo da noi nell’atto del pensare, in una interiorità che è la
mia e non è la mia, è quella dell’altro e non è quella dell’altro: è la nostra.
Ma non in un senso sociologico esterno, bensì in un senso intimo, profondo:
cioè la realtà del Cristo nel quale viviamo, del Cristo che vive in mezzo a
noi.
In
questa prospettiva io posso allora aprirmi a una possibilità di vivere la
teologia come apofasi, cioè la teologia mistica, nello stesso momento che sto
lavorando alla teologia come sapere scientifico.
Le «viscere» dell’Essere:
Dio come Amore
GEN’S:
Veniamo dal parlare di Dio alla comprensione che noi abbiamo di Dio. Come fa
intendere il titolo del suo saggio «Dio che è Amore» lei fa riferimento a due
linguaggi della teologia: quello dell’Essere e quello dell’Amore.
Quando
si parla di Dio come Essere, si avverte che non si dice tutto. Infatti il nome
di Dio che emerge in definitiva nel Cristo non è Essere, ma Amore. Nel terzo
capitolo del libro, ove tratto questo argomento, cerco di seguire questa
scoperta di Dio Amore sulla scorta dell’Antico Testamento: mi rifaccio a Osea,
a Geremia, al Deutoronomio, ma soprattutto al Cantico dei Cantici. E, venendo
al messaggio cristiano, vediamo che è Dio come Amore che lo innerva tutto, lo
lievita e lo riempie, fino alla nota espressione di Giovanni «Dio é Amore» (1
Gv 4, 8.16).
Considerando
l’amore in rapporto all’essere, io dico che non solo l’amore non si pone in
contraddizione con l’essere, ma è in quello che io scopro questo: se posso
usare un termine biblico, l’amore mi si rivela come le «viscere» dell’essere.
In altre parole, è l’Amore che mi spiega l’Essere che io dico di Dio.
L’Essere
semplicemente è; e non posso dire altro. Invece l’Amore evoca una dinamica;
infatti esso si esprime nel darsi, nel comunicarsi, fino a quello che è
indicato dalle parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita
per i propri amici» (Gv 15, 13); cioè fino a farsi mangiare, come ha
fatto lui, il Cristo.
A
questo punto si apre un altro orizzonte: l’Amore che introduce la categoria del
‘non’ all’interno dell’Essere. E quindi anche l’enorme problema del dolore:
mistero che si può cogliere solo all’interno di Dio, perché è lì che esso
affonda le sue radici. Infatti l’Amore, che costituisce la vita di Dio Trinità,
porta ciascuna Persona a una sorta di svuotamento di sé... Ma qui non posso che
rimandare alla lettura del libro.
Il
nodo centrale del mistero cristiano:
la reciprocità trinitaria
GEN’S:
Certo, Dio Trinità è il mistero più grande, e si sa che non è facile parlarne.
Lei, comunque, ha avuto il coraggio di farlo. Potrebbe illustrarci, almeno per
titoli, alcuni dei punti più significativi su tale argomento, che Lei ha messo
in evidenza nel libro.
Nella
meditazione sulla vita trinitaria, mi sono lasciato guidare da un criterio
particolare, quello di pormi di fronte al grosso nodo del rapporto, in Dio, tra
le Persone e la Natura. Ad esempio, ciascuna delle tre Persone il Padre, il
Figlio, lo Spirito Santo è l’unico Dio: quindi esse sono tre, sì, ma non in
senso matematico. Ciascuna Persona, pur essendo Dio, non «esaurisce» in sé la
Deità: cioè ciascuna Persona richiama in sé la presenza delle altre due, e solo
così essendo «insieme» tutte e Tre si può dire: Dio è Padre-Figlio-Spirito
Santo.
Su
questa base ho cercato di vedere la Trinità sotto un’angolazione: quella della
reciprocità. Ho cercato, cioè, di riflettere e di mostrare, ad esempio, come
ciascuno dei Tre si dona completamente agli altri Due; anzi come ciascuno è se
stesso tutto e solo negli altri Due. Questo donarsi totale, che suole chiamarsi
chenosi trinitaria, è uno svuotamento di sé operato da ciascuna delle tre
Persone in dono alle altre Due. Però lo svuotamento non approda
nell’annullamento, per il fatto che proprio in questa donazione reciproca
sussiste la pienezza di ciascuna delle tre Persone e di tutte e Tre nell’Uno.
Cioè ciascuno che accoglie in sé l’altro, lo restituisce a lui con sé in un
rapporto di reciprocità. Da notare: ciascuno raccoglie in sé, nell’Uno, non gli
altri Due, ma tutti e Tre. Questo perché in Dio le Persone non sono l’una di
fronte alle altre, ma ognuna è sempre all’interno della comunione fra tutte e
Tre.
Qui
è il nodo duro, ma per me estremamente affascinante, del mistero cristiano. Io
sono profondamente convinto che, se noi non penetriamo e non capiamo questo
tipo di reciprocità, non riusciremo a sviluppare una civiltà intensamente
personalistica, cioè di persone che creano e vivono il rapporto interpersonale.
Io
divento persona
nella misura in cui mi apro all’altro
GEN’S:
Andrebbe quindi letto in questa luce quanto lei diceva prima sulla distinzione
tra individuo e persona?
In
effetti, il grande dono che Dio ci fa è quello di portarci ad essere persone, e
questo sia nel cammino della nostra breve storia come singoli che nella grande
storia come umanità.
Se
guardiamo alla storia che ci precede, riscontriamo in essa un emergere graduale
della realtà della persona all’interno della comprensione che l’uomo ha di se
stesso come individuo. Ma, come diceva Pascal, l’individualità tende
continuamente a trascendersi. In che cosa? Non in una superindividualità
altrimenti approderemmo al superuomo nietzscheano , ma, a mio parere,
nell’ambito della persona.
Ma
che cosa vuol dire persona? E come avviene questo cammino di personificazione?
A questo proposito la rivelazione cristiana è carica di una luce
originalissima. Leggiamo nella Lettera ai Galati: «Non c’è più giudeo nè
greco..., poichè tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Da
notare che quel pronome «uno» è usato al maschile, e non al neutro: perciò è
come dire: siete una sola persona nel Cristo. Ovviamente questo non significa
la cancellazione della mia individualità personale, ma l’assunzione di essa da
parte del Cristo: in fondo è questo che l’eucaristia significa e produce. E’
all’interno di questo rapporto con Cristo che ciascuno di noi si personifica.
Questo
è particolarmente evidente nel nostro rapporto con Dio. Quando diciamo che
l’uomo è il tu di Dio, ciò è possibile solo in quanto il nostro tu è inserito
in quello del Figlio: infatti è questo soltanto il tu di Dio. Altrimenti ci
sarebbe una sproporzione paurosa: tanto è vero che gli altri universi
spirituali, come l’induismo, il buddismo, lo stesso Islam, negano la
possibilità di un dialogo reale tra Dio e l’uomo. Ma anche il rapporto con gli
altri esseri umani si realizza come testimonia l’espressione della Lettera ai
Galati nella sua ultima profondità soltanto in Cristo.
Perciò
si tratta di dilatare la coscienza della nostra individualità nella ricerca del
divenire persone nel nostro cammino verso il Cristo. E qui è importante quanto
prima si diceva della reciprocità trinitaria. E’ nell’essere persone dei Tre
che io trovo la radice, il segreto, del mio diventare persona. Naturalmente in
maniera analogica, poichè io resto anche individuo, mentre i Tre non sono
individui, in quanto non sono tre esseri, ma l’Unico Essere.
Così,
nello stesso momento in cui devo sviluppare il discorso teologico (l’Uno-Tre,
Tre-Uno) devo ritornare con questa luce alla comprensione dell’uomo e
approfondire che cosa significa per l’uomo la vocazione a diventare persona.
Cioè io divento persona nella misura in cui mi apro all’altro nell’amore,
accogliendo l’alterità dell’altro come costitutiva della mia interiorità.
Insomma, si tratta dell’esercizio meraviglioso e ineffabile del lasciarmi
consumare dall’altro, consumando l’altro in me in quella realtà che è lo
Spirito del Cristo; ed è lo stesso Spirito che nel Cristo ci fa attingere la
pienezza e la profondità dell’essere persone.
Il
Dio cristiano è Trinità, è comunione. Allora che cosa vuol dire, in questa
luce, realizzarmi? Anziché cercare me stesso, andare incontro al fratello e
offrirmi in dono a lui! Se questo dono si fa reciproco, allora siamo nella
pienezza della realizzazione della persona. L’essere così persona è una cosa
radicalmente diversa da quella che noi pensavamo quando avevamo come punto di
riferimento l’individualità.
Tre
tipi di umanesimo
chiamati a incontrarsi
GEN’S:
Per fortuna oggi va sempre più evidenziandosi la centralità del mistero
trinitario nella evangelizzazione e nella catechesi: e non soltanto come
dottrina, ma anche come modello di ispirazione della vita concreta. Potrebbe
suggerirci qualcuno degli ambiti particolari su cui riflette nel libro?
Gli
ambiti sono tanti. Basta pensare, nella luce di quanto appena detto, ai
rapporti quotidiani con i nostri simili: dai nostri familiari ai nostri amici,
dai compagni di scuola ai colleghi di lavoro, dallo sconosciuto incontrato per
caso ai terzomondiali, dal povero in cerca di pane e lavoro al ricco bisognoso
di altri valori.
Nell’ultimo
capitolo del libro, che ho intitolato «Ad immagine e somiglianza», mi soffermo
però su alcuni problemi particolari di grande rilevanza. Faccio solo un
esempio. In questi secoli il cristianesimo si è espresso in tre tipi di
cultura, dando vita a tre forme di umanesimo: un umanesimo che chiamerei della
creazione, di stampo soprattutto cattolico; un umanesimo della croce, che si
rifà particolarmente al grande mondo della Riforma; e un umanesimo della
resurrezione, espresso prevalentemente dal cristianesimo orientale, ortodosso.
Io non ho timore di ritenere che lo sbandamento della nostra cultura
occidentale è dato dal mancato dialogo, e spesso contrasto, tra queste tre forme
di umanesimo. Oggi i tempi sono maturi per poterci ritrovare gli uni con gli
altri, e così permettere l’incontro e la mutua penetrazione (proprio nel senso
della reciprocità trinitaria) fra questi tre umanesimi. Se ciò non avviene, la
cultura occidentale andrà sempre più verso una deriva atea, e sarà sempre più
difficile professarsi cristiani.
L’umanesimo che oggi va
maturando nella Chiesa è l’umanesimo della persona come comunione. Nel dialogo
vissuto come respiro
della
persona in un pensare che sia pensare-nell’-altro, i tre umanesimi possono
incontrarsi, integrarsi e trascendersi, custodendo il positivo elaborato,
assorbendo in salvezza quanto può essere redento della cultura in rivolta,
verso la novità cui lo Spirito oggi chiama: una civiltà dell’amore.
Uomo-donna,
sacerdoti-laici
GEN’S:
La luce che proviene dalla reciprocità tra le divine Persone non dovrebbe anche
riportare equilibrio nell’ambito di certi rapporti particolari, in cui una
delle parti fino ad oggi è risultata perdente come immagine, come ad esempio la
donna nei confronti dell’uomo, e il laicato nella comunità ecclesiale?
Senz’altro.
Ma io andrei più alla radice del problema. Il teologo Hans Urs von Balthasar,
citato a questo proposito dallo stesso papa Giovanni Paolo II, parla di quattro
princípi che concorrono a fare della comunità ecclesiale una icona sempre più
luminosa della Trinità: il principio petrino, il quale è carisma che fa
presente il Cristo mediatore e ricapitolatore; il principio paolino: carisma
che fa presente il Cristo che dona lo Spirito nella libertà dell’amore; il
principio giovanneo, che fa presente il Cristo consumato nella contemplazione
come amore; e il principio mariano, anch’esso carisma di unità, che richiama al
Cristo nella radice della sua missione. Per questo esso precede gli altri
princípi e li sostiene, come è stato sottolineato dallo stesso Pontefice: per
questo Maria è colei che afferma esistenzialmente l’uguaglianza dei cristiani
fra loro. Infatti, per una madre, i figli sono semplicemente figli, prima e al
di là dei loro compiti e ruoli; e, per Maria, in tutti gli uomini e in
ciascuno, vive l’unico Figlio suo. Questa uguaglianza non è appiattimento,
perché ha il suo modello e sorgente nella vita trinitaria, dove ciascuno dei
Tre è l’Unico uguale agli altri Due, ma in una sua esistenza irripetibile.
Nell’ottica
personalistica trinitaria, in Maria si aprono orizzonti vasti per la vita
cristiana. L’oscuramento di lei in tanta coscienza ecclesiale sia per
emarginazione sia per riduzione devozionale è uno dei segni e delle cause della
crisi attuale. Ma oggi lei viene in luce come colei che rivela l’unità qual è
da intendersi nella luce della Trinità.
Su
questa base e in questa luce, io credo, va guardato l’emergere oggi della
donna, che finalmente lo Spirito sta strappando al ruolo cui una cultura al
maschile l’aveva fissata.
Analoga
considerazione va fatta a proposito della laicità. Maria è laica: non in quanto
non è sacerdote il che dice solo un negativo , ma in quanto ella esprime la
realtà cristiana nella sua nudità essenziale. Realtà cristiana, di cui il
sacerdozio ministeriale è a servizio. La laicità di Maria è quella in cui la
santità viene espressa nella quotidianità della vita, senza che altro appaia se
non l’amare con la misura del Cristo.
E’
questa laicità quella di Maria, ma prima ancora quella del Cristo che potrà
sanare la deriva laicista dell’Occidente. In questa laicità si può tentare ciò
che potrebbe apparire un’utopia, ma oggi necessaria nel cammino del mondo verso
l’unificazione: la realizzazione di una vita sociale che in tutte le sue
espressioni (culturali e istituzionali) riesca a dire nella storia
l’unitrinità. Questo può farlo solo il carisma cristiano, dove Dio si rivela
Trinità. Eppure tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro fede, potranno
riconoscersi nella verità umana dispiegata nella laicità cristiana: cioè in
quella autentica democrazia, che è la verità abitante come Unica nella
diversità dei molti: anche qui è la reciprocità trinitaria nell’amore.
Non
si tratta di sognare una nuova cristianità, ma una città dell’uomo che raccolga
tutti, nell’unità plurale possibile per l’ampiezza umana della proposta
cristiana. Proposta che è, di fatto, la stessa realtà ecclesiale, ma nel suo
darsi tutta, fuori di sé, seguendo il movimento di Dio Trinità che si dà tutto
fuori di Sé nella creazione.
a cura di Lino D’Armi