Perché il rifiuto di tanta predicazione?

 

 

Nuova evangelizzazione
e immagini di Dio

 

 

di Silvano Cola

 

Se è vero che l’attuale crisi della fede e della vita cristiana non è unicamente provocata dall’esterno, ma legata, almeno in parte, ad una comprensione non sempre completa del cristianesimo, allora si impone un esame di coscienza collettivo. Riportiamo qui di seguito la trascrizione di una conversazione fatta dall’autore ad un recente convegno sacerdotale nei pressi di Napoli, su alcuni presupposti indispensabili per una predicazione che voglia essere credibile per l’uomo di oggi.

 

La domanda  che  oggi  ci  vorremmo  porre sarebbe questa: quale volto di Dio noi presentiamo nell’annuncio cristiano? E, soprattutto nel mondo occidentale, possiamo chiederci: a quale volto di Dio si riferisce il rifiuto così frequente, così vasto di Dio che stiamo sperimentando da parte dei cristiani e dei non cristiani? A quale volto di Dio si riferisce il rifiuto di tanta predicazione? A quale volto di Dio si riferisce il rifiuto di tanto insegnamento morale? Noi sappiamo quanto è stato grande l’influsso che il pensiero greco ha avuto sull’elaborazione dell’immagine di Dio anche nella teologia cristiana. E basterebbe una frase di Karl Rahner per farci arrossire: se per caso si togliesse dalla teologia il dogma trinitario ha ipotizzato il teologo tedesco gran parte della letteratura teologica, della letteratura cristiana potrebbe rimanere invariata. Per cui Karl Rahner parlava di una specie di «islamismo» in campo cristiano.

Potremmo quindi considerare questa conversazione un esame di coscienza collettivo, intellettuale, se si vuole: se noi abbiamo concepito Dio per noi stessi e per la nostra pratica pastorale, secondo i nostri desideri e i nostri bisogni, oppure se non dobbiamo invece maggiormente concepire Dio e farlo conoscere secondo l’immagine che ce ne ha dato Gesù e quindi adeguare ad essa i nostri desideri.

 

E’ chiaro che le considerazioni che facciamo possono suonare come critica a tutto un passato, ma non vorrei che fosse una critica negativa. Si sa che quando nel tempo viene fuori una coscienza nuova e quindi una nuova linea di comportamento, automaticamente sembra che venga deprezzata la linea antica. Non è questo che qui si vuole. Tutto quello che è stato fatto nel passato forse era il meglio per quel tempo, per quegli uomini, in quella situazione e per quella coscienza collettiva di quel momento storico. Adesso sembra che la coscienza collettiva dell’umanità sia maturata per cui c’è bisogno di fare un passo sia nel nostro modo di rileggere il vangelo, sia nel modo di attuarlo poi in una situazione concreta, che per noi vuol dire la pastorale.

Direi, ancora come premessa, che non si deve concludere: adesso distruggiamo i vecchi sistemi e cominciamo col nuovo. Ricordo che il «Bollettino» del seminario minore di Torino dove ho studiato era intitolato Conservando renovare. Questa è saggezza: conservare quanto ancora oggi è utile per tanta gente che per vari motivi non riuscirebbe a cambiare le proprie categorie di pensiero, e quindi neanche di azione, ma nello stesso tempo dare la possibilità di ricominciare qualcosa di nuovo, anche nel poco, ma più adeguato alla maturità della coscienza umana collettiva di oggi.

 

I brevi accenni che farò sono più che altro indicazioni da approfondire.

 

 

 

Il Dio paternalista

 

Se ripensiamo a tutta la nostra predicazione e catechesi credo che un’immagine di Dio che abbiamo presentato sia l’immagine di Dio Padre, padre però di bambini, non di figli. E anche se non ne siamo troppo coscienti, ancora oggi nel nostro modo di parlare e di trattare conserviamo queste categorie. Senza volerlo, spesso abbiamo predicato un regno di Dio dove il padre paternalista sembra dire al bambino: sii buono, fa’ quel che ti dico perché poi ti do il premio. Un linguaggio, questo, che non ha niente a che fare con la maturazione umana voluta esplicitamente da Dio quando ha creato l’uomo a propria immagine e somiglianza, quindi come un interlocutore, come un tu, come una persona. Quando diciamo ai fedeli: fate così, e avrete il premio, il «fai così» non è in funzione della maturazione umana, che Dio vuole dall’uomo perché ritorni a sua immagine e somiglianza, ma è piuttosto sul premio che si fa calcolo, quasi che il premio fosse disgiunto dal realizzarsi della persona.

 

Questo succede non di rado quando predichiamo i consigli evangelici. Se facciamo l’analisi del nostro linguaggio vi scopriamo, ad esempio, che l’obbedienza è presentata come un bene perché «se tu fai quello che ti dico io, io poi ti do il premio». Quindi l’obbedienza non vista come forma di comunione tra persone, alla san Paolo, ma come forma di automortificazione, per meritare un premio. Presentiamo così a ben pensare un Dio assolutamente incredibile, perché non è possibile che Dio sia un sadico che dice: fa’ penitenza, perché se tu mi obbedisci io sono contento e ti premio. Usiamo sempre, come si vede, considerazioni disgiunte: non viene in risalto l’obbedienza come modo di atteggiarsi verso Dio o il prossimo per entrare in comunione con essi, sapendo che soltanto se siamo in comunione si diviene persone come Dio è persona. E si insiste, invece, sull’obbedienza in quanto obbedienza che non ha neppure valore ascetico se non quale mezzo di comunione con Dio e con il prossimo e per prossimo intendo non solo la gerarchia, ma anche il prossimo che mi sta accanto, il marito per la moglie, la moglie per il marito; intendo la comunità per il religioso, la parrocchia per il sacerdote... Per cui fare la volontà di Dio non è autodistruggersi, ma è realizzarsi perché fa entrare in comunione con; precisamente come le tre Persone divine che sono tali proprio perché definite e distinte dalle loro reciproche relazioni.

 

Lo stesso fraintendimento possiamo notarlo a volte nella nostra predicazione riguardo agli altri consigli evangelici e alle virtù. Più si digiuna e più si è bravi perché poi arriva il premio (nell’altra vita): concetto completamente estraneo ai Padri della Chiesa, alla prima comunità cristiana e quindi alla fede in se stessa, perché il digiuno non ha alcun merito in se stesso. Ma se digiuno per staccarmi da quanto mi chiude in me stesso, se digiuno quindi per compartecipare quanto ho ai poveri, riconoscendo perciò che Dio è Padre e noi tutti siamo fratelli, entro effettivamente in comunione con Dio e con il prossimo.

 

Lo stesso è il motivo che giustifica la povertà, che in sé non è una virtù ma una disgrazia. Ma se vedo un bisognoso e rifiuto di soccorrerlo per non intaccare il mio capitale che mi dà sicurezza (economica e psicologica) non faccio che rinnegare Dio come Padre e perciò non solo non entro in comunione col prossimo, rifiutato, ma mi taglio dalla comunione con Dio. Ossia vivo «fuori» della Trinità perché rifiuto l’amore scambievole. Ma rifiutandomi alla comunione è importante sottolinearlo non solo non mi realizzo come cristiano ma neppure come uomo, come persona umana. Al contrario, se mi depaupero per entrare in comunione, io in realtà vivo Gesù (che si è spogliato di tutto), ossia vivo a immagine e somiglianza di Dio.

         Lo stesso per la verginità e la castità. Enfatizzarle come valori in se stesse, come virtù, quando possono alle volte essere una scelta egoistica, ossia rifiuto di comunione, vuol dire ancora mettere l’accento sul non-essere piuttosto che sull’essere che è comunione. Un vergine chiuso in difesa di se stesso vive già di fatto l’inferno (la non-comunione) in questa vita sia psicologicamente che spiritualmente. Si può infatti essere casti in un certo senso materiale e odiare il prossimo. La castità e la verginità sono valori se e in quanto esprimono una capacità di maggior comunione con Dio e con il prossimo, e interessa tanto i rapporti uomo-donna quanto il rapporto religioso-comunità e sacerdote-chiesa particolare, in quanto o questi rapporti si vivono «alla trinità» ossia incarnando il comandamento dell’amore scambievole, oppure sono indice di immaturità sia psichica che spirituale. Ma su questo punto ritorneremo.

 

Bisogna pensare che quando Gesù ha parlato non ha cercato di portare l’uomo fuori dalla realtà umana; ma spesso quando noi parliamo nella nostra pastorale insinuiamo proprio questo: noi siamo uomini, dobbiamo dimenticarci come uomini, mortificarci, morire come uomini per passare su un piano «soprannaturale» e basta. Ma così inventiamo un dualismo che non ha senso e che comunque ha finito di esistere nel momento in cui Dio il Verbo, si è fatto uomo.

 

Non dobbiamo scartare l’uomo per entrare in un altro piano. Dio, se ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, non vuole niente altro che ri-portare l’uomo ad essere a sua immagine e somiglianza, con il corpo che ha creato e con l’anima che ha creato. Quindi tutto quello che Gesù dice, rivelando il pensiero del Padre, non è di cambiare natura, ma di realizzarci, attraverso il dono di noi, come natura redenta per ritornare ad essere immagine di Dio: se Dio in cielo è Trinità vuol dire che l’uomo è uomo sulla terra solo se è in comunione trinitaria con gli altri.

Se si passa dall’uomo vecchio all’uomo nuovo nei termini di Paolo non è perché si passa da uno stato di «natura» a uno stato di «sopra-natura», bensì da uno stato di natura decaduta a uno stato di natura redenta e risorta. Se dobbiamo passare dall’uomo vecchio all’uomo nuovo è perché l’uomo vecchio è il non-essere, è il non-amore, è la non-comunione. Dio «è» perché è amore, perché è comunione. Quindi il passare, amando, dal vecchio uomo al nuovo è il passare dal non-essere all’essere; e soltanto «essendo amore» sono uomo a immagine e somiglianza di Dio.

 

Quindi eliminare il Dio dei bambini. Per credere nel Padre da figli, non da bambini; da figli che sono il tu del Padre, proprio come Gesù. Dio ci vuole persone, non ci vuole schiavetti. Ci ha liberati dalla schiavitù. La fede, oltre tutto, è anche rationabile obsequium: se la coscienza collettiva umana oggi non accetta certe immagini di Dio è anche perché sono distorte; e finché continuiamo a farle passare apertamente o surrettiziamente, il mondo non crederà.

 

 

 

Il «Deus ex machina»

 

Un’altra immagine di Dio che predichiamo non di rado è il deus ex machina. Porto un esempio. Leggiamo il vangelo dove dice: «Cercate prima il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù». Il regno di Dio, evidentemente, è la vita di Dio, e la vita di Dio è la vita trinitaria; «cercate il regno di Dio», vuol dire comportatevi, nei vostri rapporti reciproci, come il Padre e io siamo in cielo. Non si tratta di una estrapolazione del vangelo, perché sono parole precise di Gesù: «Siate una cosa sola fra voi come il Padre e io siamo una cosa sola». «Cercate il regno di Dio» vuol dire allora: inter-agite tra di voi amandovi l’un l’altro, con la disposizione di dare anche la vita l’uno per l’altro perché, se fate così, in mezzo a voi sta Gesù e quindi siete una icona della Trinità, siete regno di Dio o, se vogliamo, siete tornati ad essere uomini a immagine e somiglianza di Dio.

 

Qui dobbiamo per forza riferirci a una delle più profonde intuizioni di Chiara Lubich che vede nei tre della casetta di Nazaret non solo il modello della vita di focolare bensì il modello universale dei rapporti interpersonali che vogliono essere «a immagine e somiglianza», ossia precisamente umani secondo Dio: «Il focolare deve somigliare alla casetta di Nazareth, dove Gesù era fisicamente presente tra Maria e Giuseppe...»; «E’ la vita della SS. Trinità che dobbiamo procurare di imitare amandoci tra di noi, con la grazia di Dio, come le Persone della Trinità si amano tra loro...»; «E’ la mistica del comandamento nuovo, la mistica della Chiesa... E’ la mistica di Gesù, di Gesù completo, dell’Uomo, non di un uomo... quindi la mistica di coloro che si amano a vicenda come Egli ci ha amato; di una unità di anime che rispecchia, stando in terra, la Trinità di lassù».1

 

Allora «cercate prima il regno di Dio» vuol dire: vivete a mo’ della Trinità su questa terra ossia «siate in comunione», «siate Chiesa» (icona della comunione trinitaria, appunto), «e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù». Invece normalmente, nella nostra predicazione, diciamo che se andiamo a messa, se facciamo l’elemosina... Dio si compiace della nostra obbedienza e ci manda il soprappiù. Ebbene, questo deus ex machina, questo dio artificiale non è credibile e non lo è soprattutto per la coscienza moderna.

 

Gesù ci ha spiegato che se viviamo l’amore siamo come Dio. Se amo, dunque, se mi relaziono all’altro, pronto a morire per l’altro, a vivere l’altro ecco la tecnica dell’unità io vivo Dio, e nella reciprocità d’amore trovo il centuplo, poiché in questa stessa socialità divina, vissuta sulla terra attuando, ad esempio, la comunione dei beni, trovo tutti i beni materiali e spirituali.

 

Questo tipo di socialità trinitaria che Gesù ha portato sulla terra, dovrebbe essere anche il paradigma di ogni attività che facciamo nella pastorale. Vivere a mo’ della Trinità è anche tutto l’apostolato, tutta la missionarietà dei cristiani, dal momento che Gesù ha detto: «Da questo conosceranno che siete miei discepoli oppure: che Dio mi ha mandato se vi amate gli uni gli altri». Ma perché? Perché questa è la nuova socialità portata da Gesù rivelandoci la Trinità.

 

Non ci sono altre indicazioni di tecniche di apostolato date da Gesù che non siano la testimonianza. La stessa cosa dicono gli apostoli: Noi vi comunichiamo soltanto quello che abbiamo visto coi nostri occhi, udito con le nostre orecchie, palpato con le nostre mani... un’esperienza di Dio, fatta con Gesù fra loro, un’esperienza di vita trinitaria, appunto, la nuova socialità (cf. 1 Gv 1, 1-3).

 

La vita trinitaria è modello di ogni vita spirituale, perché se vivi «alla trinità» sei in Dio.

 

E’ modello della vita fisica perché nel vivere il rapporto scambievole alla Trinità non c’è soltanto la salute psichica, ma si trovano anche le condizioni ottimali per la salute fisica. C’è la salute, perché l’uomo arriva a modellarsi secondo il disegno di Dio, a essere se stesso proprio perché «in comunione» e può dire con verità: Io sono. E si sa quanto importi, questo, alla salute fisica e psichica.

 

Il modello trinitario è paradigma anche dell’armonia, dell’arte. Tre che sono uno, uno che è tre. Il molteplice, tutto relazionato nei suoi componenti, è l’ordine dell’universo; e quelli che hanno messo gli occhi in Dio, i mistici, vedono tutto nello schema trinitario. Tanto per citare una mistica moderna: è impressionante quanto Chiara Lubich insista per dire che tutto nel mondo è in relazione trinitaria.

 

Il Verbo di Dio è la sapienza personificata. Ma perché allora non ricercare la sapienza di Dio proprio in quel rapporto creato umano dell’amore scambievole, quando si sa che: dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io, il Verbo, la verità, la sapienza in mezzo a voi? La sapienza è il Verbo. Forse potremmo trovare i semi del Verbo in tutto il mondo, in tutte le realtà; ma la sapienza è quella presenza viva di Gesù in mezzo ai discepoli che vivono alla Trinità.

 

Dio, poi, è il modello, il campione della comunicazione perché tutto quello che è del Padre è del Figlio, tutto quello che è del Figlio è del Padre e lo Spirito Santo è la Comunicazione, è l’Amore che li lega. La comunicazione definitiva al mondo viene da Dio attraverso Gesù, il quale può dire che tutto quello che il Padre gli ha rivelato ce l’ha comunicato. Ma allora anche il modello della comunicazione all’interno della Chiesa non può essere diverso.

 

 

 

Un Dio elitario o l’Emmanuele?

Un’altra immagine di Dio abbastanza sbagliata che spesso noi abbiamo presentato è il Dio elitario, il Dio che ha creato il mondo e l’umanità e poi si accontenta di una piccola élite che vada in paradiso. Il Concilio Vaticano II ha rimesso su nuove basi la concezione della salvezza, ma nel nostro modo di predicare, nella nostra pastorale lasciando il giudizio ultimo sulla salvezza individuale a Dio perché non mettere in risalto che vivendo Gesù, vivendo il vangelo, vivendo il cristianesimo uno si realizza come persona, e quindi dà gloria a Dio proprio realizzandosi come persona, perché la gloria di Dio è l’uomo vivente? Perché insomma certi discorsi senza mettere mai in evidenza il fatto che se l’uomo ritorna a essere «immagine e somiglianza di Dio» è veramente se stesso, nuova creatura, e ha raggiunto lo scopo della redenzione?

 

Non è proprio questa la testimonianza che dobbiamo dare, vivendo da risorti come individui, vivendo secondo la dinamica sociale trinitaria come Chiesa (un pezzo d’umanità redenta e risorta), affinché gli altri cinque miliardi di persone che non hanno conosciuto la luce della Rivelazione possano dire: «certo, la vita dei cristiani è più bella, più soddisfacente, più gratificante, più creativa della nostra...»? O dobbiamo considerare sognatori Luca negli Atti e l’Autore della Lettera a Diogneto quando scrive che la vita dei cristiani, pur vivendo essi sulla terra, «svela le leggi straordinarie e veramente paradossali della loro repubblica spirituale»?

 

Quindi quando si dice nel nostro linguaggio che tutti sono candidati all’unità perché tutti sono candidati a vivere Dio, questa parola va presa sul serio. Un parroco, ad esempio, dovrebbe guardare con lo stesso occhio amoroso del Padre del figliolo prodigo anche gli atei dichiarati, anche i mangiapreti, perché dal momento che Gesù ha assunto la natura umana, tutto ciò che ha ragione di uomo, tutto ciò che si può dire umano è assunto da Gesù, e Gesù è figlio di Dio e tutti gli uomini sono chiamati a essere figli nel Figlio. Pensiero che dovrebbe metterci dentro un sacro e altissimo rispetto per ogni uomo vivente.

 

 

 

Ex opere operato,
ma anche ex opere operantis
!

 

Il deus ex machina entra prepotentemente anche là dove si dà eccessiva importanza all’ex opere operato e troppo poca all’ex opere operantis, per cui si costata un abisso tra appartenenza anagrafica alla Chiesa e vita cristiana. E’ vero che col battesimo «cambiamo natura», direbbe san Girolamo, anche se lo si riceve nell’incoscienza; ma questo presupporrebbe che il tirocinio a vivere cristianamente che un tempo precedeva il battesimo lo si faccia dopo; tirocinio lungo, comunque, perché bisognerebbe arrivare a sostituire effettivamente nei pensieri e nel comportamento i valori del mondo con i valori evangelici, così che la confermazione dovrebbe significare che si è presa coscienza di questa partecipazione alla società dei cristiani che è la Chiesa e se ne diventa costruttori e testimoni. A giudizio universale, invece, la cresima è il momento in cui, ricevuto «quello» Spirito Santo, la grande maggioranza dei ragazzi e delle ragazze smette di andare in chiesa.

 

Le relazioni interpersonali tra i coniugi dovrebbero essere tali da costituire effettivamente una piccola chiesa domestica che sia e risplenda come icona della Trinità perché il parallelismo paolino dei rapporti tra Cristo e Chiesa non è solo una bella immagine ma esprime come si devono vivere i rapporti trinitari tra marito e moglie. Sotto questo punto di vista, quanti sono i matrimoni veramente cristiani? Il «contratto» matrimoniale può essere valido e sacramentale; ma quanto ha di vita cristiana?

 

E la stessa cosa si può dire anche per quelli che scelgono il sacerdozio o la vocazione religiosa. Se, come oggi sempre più succede, si diventa preti già pensando più o meno coscientemente che se poi non ce la faccio mi posso sempre tirare indietro (coscienza generalizzata che non accetta più impegni definitivi) è chiaro che non si è capito il significato della consacrazione, anche se ex opere operato l’ordinazione ha avuto effetto. Certo, la vocazione è una chiamata di Dio sempre misteriosa, ma è anche una decisione personale che si prende, una scelta che uno fa per rispondere all’amore di Dio: scelgo di servire l’umanità, quel pezzo di umanità che mi sarà affidato, perché voglio vivere questo aspetto trinitario che è morire per l’altro. Allora si capisce che a un certo momento non c’è più la possibilità di tirarsi indietro, precisamente come nel matrimonio.

 

E così per gli ordini religiosi. Il tu del frate è la comunità, e lui ha scelto di morire per la comunità, di servire la comunità, di dare la sua vita per la comunità. E’ una decisione anche sua, oltre che una chiamata di Dio sempre misteriosa; è una scelta che fa, non per rifugiarsi o appoggiarsi o santificarsi da solo, bensì per vivere nella comunità i rapporti trinitari, per fare della comunità una «icona della Trinità», un piccolo regno di Dio in terra. Allora, malgrado tutto, quand’anche la vita di comunità diventasse difficile, non ci si può ritirare come non lo può una moglie col marito magari paralizzato o un parroco in una parrocchia di atei... Gesù non si è ritirato quando, sposando l’umanità, l’umanità l’ha messo in croce.

 

Prendiamo l’eucaristia. Il nostro modo di avvicinarci all’eucaristia e la nostra pastorale eucaristica sono spesso una menzogna esistenziale. Si va a fare la comunione, perché lì c’è Gesù e poi si esce fuori e nel tuo parroco o viceparroco o nel vescovo... o per i laici nella moglie o nel marito, nella suocera o nella nuora o nel capufficio non si riconosce che lo stesso Gesù che era nell’eucaristia è anche in quei prossimi che ci sono accanto. Noi, con la nostra pastorale, non abbiamo forse facilitato questa contraddizione? Mentre l’eucaristia è segno di unità, costruttrice di unità nel Corpo di Cristo che è la Chiesa, troppo spesso la si è disgiunta dai rapporti sociali, e allora ha ragione san Paolo: essa diventa condanna.

In conclusione

Mi ha fatto piacere qualche tempo fa leggere il resoconto di una tavola rotonda fatta all’Università Lateranense alla quale hanno partecipato, fra gli altri, Ignazio Sanna, decano della facoltà di teologia, e Marcello Bordoni, professore di cristologia. Vale la pena riportare alcune frasi che hanno detto e scritto.

         Ignazio Sanna dice: «Come mai questa visione cristiana dell’uomo è rimasta nei libri di antropologia, nelle omelie della messa, nel segreto del confessionale e non è servita a creare modelli culturali di comportamento, a incidere nella costruzione della società, a realizzare gli ideali di solidarietà, gli ideali di reciprocità? Evidentemente qualche cosa non ha funzionato e non funziona ancora nella comunicazione di questa antropologia. Forse invece di creare ponti di amicizia e di simpatia, si sono costruiti dei sistemi, si sono elaborate delle ideologie; ideologie di contrapposizione; ideologie dell’alternativa; si è usato spesso Dio contro l’uomo. E questo è verissimo se a un certo momento un genio, un filosofo come Nietzsche, dice che per salvare l’uomo bisogna distruggere Dio. E’ perché noi abbiamo creato nella mentalità della gente questo dualismo, quando la gloria di Dio è l’uomo vivente?».

         E Marcello Bordoni dice: «Bisogna rendersi conto che l’uomo, e quindi la coscienza umana collettiva, è un luogo teologico; l’umanità e la cultura sono un luogo imprescindibile per poter portare avanti un autentico discorso di fede nel contesto della situazione storica in cui uno vive. La Chiesa allora in questo modo potrà preparare il terreno alla evangelizzazione attraverso un linguaggio che sia più comprensibile all’uomo».

 

Io direi attraverso immagini di Dio che siano più vere, più evangeliche, e che abbiano come supporto la testimonianza.

A un certo punto Bordoni cita Rahner: «Ha scritto Rahner che l’umanità è la grammatica di una possibile espressione di una comunicazione di Dio nella storia. In ogni frammento di umanità c’è un sigillo di Dio uno e trino. E Dio uno e trino vuol dire relazione, vuol dire dialogo, vuol dire comunione».

 

Silvano Cola