Perché
il rifiuto di tanta predicazione?
Nuova evangelizzazione
e immagini di Dio
di
Silvano Cola
Se
è vero che l’attuale crisi della fede e della vita cristiana non è unicamente
provocata dall’esterno, ma legata, almeno in parte, ad una comprensione non
sempre completa del cristianesimo, allora si impone un esame di coscienza
collettivo. Riportiamo qui di seguito la trascrizione di una conversazione
fatta dall’autore ad un recente convegno sacerdotale nei pressi di Napoli, su
alcuni presupposti indispensabili per una predicazione che voglia essere
credibile per l’uomo di oggi.
La
domanda che oggi ci vorremmo
porre sarebbe questa: quale volto di Dio noi presentiamo nell’annuncio
cristiano? E, soprattutto nel mondo occidentale, possiamo chiederci: a quale
volto di Dio si riferisce il rifiuto così frequente, così vasto di Dio che
stiamo sperimentando da parte dei cristiani e dei non cristiani? A quale volto
di Dio si riferisce il rifiuto di tanta predicazione? A quale volto di Dio si
riferisce il rifiuto di tanto insegnamento morale? Noi sappiamo quanto è stato
grande l’influsso che il pensiero greco ha avuto sull’elaborazione dell’immagine
di Dio anche nella teologia cristiana. E basterebbe una frase di Karl Rahner
per farci arrossire: se per caso si togliesse dalla teologia il dogma
trinitario ha ipotizzato il teologo tedesco gran parte della letteratura
teologica, della letteratura cristiana potrebbe rimanere invariata. Per cui
Karl Rahner parlava di una specie di «islamismo» in campo cristiano.
Potremmo
quindi considerare questa conversazione un esame di coscienza collettivo,
intellettuale, se si vuole: se noi abbiamo concepito Dio per noi stessi e
per la nostra pratica pastorale, secondo i nostri desideri e i nostri bisogni,
oppure se non dobbiamo invece maggiormente concepire Dio e farlo conoscere
secondo l’immagine che ce ne ha dato Gesù e quindi adeguare ad essa i nostri
desideri.
E’
chiaro che le considerazioni che facciamo possono suonare come critica a tutto
un passato, ma non vorrei che fosse una critica negativa. Si sa che quando nel
tempo viene fuori una coscienza nuova e quindi una nuova linea di
comportamento, automaticamente sembra che venga deprezzata la linea antica. Non
è questo che qui si vuole. Tutto quello che è stato fatto nel passato forse era
il meglio per quel tempo, per quegli uomini, in quella situazione e per quella
coscienza collettiva di quel momento storico. Adesso sembra che la coscienza
collettiva dell’umanità sia maturata per cui c’è bisogno di fare un passo sia
nel nostro modo di rileggere il vangelo, sia nel modo di attuarlo poi in una
situazione concreta, che per noi vuol dire la pastorale.
Direi,
ancora come premessa, che non si deve concludere: adesso distruggiamo i vecchi
sistemi e cominciamo col nuovo. Ricordo che il «Bollettino» del seminario
minore di Torino dove ho studiato era intitolato Conservando renovare.
Questa è saggezza: conservare quanto ancora oggi è utile per tanta gente che
per vari motivi non riuscirebbe a cambiare le proprie categorie di pensiero, e
quindi neanche di azione, ma nello stesso tempo dare la possibilità di
ricominciare qualcosa di nuovo, anche nel poco, ma più adeguato alla maturità
della coscienza umana collettiva di oggi.
I
brevi accenni che farò sono più che altro indicazioni da approfondire.
Il
Dio paternalista
Se
ripensiamo a tutta la nostra predicazione e catechesi credo che un’immagine di
Dio che abbiamo presentato sia l’immagine di Dio Padre, padre però di bambini,
non di figli. E anche se non ne siamo troppo coscienti, ancora oggi nel nostro
modo di parlare e di trattare conserviamo queste categorie. Senza volerlo,
spesso abbiamo predicato un regno di Dio dove il padre paternalista sembra dire
al bambino: sii buono, fa’ quel che ti dico perché poi ti do il premio. Un
linguaggio, questo, che non ha niente a che fare con la maturazione umana
voluta esplicitamente da Dio quando ha creato l’uomo a propria immagine e somiglianza,
quindi come un interlocutore, come un tu, come una persona. Quando diciamo ai
fedeli: fate così, e avrete il premio, il «fai così» non è in funzione della
maturazione umana, che Dio vuole dall’uomo perché ritorni a sua immagine e
somiglianza, ma è piuttosto sul premio che si fa calcolo, quasi che il premio
fosse disgiunto dal realizzarsi della persona.
Questo
succede non di rado quando predichiamo i consigli evangelici. Se facciamo
l’analisi del nostro linguaggio vi scopriamo, ad esempio, che l’obbedienza è
presentata come un bene perché «se tu fai quello che ti dico io, io poi ti do
il premio». Quindi l’obbedienza non vista come forma di comunione tra persone,
alla san Paolo, ma come forma di automortificazione, per meritare un premio.
Presentiamo così a ben pensare un Dio assolutamente incredibile, perché non è
possibile che Dio sia un sadico che dice: fa’ penitenza, perché se tu mi
obbedisci io sono contento e ti premio. Usiamo sempre, come si vede, considerazioni
disgiunte: non viene in risalto l’obbedienza come modo di atteggiarsi verso
Dio o il prossimo per entrare in comunione con essi, sapendo che
soltanto se siamo in comunione si diviene persone come Dio è persona. E si
insiste, invece, sull’obbedienza in quanto obbedienza che non ha neppure valore
ascetico se non quale mezzo di comunione con Dio e con il prossimo e per
prossimo intendo non solo la gerarchia, ma anche il prossimo che mi sta
accanto, il marito per la moglie, la moglie per il marito; intendo la comunità
per il religioso, la parrocchia per il sacerdote... Per cui fare la volontà di
Dio non è autodistruggersi, ma è realizzarsi perché fa entrare in comunione
con; precisamente come le tre Persone divine che sono tali proprio perché
definite e distinte dalle loro reciproche relazioni.
Lo
stesso fraintendimento possiamo notarlo a volte nella nostra predicazione
riguardo agli altri consigli evangelici e alle virtù. Più si digiuna e più si è
bravi perché poi arriva il premio (nell’altra vita): concetto completamente
estraneo ai Padri della Chiesa, alla prima comunità cristiana e quindi alla
fede in se stessa, perché il digiuno non ha alcun merito in se stesso. Ma se
digiuno per staccarmi da quanto mi chiude in me stesso, se digiuno quindi per
compartecipare quanto ho ai poveri, riconoscendo perciò che Dio è Padre e noi
tutti siamo fratelli, entro effettivamente in comunione con Dio e con il
prossimo.
Lo
stesso è il motivo che giustifica la povertà, che in sé non è una virtù ma una
disgrazia. Ma se vedo un bisognoso e rifiuto di soccorrerlo per non intaccare
il mio capitale che mi dà sicurezza (economica e psicologica) non faccio che
rinnegare Dio come Padre e perciò non solo non entro in comunione col prossimo,
rifiutato, ma mi taglio dalla comunione con Dio. Ossia vivo «fuori» della Trinità
perché rifiuto l’amore scambievole. Ma rifiutandomi alla comunione è importante
sottolinearlo non solo non mi realizzo come cristiano ma neppure come uomo,
come persona umana. Al contrario, se mi depaupero per entrare in comunione, io
in realtà vivo Gesù (che si è spogliato di tutto), ossia vivo a immagine e
somiglianza di Dio.
Lo stesso per la verginità e la
castità. Enfatizzarle come valori in se stesse, come virtù, quando possono alle
volte essere una scelta egoistica, ossia rifiuto di comunione, vuol dire ancora
mettere l’accento sul non-essere piuttosto che sull’essere che è
comunione. Un vergine chiuso in difesa di se stesso vive già di fatto l’inferno
(la non-comunione) in questa vita sia psicologicamente che spiritualmente. Si
può infatti essere casti in un certo senso materiale e odiare il prossimo. La
castità e la verginità sono valori se e in quanto esprimono una capacità di
maggior comunione con Dio e con il prossimo, e interessa tanto i rapporti
uomo-donna quanto il rapporto religioso-comunità e sacerdote-chiesa
particolare, in quanto o questi rapporti si vivono «alla trinità» ossia
incarnando il comandamento dell’amore scambievole, oppure sono indice di
immaturità sia psichica che spirituale. Ma su questo punto ritorneremo.
Bisogna
pensare che quando Gesù ha parlato non ha cercato di portare l’uomo fuori dalla
realtà umana; ma spesso quando noi parliamo nella nostra pastorale insinuiamo
proprio questo: noi siamo uomini, dobbiamo dimenticarci come uomini,
mortificarci, morire come uomini per passare su un piano «soprannaturale» e
basta. Ma così inventiamo un dualismo che non ha senso e che comunque ha finito
di esistere nel momento in cui Dio il Verbo, si è fatto uomo.
Non
dobbiamo scartare l’uomo per entrare in un altro piano. Dio, se ha creato
l’uomo a sua immagine e somiglianza, non vuole niente altro che ri-portare
l’uomo ad essere a sua immagine e somiglianza, con il corpo che ha creato e con
l’anima che ha creato. Quindi tutto quello che Gesù dice, rivelando il pensiero
del Padre, non è di cambiare natura, ma di realizzarci, attraverso il dono di
noi, come natura redenta per ritornare ad essere immagine di Dio: se Dio in
cielo è Trinità vuol dire che l’uomo è uomo sulla terra solo se è in comunione
trinitaria con gli altri.
Se
si passa dall’uomo vecchio all’uomo nuovo nei termini di Paolo non è perché si
passa da uno stato di «natura» a uno stato di «sopra-natura», bensì da uno
stato di natura decaduta a uno stato di natura redenta e risorta. Se dobbiamo
passare dall’uomo vecchio all’uomo nuovo è perché l’uomo vecchio è il
non-essere, è il non-amore, è la non-comunione. Dio «è» perché è amore, perché
è comunione. Quindi il passare, amando, dal vecchio uomo al nuovo è il passare
dal non-essere all’essere; e soltanto «essendo amore» sono uomo a immagine e
somiglianza di Dio.
Quindi
eliminare il Dio dei bambini. Per credere nel Padre da figli, non da bambini;
da figli che sono il tu del Padre, proprio come Gesù. Dio ci vuole persone, non
ci vuole schiavetti. Ci ha liberati dalla schiavitù. La fede, oltre tutto, è
anche rationabile obsequium: se la coscienza collettiva umana oggi non
accetta certe immagini di Dio è anche perché sono distorte; e finché
continuiamo a farle passare apertamente o surrettiziamente, il mondo non
crederà.
Il «Deus ex machina»
Un’altra
immagine di Dio che predichiamo non di rado è il deus ex machina. Porto
un esempio. Leggiamo il vangelo dove dice: «Cercate prima il regno di Dio e
tutto il resto vi sarà dato in soprappiù». Il regno di Dio, evidentemente, è la
vita di Dio, e la vita di Dio è la vita trinitaria; «cercate il regno di Dio»,
vuol dire comportatevi, nei vostri rapporti reciproci, come il Padre e io siamo
in cielo. Non si tratta di una estrapolazione del vangelo, perché sono parole
precise di Gesù: «Siate una cosa sola fra voi come il Padre e io siamo una cosa
sola». «Cercate il regno di Dio» vuol dire allora: inter-agite tra di voi
amandovi l’un l’altro, con la disposizione di dare anche la vita l’uno per
l’altro perché, se fate così, in mezzo a voi sta Gesù e quindi siete una icona
della Trinità, siete regno di Dio o, se vogliamo, siete tornati ad essere
uomini a immagine e somiglianza di Dio.
Qui
dobbiamo per forza riferirci a una delle più profonde intuizioni di Chiara
Lubich che vede nei tre della casetta di Nazaret non solo il modello della vita
di focolare bensì il modello universale dei rapporti interpersonali che
vogliono essere «a immagine e somiglianza», ossia precisamente umani secondo
Dio: «Il focolare deve somigliare alla casetta di Nazareth, dove Gesù era
fisicamente presente tra Maria e Giuseppe...»; «E’ la vita della SS. Trinità
che dobbiamo procurare di imitare amandoci tra di noi, con la grazia di Dio,
come le Persone della Trinità si amano tra loro...»; «E’ la mistica del
comandamento nuovo, la mistica della Chiesa... E’ la mistica di Gesù, di Gesù
completo, dell’Uomo, non di un uomo... quindi la mistica di coloro che si
amano a vicenda come Egli ci ha amato; di una unità di anime che rispecchia,
stando in terra, la Trinità di lassù».1
Allora
«cercate prima il regno di Dio» vuol dire: vivete a mo’ della Trinità su questa
terra ossia «siate in comunione», «siate Chiesa» (icona della comunione
trinitaria, appunto), «e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù». Invece
normalmente, nella nostra predicazione, diciamo che se andiamo a messa, se
facciamo l’elemosina... Dio si compiace della nostra obbedienza e ci manda il
soprappiù. Ebbene, questo deus ex machina, questo dio artificiale non è
credibile e non lo è soprattutto per la coscienza moderna.
Gesù
ci ha spiegato che se viviamo l’amore siamo come Dio. Se amo, dunque, se mi
relaziono all’altro, pronto a morire per l’altro, a vivere l’altro ecco la
tecnica dell’unità io vivo Dio, e nella reciprocità d’amore trovo il centuplo,
poiché in questa stessa socialità divina, vissuta sulla terra attuando, ad
esempio, la comunione dei beni, trovo tutti i beni materiali e spirituali.
Questo
tipo di socialità trinitaria che Gesù ha portato sulla terra, dovrebbe essere
anche il paradigma di ogni attività che facciamo nella pastorale. Vivere a mo’
della Trinità è anche tutto l’apostolato, tutta la missionarietà dei
cristiani, dal momento che Gesù ha detto: «Da questo conosceranno che siete
miei discepoli oppure: che Dio mi ha mandato se vi amate gli uni gli altri». Ma
perché? Perché questa è la nuova socialità portata da Gesù rivelandoci la
Trinità.
Non
ci sono altre indicazioni di tecniche di apostolato date da Gesù che non siano
la testimonianza. La stessa cosa dicono gli apostoli: Noi vi comunichiamo
soltanto quello che abbiamo visto coi nostri occhi, udito con le nostre
orecchie, palpato con le nostre mani... un’esperienza di Dio, fatta con Gesù
fra loro, un’esperienza di vita trinitaria, appunto, la nuova socialità (cf. 1 Gv
1, 1-3).
La
vita trinitaria è modello di ogni vita spirituale, perché se vivi «alla
trinità» sei in Dio.
E’
modello della vita fisica perché nel vivere il rapporto scambievole alla
Trinità non c’è soltanto la salute psichica, ma si trovano anche le condizioni
ottimali per la salute fisica. C’è la salute, perché l’uomo arriva a modellarsi
secondo il disegno di Dio, a essere se stesso proprio perché «in comunione» e
può dire con verità: Io sono. E si sa quanto importi, questo, alla salute
fisica e psichica.
Il
modello trinitario è paradigma anche dell’armonia, dell’arte. Tre che
sono uno, uno che è tre. Il molteplice, tutto relazionato nei suoi componenti,
è l’ordine dell’universo; e quelli che hanno messo gli occhi in Dio, i mistici,
vedono tutto nello schema trinitario. Tanto per citare una mistica moderna: è
impressionante quanto Chiara Lubich insista per dire che tutto nel mondo è in
relazione trinitaria.
Il
Verbo di Dio è la sapienza personificata. Ma perché allora non ricercare
la sapienza di Dio proprio in quel rapporto creato umano dell’amore
scambievole, quando si sa che: dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì
sono io, il Verbo, la verità, la sapienza in mezzo a voi? La sapienza è il
Verbo. Forse potremmo trovare i semi del Verbo in tutto il mondo, in tutte le
realtà; ma la sapienza è quella presenza viva di Gesù in mezzo ai discepoli che
vivono alla Trinità.
Dio,
poi, è il modello, il campione della comunicazione perché tutto quello
che è del Padre è del Figlio, tutto quello che è del Figlio è del Padre e lo
Spirito Santo è la Comunicazione, è l’Amore che li lega. La comunicazione
definitiva al mondo viene da Dio attraverso Gesù, il quale può dire che tutto
quello che il Padre gli ha rivelato ce l’ha comunicato. Ma allora anche il
modello della comunicazione all’interno della Chiesa non può essere diverso.
Un
Dio elitario o l’Emmanuele?
Un’altra
immagine di Dio abbastanza sbagliata che spesso noi abbiamo presentato è il
Dio elitario, il Dio che ha creato il mondo e l’umanità e poi si accontenta
di una piccola élite che vada in paradiso. Il Concilio Vaticano II ha rimesso
su nuove basi la concezione della salvezza, ma nel nostro modo di predicare,
nella nostra pastorale lasciando il giudizio ultimo sulla salvezza individuale
a Dio perché non mettere in risalto che vivendo Gesù, vivendo il vangelo,
vivendo il cristianesimo uno si realizza come persona, e quindi dà gloria a Dio
proprio realizzandosi come persona, perché la gloria di Dio è l’uomo vivente?
Perché insomma certi discorsi senza mettere mai in evidenza il fatto che se
l’uomo ritorna a essere «immagine e somiglianza di Dio» è veramente se stesso,
nuova creatura, e ha raggiunto lo scopo della redenzione?
Non
è proprio questa la testimonianza che dobbiamo dare, vivendo da risorti
come individui, vivendo secondo la dinamica sociale trinitaria come Chiesa (un
pezzo d’umanità redenta e risorta), affinché gli altri cinque miliardi di
persone che non hanno conosciuto la luce della Rivelazione possano dire:
«certo, la vita dei cristiani è più bella, più soddisfacente, più gratificante,
più creativa della nostra...»? O dobbiamo considerare sognatori Luca negli Atti
e l’Autore della Lettera a Diogneto quando scrive che la vita dei
cristiani, pur vivendo essi sulla terra, «svela le leggi straordinarie e
veramente paradossali della loro repubblica spirituale»?
Quindi
quando si dice nel nostro linguaggio che tutti sono candidati all’unità perché
tutti sono candidati a vivere Dio, questa parola va presa sul serio. Un
parroco, ad esempio, dovrebbe guardare con lo stesso occhio amoroso del Padre
del figliolo prodigo anche gli atei dichiarati, anche i mangiapreti, perché dal
momento che Gesù ha assunto la natura umana, tutto ciò che ha ragione di uomo,
tutto ciò che si può dire umano è assunto da Gesù, e Gesù è figlio di Dio e tutti
gli uomini sono chiamati a essere figli nel Figlio. Pensiero che dovrebbe
metterci dentro un sacro e altissimo rispetto per ogni uomo vivente.
Ex
opere operato,
ma anche ex opere operantis!
Il
deus ex machina entra prepotentemente anche là dove si dà eccessiva
importanza all’ex opere operato e troppo poca all’ex opere operantis,
per cui si costata un abisso tra appartenenza anagrafica alla Chiesa e vita
cristiana. E’ vero che col battesimo «cambiamo natura», direbbe san Girolamo,
anche se lo si riceve nell’incoscienza; ma questo presupporrebbe che il
tirocinio a vivere cristianamente che un tempo precedeva il battesimo lo si
faccia dopo; tirocinio lungo, comunque, perché bisognerebbe arrivare a
sostituire effettivamente nei pensieri e nel comportamento i valori del mondo
con i valori evangelici, così che la confermazione dovrebbe significare che si
è presa coscienza di questa partecipazione alla società dei cristiani che è la
Chiesa e se ne diventa costruttori e testimoni. A giudizio universale, invece,
la cresima è il momento in cui, ricevuto «quello» Spirito Santo, la grande
maggioranza dei ragazzi e delle ragazze smette di andare in chiesa.
Le
relazioni interpersonali tra i coniugi dovrebbero essere tali da costituire
effettivamente una piccola chiesa domestica che sia e risplenda come icona
della Trinità perché il parallelismo paolino dei rapporti tra Cristo e Chiesa
non è solo una bella immagine ma esprime come si devono vivere i
rapporti trinitari tra marito e moglie. Sotto questo punto di vista, quanti
sono i matrimoni veramente cristiani? Il «contratto» matrimoniale può essere
valido e sacramentale; ma quanto ha di vita cristiana?
E
la stessa cosa si può dire anche per quelli che scelgono il sacerdozio o la
vocazione religiosa. Se, come oggi sempre più succede, si diventa preti già
pensando più o meno coscientemente che se poi non ce la faccio mi posso sempre
tirare indietro (coscienza generalizzata che non accetta più impegni
definitivi) è chiaro che non si è capito il significato della consacrazione,
anche se ex opere operato l’ordinazione ha avuto effetto. Certo, la
vocazione è una chiamata di Dio sempre misteriosa, ma è anche una decisione
personale che si prende, una scelta che uno fa per rispondere all’amore di Dio:
scelgo di servire l’umanità, quel pezzo di umanità che mi sarà affidato, perché
voglio vivere questo aspetto trinitario che è morire per l’altro. Allora si
capisce che a un certo momento non c’è più la possibilità di tirarsi indietro,
precisamente come nel matrimonio.
E
così per gli ordini religiosi. Il tu del frate è la comunità, e lui ha scelto
di morire per la comunità, di servire la comunità, di dare la sua vita per la
comunità. E’ una decisione anche sua, oltre che una chiamata di Dio sempre
misteriosa; è una scelta che fa, non per rifugiarsi o appoggiarsi o
santificarsi da solo, bensì per vivere nella comunità i rapporti trinitari, per
fare della comunità una «icona della Trinità», un piccolo regno di Dio in
terra. Allora, malgrado tutto, quand’anche la vita di comunità diventasse
difficile, non ci si può ritirare come non lo può una moglie col marito magari
paralizzato o un parroco in una parrocchia di atei... Gesù non si è ritirato
quando, sposando l’umanità, l’umanità l’ha messo in croce.
Prendiamo
l’eucaristia. Il nostro modo di avvicinarci all’eucaristia e la nostra
pastorale eucaristica sono spesso una menzogna esistenziale. Si va a fare la
comunione, perché lì c’è Gesù e poi si esce fuori e nel tuo parroco o
viceparroco o nel vescovo... o per i laici nella moglie o nel marito, nella
suocera o nella nuora o nel capufficio non si riconosce che lo stesso Gesù che
era nell’eucaristia è anche in quei prossimi che ci sono accanto. Noi, con la
nostra pastorale, non abbiamo forse facilitato questa contraddizione? Mentre
l’eucaristia è segno di unità, costruttrice di unità nel Corpo di Cristo che è
la Chiesa, troppo spesso la si è disgiunta dai rapporti sociali, e allora ha
ragione san Paolo: essa diventa condanna.
In
conclusione
Mi
ha fatto piacere qualche tempo fa leggere il resoconto di una tavola rotonda
fatta all’Università Lateranense alla quale hanno partecipato, fra gli altri,
Ignazio Sanna, decano della facoltà di teologia, e Marcello Bordoni, professore
di cristologia. Vale la pena riportare alcune frasi che hanno detto e scritto.
Ignazio Sanna dice: «Come mai questa
visione cristiana dell’uomo è rimasta nei libri di antropologia, nelle omelie
della messa, nel segreto del confessionale e non è servita a creare modelli
culturali di comportamento, a incidere nella costruzione della società, a
realizzare gli ideali di solidarietà, gli ideali di reciprocità?
Evidentemente qualche cosa non ha funzionato e non funziona ancora nella
comunicazione di questa antropologia. Forse invece di creare ponti di amicizia
e di simpatia, si sono costruiti dei sistemi, si sono elaborate delle
ideologie; ideologie di contrapposizione; ideologie dell’alternativa; si è
usato spesso Dio contro l’uomo. E questo è verissimo se a un certo momento un
genio, un filosofo come Nietzsche, dice che per salvare l’uomo bisogna
distruggere Dio. E’ perché noi abbiamo creato nella mentalità della gente
questo dualismo, quando la gloria di Dio è l’uomo vivente?».
E Marcello Bordoni dice: «Bisogna
rendersi conto che l’uomo, e quindi la coscienza umana collettiva, è un luogo
teologico; l’umanità e la cultura sono un luogo imprescindibile per poter
portare avanti un autentico discorso di fede nel contesto della situazione
storica in cui uno vive. La Chiesa allora in questo modo potrà preparare il
terreno alla evangelizzazione attraverso un linguaggio che sia più
comprensibile all’uomo».
Io
direi attraverso immagini di Dio che siano più vere, più evangeliche, e che
abbiano come supporto la testimonianza.
A
un certo punto Bordoni cita Rahner: «Ha scritto Rahner che l’umanità è la
grammatica di una possibile espressione di una comunicazione di Dio nella
storia. In ogni frammento di umanità c’è un sigillo di Dio uno e trino. E
Dio uno e trino vuol dire relazione, vuol dire dialogo, vuol dire comunione».
Silvano Cola