L’evangelizzazione nel contesto del post-moderno

 

 

Il vangelo
e le sfide della nostra cultura

 

 

di Aldo Giordano

 

Che cosa è che rende «interessante» il vangelo per l’uomo di oggi? Che cosa glielo fa cogliere per quello che è: messaggio di salvezza, «buona novella»? Alla ricerca di una risposta, l’autore propone innanzi tutto una lettura delle tensioni e delle ansie del «post-moderno», per mettere poi in luce la rilevanza del vangelo come promessa singolare di bellezza ed unità.

 

 

L’impresa  ardua  e   gioiosa   dell’annuncio
del vangelo si colloca concretamente nell’orizzonte della nostra storia e della nostra cultura con le sue domande e le sue sfide. Appare allora essenziale metterci in ascolto di questo orizzonte con i suoi sentieri (spesso sotterranei), con i suoi appelli (spesso brace sotto la cenere), per non scontrarci con il muro del disinteresse e dell’indifferenza e soprattutto per non ridurre il vangelo ai nostri piccoli punti di vista, consapevoli, come scrive il filosofo H. G. Gadamer, che «chi non ha un orizzonte è un uomo che non vede abbastanza lontano e perciò sopravvaluta ciò che gli sta più vicino (...). Chi ha un orizzonte sa valutare correttamente all’interno di esso il significato di ogni cosa secondo la prossimità e la lontananza, secondo le dimensioni grandi o piccole».1

 

Uno sguardo sintetico alla nostra umanità mostra che la sfida più radicale appare essere il ritorno costante, con sempre nuove maschere, della violenza (divisione lacerazione spezzamento) e l’impresa creativa più urgente, più attesa ed affascinante, la ricerca del segreto della ricomposizione dell’unità.

 

 

 

Le tensioni del nostro tempo

 

A livello macrosociale la nostra terra presenta le tragiche ferite conseguenti alla guerra del Golfo, numerosi focolai di oppressione e di ingiustizia, le popolazioni uccise dalla fame, il dilagare della piaga del colera nell’America Latina, le migrazioni dei popoli, il travaglio dell’Est, il rischio che il pianeta diventi inabitabile... La fasciatura di queste piaghe esige il superamento di una logica conflittuale mortifera tra Nord e Sud, Est ed Ovest, per avviare la possibilità di dialogo tra i popoli, le culture, le religioni, le politiche, le economie...

Se lo sguardo dal mondo si concentra più vicino a noi incontriamo il «caso» Europa: si può pensare alla nuova primavera di un’unità europea che comprenda anche l’Est? Esiste una cultura che possa essere anima delle integrazioni che si vanno avviando a livello economico, politico, giuridico? La «vittoria ai punti» dell’ individualismo liberista è vera risoluzione dei problemi?

 

Anche a livello microsociale le tensioni fra gli elementi sfociano in forme di divisione e rottura se non si scopre il segreto della possibilità di una creazione comune: la nostra storia è segnata da un rapporto tra l’uomo e la donna scaduto troppo spesso in un maschilismo deleterio o in un tipo di femminismo conservante la logica della conflittualità. Il ritmo incalzante delle ondate della mentalità ha acutizzato le tensioni tra le generazioni, specie tra genitori e figli. Le relazioni sociali sono inquinate da poteri di stampo mafioso, da forme diverse di delinquenza e dal disprezzo per il valore della vita.

 

Ma l’origine delle tensioni è l’uomo stesso ed il suo cuore: è un uomo diviso in se stesso che coltiva le lacerazioni attorno a sé: se la distinzione nell’uomo tra spirituale e corporeo diventa una opposizione, non si può che cadere o in uno spiritualismo disincarnato o in un materialismo che riduce l’uomo alle cose. Così la divisione tra amore e sessualità può essere all’origine di una delle più diffuse povertà umane.

 

E infine c’è un ambito di spezzamento più radicale di ogni altro: è quello che si sperimenta nel dolore che si esprime in modo radicale nella malattia terminale. Esso spezza dal proprio corpo, dalla psiche, dagli altri ed è minaccia di una rottura dell’essere stesso: la morte. Questa è allora la vera e ultima sfida posta all’evangelizzazione.

 

 

 

Sentieri del post-moderno

 

Le tensioni rilevate, da una parte sono «cose vecchie» per l’umanità, ma dall’altra sono anche radicalmente «cose nuove», in quanto caratterizzate dal momento storico, culturale che stiamo vivendo, denominato ormai abitualmente epoca del post-moderno.

 

C’è un rapporto intrinseco di reciprocità tra l’agire degli uomini ed il loro pensare. La nostra ricerca è allora spinta sul terreno delle idee che si respirano oggi ad ogni poro, considerando in particolare l’Occidente.

La caratteristica più significativa ed influente di questa nostra epoca appare essere la realtà delle comunicazioni (informatica, telematica, mass-media...).

Due tendenze di fondo percorrono il post-moderno.

 

a. La tendenza alla riduzione dello spazio

 

Le comunicazioni stanno rendendo il mondo piccolo, trasformandolo sempre più nel famoso «villaggio globale». Le distanze del passato si vanno riducendo con lo stesso ritmo incalzante dello sviluppo tecnico.

Questo fenomeno contiene immediatamente un’esigenza positiva e urgente per il campo delle azioni degli uomini: richiede la capacità di pensare in termini di mondialità, di affrontare i problemi nei vari ambiti (economico, politico, culturale....) con un’ottica planetaria e di interdipendenza. Non si può più seguire una logica di dettagli.

Rileggendo in termini simbolici questo tentativo di riduzione od anche eliminazione dello spazio, ci interessa qui mettere in luce il rischio che ad esso è connesso.

A livello più immediato osserviamo che si sono rotti degli spazi che nel passato erano luoghi di sicurezza e di identità: patria, paese, casa, chiesa..., creando una situazione di «deterritorializzazione» e una nostalgia per altri spazi (espressa anche dal gusto per la vita notturna, dallo spasmodico spostarsi da un locale all’altro, dal girare continuo senza mete precise...).

Più in radice, una mentalità «senza spazio» può essere ancora l’espressione di una cultura che non ammette la distanza-separazione-differenza-diversità tra l’io e l’alterità (l’alterità della natura, dell’altro uomo ed a livello più fondante, dell’Assoluto). Questa cultura è animata da un movimento «egologico» tendente all’affermazione egocentrica-narcisistica dell’io. Gli esiti sono di tipo ideologico-totalitario in quanto l’io (cioè una parte) pretende di ingigantirsi fino ad occupare tutto lo spazio e diventare la totalità, e questo è intrinsecamente violento. Un sociale, un collettivo, una «pace», un tutto, un uno, che elimina la diversità, la distinzione, in realtà nasce dalla divisione, dalla guerra e conserva in sé tutto il negativo del conflitto violento.

E’ la logica di Caino e Abele. La diversità a livello culturale (Caino e Abele esprimono due tipi di civiltà: quella sedentaria e quella nomadica), a livello cultuale (due tipi di sacrificio) e a livello teologico (l’elezione divina), diviene la tragedia. Il peccato è non volere la diversità dell’altro.

La logica della violenza contiene un accecamento dell’intelligenza che proietta nell’altro, visto come nemico e ostile, tutto il negativo ed il male, anche tutto il negativo che è in sé.

Questa cultura blocca l’uomo nella sua individualità e incomunicabilità senza un movimento di trascendenza veramente «ex-statico», cioè senza una vera uscita da sé verso un altro che sia visto come altro. Senza il permanere di uno spazio non c’è la possibilità di riconoscimento dell’alterità, non sgorga il pensiero della meraviglia e dello stupore davanti al volto dell’altro. Lo spazio è necessario come mediazione, come il terzo fra i due, come luogo dove l’io e l’altro s’incontrano senza fusione totalitaria, senza soppressione reciproca, come l’evento dove avviene la piena realizzazione dei due.

L’uomo ha quindi due esigenze fondamentali: quella di realizzare la propria libertà individuale e quella del vivere sociale. Se le due esigenze sono vissute in modo unilaterale, diventano nemiche e distruttive.

Gli altri sono negazione della mia libertà o delle strade concrete per la sua realizzazione?

Ecco una prima sfida per l’evangelizzazione.

 

 

b. La tendenza alla riduzione del tempo

 

Una seconda tensione presente ai nostri giorni, ancora più emblematica, è il tentativo della riduzione del tempo nella simultaneità degli istanti. Anche questo elemento, se da un lato è un profondo richiamo al fatto che la vita «si gioca» realmente nell’attimo presente, dall’altro contiene il rischio che gli attimi rimangano nella totale frammentazione, avendo perso il fondamento dell’Eterno che come un «filo d’oro» li potrebbe legare.

 

Staremmo per entrare nell’epoca della «fine della storia», non tanto nel senso catastrofico di un tramonto del pianeta Terra per distruzione atomica o ecologica, ma piuttosto nel senso dell’impossibilità di «raccontare una storia», sia in termini personali, sia in termini più generali, a causa della rottura stessa dell’unità del tempo nelle sue dimensioni di passato, presente e futuro.

 

Abbiamo vissuto la crisi del passato e sempre più si è allontanato dal nostro orizzonte il «da dove» veniamo, la realtà dell’origine, non tanto nel senso cronologico, ma nel senso della perdita della sorgente che ci costituisce nell’essere.

 

Una cultura senza «padre» ha visto la crisi della tradizione con le sue verità ed i suoi valori fino all’echeggiare del grido «Dio è morto», segno che fra l’umano e il divino si era creata una tensione, un conflitto non più risolto.

 

Nello stesso modo è penetrato il crollo del futuro con la scomparsa del «verso dove». Sembra svanire una «storia della salvezza»; l’ideale del progresso appare svuotato; l’assenza di senso, l’assurdo, percorre i nostri sentieri.

 

Nella sua «Vita di don Chisciotte» M. De Unamuno cita un proverbio popolare spagnolo in rima che simula un dialogo telegrafico e laconico. Qualcuno chiede ad un tale: «Donde vas Vicente?», e Vicente risponde: «Adonde va la gente». De Unamuno si ferma qui, ma rimane da chiedere secondo la reversibilità della rima: «Y donde va la gente?» Risposta: «Adonde va Vicente».

 

Le processioni del conformismo sono circolari, non lineari. Nessuno guida e nessuno va da nessuna parte, si segna il passo.

 

Con la crisi del «da dove» e del «verso dove» rimane la concentrazione sul presente, sulla frammentarietà degli istanti, il kierkegaardiano «danzare il valzer dell’istante». La vita è gioco, concepito come libera invenzione; un gioco in quell’istante, senza passato né futuro: una cultura senza padre e senza avvenire. E’ l’apologia della distrazione, di un pensare come pulsione continua.

Il mondo vegetale ci offre il simbolo particolarmente significativo del rizoma, un fusto che scorre nel sottosuolo, mai diventa radice profonda e mai fusto alto; progredisce per centri vitali che aprono a diramazioni in tutte le direzioni; se tagliato non muore, ma si sviluppa in creazioni imprevedibili. La cultura «rizomatica» scorre nel primo sottosuolo (è clandestina), non ha verità o valori assoluti su cui fondarsi, rifiuta ogni fondazione razionale ed ogni riduzione all’unità, non ha uno scopo, non un fine da raggiungere. Nell’apatia, del disimpegno, nel piacere vissuto fuori dell’armonia, nelle tragiche fughe delle droghe, nelle varie forme di potere violento, troviamo i frutti deviati di questo desiderio di vita innocente, libera da ogni regola e costrizione.

Chi vede il limite di questa frammentarietà degli istanti, ma non trova la strada per l’unità delle dimensioni della storia (presente, passato e futuro) rischia o salti all’indietro nel culto della memoria, con enfatizzazione della tradizione, dei principi autoritari o fideistici, con la nostalgia del passato o del già-fatto; oppure salti in vista di un varco nel futuro voluto senza nessuna continuità con quanto esiste oggi.

 

 

c. Esiti e sfide

 

Lo spezzamento dello spazio e del tempo, la loro frammentazione ed eliminazione minacciano la storia concreta dell’uomo. L’uomo è decostruito.

Sul versante della storia una tragedia è assunta come simbolo radicale di questa decostruzione: Auschwitz. Il segreto dei lager sembra stare nella bestia apocalittica (Ap 13, 13): un numero che trasforma gli uomini in numeri.

In essi non solo si mira ad eliminare la vita fisica, ma programmaticamente ad eliminare l’uomo stesso, riducendolo prima a bestia e quindi spegnendone ogni tipo di memoria.

 

La sfida più seria dell’evangelizzazione è proprio la realtà del rapporto tra l’uomo e Dio. Non basta dire Dio, occorre interrogarci su quale volto di Lui si presenti. E’ l’attesa di un Dio che sia in rapporto con il concreto esistere dell’uomo: un Assoluto concreto.

Emergono quindi le due dimensioni essenziali del vivere umano: il tempo e l’eterno. Da una parte la storia concreta dell’uomo e dall’altra la realtà dell’Assoluto stesso.

La vita concreta dell’uomo, senza un riferimento ad un Assoluto, cade inesorabilmente nel frammento. Questo è un rischio in una cultura che si preoccupa solo dei problemi immediati e concreti e quindi si affida unicamente a chi si presenta in grado di dirigerla in queste questioni: la scienza e la tecnica. Ma, come scriveva Wittgenstein nel suo Tractatus: «anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati».2

La cultura contemporanea non si è semplicisticamente arresa alla frammentazione e alla frattura; si è rimessa in cerca di un Oltre che potesse ridonare l’unità, ma spesso si è avviata sulla strada di un Assoluto senza volto e senza legami con la storia concreta degli uomini. Un Assoluto che non incontri mai il concreto esistere dell’uomo, non può interessare, anzi diviene una spinta verso una fuga dalla vita di ogni giorno. In questi ultimi anni il fatto nuovo del ritorno di un certo tipo di sacro presente nelle sette e nei vari gruppi gnostici ha rimesso fortemente in scena un religioso anonimo che come tale rischia di cancellare i nostri volti.

 

 

 

La logica della divisione
e quella dell’unita’

 

A questo punto della riflessione possiamo esplicitare sotto forma di tesi o di chiave di lettura la sfida che è posta all’evangelizzazione. Ogni sfida è una possibilità, esposta da una parte al fallimento e dall’altra ad una nuova creazione.

Il fallimento è la logica della violenza, quella del dia-ballein, dia-bolon (= dividere, accusatore), cioè quella dinamica che divide, lacera, spezza, riduce a frammenti-dettagli-parti e quindi (ideologicamente) sceglie uno di questi frammenti e lo rende il tutto. Un dettaglio occupa tutto il campo e per fare questo, con la forza, deve spazzare via tutte le altre dimensioni. E’ una profanazione ed un impoverimento dell’uomo.

 

La nuova creazione è la logica dell’unità, quella del sun-ballein, sun-bolon (= mettere insieme, accordo), cioè quella dinamica che crea l’armonia di tutti gli aspetti del reale, compone tutte le dimensioni dell’agire, difende la complessità e ricchezza dell’umano: è la bellezza.

 

Una pagina di F. Nietzsche può essere indicativa. Zarathustra è circondato da una turba di storpi e mendicanti che gli chiedono di essere guariti, ma egli osserva:

 

«Da quando sono in mezzo agli uomini, questo è per me il meno: che io veda: a costui manca un occhio, a quello un orecchio, a un terzo la gamba, e altri vi sono che hanno perduto la lingua o il naso o la testa.

 

Io vedo e ho visto ben di peggio...: uomini cioè cui manca tutto, se non che hanno una sola cosa di troppo uomini che non sono nient’altro se non un grande occhio o una grande bocca o un grande ventre o qualcos’altro di grande, costoro, io li chiamo storpi alla rovescia.

 

E quando venni dalla mia solitudine e per la prima volta passai da questo ponte: non potevo credere agli occhi miei, e guardai, guardai ancora e alla fine dissi: questo è un orecchio! un orecchio grande quanto un uomo!. Guardai meglio: e, realmente, sotto l’orecchio si muoveva una coserella piccola e misera e stentata da far pietà. In verità, l’orecchio mostruoso poggiava su di un piccolo esile stelo, ma lo stelo era un uomo! Chi avesse guardato con la lente, avrebbe persino potuto riconoscere un visetto piccino e invidioso; e anche che dallo stelo penzolava un’animuccia enfiata. Il popolo, tuttavia, mi disse che il grande orecchio era non solo un uomo, bensì un grand’uomo, un genio, io però non credo mai al popolo, quando parla di grandi uomini così rimasi nella mia convinzione, che cioè si trattasse di uno storpio alla rovescia, che aveva troppo poco di tutto e troppo di una cosa sola...

In verità, amici, io mi aggiro in mezzo agli uomini come in mezzo a frammenti e membra di uomini! E questo è spaventoso ai miei occhi: trovare l’uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di macello...

Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità».3

 

 

 

Dall’ego all’altro

 

Ma il ricomporre in uno non è rimasto il sogno di un poeta: è accaduto. Nella vicenda dell’uomo, in modo sorprendente e inatteso, ha fatto irruzione l’evento del Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, un Assoluto concreto, un Eterno nel tempo. L’unità è accaduta con Gesù di Nazareth, innalzato da terra «per fare dei due un popolo solo»; divenuto Lui divisione, dolore, nulla, nell’Abbandono sulla croce e nella morte, per Amore.

Sulla croce si è aperto il più grande deserto della storia, ma esso non è rimasto uno spazio desolante e vuoto; è stato abitato dalla figliolanza, dall’Amore. Quell’estremo dolore-divisione è coinciso con l’esplosione della luce della risurrezione. Non più tenebre o luce, dolore o gioia, morte o vita, ma morte e vita, dolore e gioia, tenebre e luce: una nuova logica, una nuova storia.

Di questo evento, della sua persona, avevano già cominciato a vivere i suoi amici, i discepoli, e attraverso loro la «buona notizia» è stata raccontata e resa presente nei secoli ed ha aperto agli uomini la via, il segreto.

 

Se le rotture sono esito del tentativo dell’affermarsi di una parte sulle altre, cioè di un individualismo chiuso su se stesso, prima tappa che il vangelo ci indica per la nuova storia è l’uscire dalla fortezza dell’ego per scoprire il volto dell’altro.

 

L’io è sempre preceduto dall’apparire di un volto che si presenta nella sua unicità, singolarità, solitudine, separazione, mistero, inafferrabilità, nudità, povertà, irrepetibilità. Nell’apparire del volto dell’altro c’è sempre una non-appartenenza, un «noli me tangere». Il volto dell’altro si offre senza armatura e colpisce a bruciapelo, mi guarda fisso negli occhi. La sua superiorità è concentrata negli occhi inconfondibili. Il volto disarmato reclama giustizia, «non uccidere».

 

Il volto soprattutto è traccia che traluce l’Infinito  ed è appello allo stupore ed alla meraviglia.

 

Ed in modo misterioso è proprio il volto divenuto traccia cancellata, il volto che «non ha più bellezza, non ha più splendore, non ha più niente che attiri i nostri sguardi», il volto ferito, che richiede di non fare sosta a lui, ma di andare oltre fino a cogliere la Bellezza dell’ Infinito che traluce in modo più nascosto, ma più puro, non più confondibile con qualcosa di passeggero e di caduco.

 

L’io è chiamato a deporre la propria sovranità per essere custode di un’epifania, per accogliere l’irruzione di un inatteso.

Il volto dell’altro richiede:

 

- responsabilità (= responsum dare): dare una risposta al suo appello, uscendo dall’indifferenza e dal disimpegno.

 

- disinteresse (dis-inter-esse): una visione dell’essere «ferito» interiormente dal rapporto, quindi mai riducibile a possesso o autonomia solipsistica.

prendersi cura: che non è un sostituirsi all’altro, ma è un «farsi uno», un far sì che l’altro sia.4

 

Ma tra tutti i volti diventa decisivo l’incontro con il Volto che in modo inatteso si fa incontro come Risorto, ma con i segni del Crocifisso, e ti domanda: «Mi ami tu?». Ed è proprio questo volto che i nostri occhi possono scoprire in ogni fratello.

 

 

 

Il dialogo e l’evento dell’unità

 

Un passo avanti è ancora richiesto per realizzare l’ideale del vangelo: non fermarsi al riconoscimento del volto dell’altro, ma giungere alla reciprocità del rapporto, dell’amore.

 

Il dare la vita nella gratuità genera la risposta di amore: anche l’altro dona la vita. Nasce il dia-logos (= la parola tra i due) che è lo spazio di novità che si apre tra me e l’altro quando ciascuno esce da sé, per essere dono, per farsi incontro all’altro.

 

In questo spazio accade l’avvenimento di una terza realtà: l’unità. L’evento dell’unità permette ai due di uscire dalla solitudine, di non entrare in conflitto, di non fondersi in una situazione impersonale. L’unità è un evento che fa uscire sia da una logica monistica che da una duale-conflittuale e rende possibile la più grande comunione insieme alla più grande realizzazione della propria personalità e libertà.

 

La nostra patria non è né l’individualità sola (anche il gorilla è un individuo!), né una collettività anonima (anche il termitaio è collettività!), ma proprio lo spazio di novità che si apre tra me e l’altro. Ed è questo terzo il rapporto che permette di uscire dalla solitudine e dal conflitto. Questo terzo ha un volto: è lo Spirito del Risorto tra noi.

 

Nel dialogo non c’è nessuno che può ritenersi possessore della verità, come se la verità fosse una dottrina che qualcuno conosce e altri no o una cosa che qualcuno possiede e altri no. La verità è l’evento di Gesù morto e risorto che già sempre ci precede, accade tra di noi e ci chiama al suo riconoscimento sempre da rinnovarsi ed alla sua sequela. Non noi possediamo la verità, ma la verità possiede noi quando siamo disponibili alla ricerca, al metterci in cammino insieme e soprattutto ad una creazione comune donando le proprie ricchezze, i propri doni. La verità è come un gioco che si realizza se noi siamo disposti a giocare, ma soprattutto è il gioco che gioca noi. Non siamo noi all’origine del gioco, ma piuttosto dipende da noi lasciarci coinvolgere nel gioco che già è là.

 

Il «gioco» dell’unità è l’irruzione sorprendente di una nuova logica: non più quella egologica, monistica che sfocia nei totalitarismi, né quella duale che porta ai conflitti anarchici, ma quella trinitaria. Il volto dell’Assoluto che è rivelato in pienezza nella cattedra del Cristo pasquale è Trinità. Il «gioco» dei rapporti trinitari è la patria a cui ci spinge l’inquietudine del cuore umano.

 

La presenza del Risorto tra i suoi permette il vivere già su questa terra una scintilla della vita stessa di Dio. Il Risorto è il terzo che permette ai due di essere se stessi pienamente realizzati e insieme di essere una cosa sola. La testimonianza prima di tutto e poi l’annuncio di questo vangelo appare «interessante» per l’uomo perché ricrea l’unità e la bellezza: un’unità e una bellezza che nemmeno la morte può spezzare: questa è la grande nostalgia dell’uomo.

 

 

 

Verso un mondo unito

 

Se la logica del dialogo dal livello interpersonale passa poi a livello di partiti, di classi, di nazioni, di razze, di culture, di religioni, non è più pura utopia pensare ad un mondo unito.

Le distinzioni, le diversità, gli interessi di parte (a livello di economie, di culture, di religioni...) potranno diventare non occasione di conflitto, ma vero contributo per una creazione comune.

 

Aldo Giordano