Un approfondimento di punti nodali degli «Orientamenti pastorali»
della Chiesa italiana per gli anni ‘90

 

 

La carità: «cuore» della Chiesa
e del suo annuncio

 

 

di Piero Coda

 

Presentati dai vescovi italiani nel dicembre scorso, gli «Orientamenti pastorali per gli anni ’90» hanno trovato un’ottima accoglienza non solo in ambito ecclesiale ma anche in quello laico. Già il nome ne esprime la novità: al posto di un «piano» si sono voluti offrire degli «orientamenti» sempre aperti, strada facendo, alle mosse imprevedibili dello Spirito. Ma il pregio più grande è senz’altro la visione globale ed organica che sta alla base del documento una vera rilettura del mistero cristiano e quindi del compito e delle modalità dell’evangelizzazione per i tempi di oggi. Lo studio che qui presentiamo ne mette a fuoco e ne approfondisce importanti punti nodali.

 

 

         Qual è  il  rapporto fra la  carità  e la  Chie-
sa? Qual è il rapporto fra la carità e la testimonianza e l’annuncio di Cristo che la Chiesa è chiamata a dare al mondo? E, ancora, quale rapporto vi è fra testimonianza e annuncio, alla luce della carità? Queste, penso, sono alcune domande fondamentali che ci vengono suggerite dal tema proposto alla nostra riflessione dagli «Orientamenti pastorali» della CEI. E’ evidente che sono due i nuclei principali che debbono attirare la nostra attenzione per informare poi la nostra prassi: da un lato, la carità vista in prospettiva ecclesiologica, soprattutto per quanto riguarda la vita della Chiesa al suo interno, nel suo essere; dall’altro, la carità vista in rapporto alla missione della Chiesa nei confronti del mondo, e, in particolare, nei confronti degli ultimi e dei poveri, cui Cristo, con preferenza, la indirizza.

 

Articoliamo dunque il nostro breve approfondimento attorno a questi due nuclei tematici.1

 

 

 

I. 

LA CARITA’ «FORMA» DELLA CHIESA

 

Si tratta di un tema che in questi ultimi anni è stato al centro della riflessione di molte istanze presenti nella Chiesa italiana. Su invito della Caritas, l’Associazione Teologica Italiana ha dedicato un intero suo congresso, di cui sono ora pubblicati gli Atti, a questo argomento.2 La stessa Caritas, in collaborazione con la Pontificia Università Lateranense, ha tenuto, in questi ultimi anni, due importanti convegni, il primo sulla carità come anima della teologia cristiana e il secondo sul rapporto fra carità e politica.3 Infine, il tema della testimonianza della carità, in intimo nesso con quello della «nuova evangelizzazione», è al centro degli «Orientamenti pastorali» della Chiesa in Italia per gli anni ’90.4 Dunque, un tema importante per la Chiesa italiana, un tema che ha suscitato molteplici studi con una certa originalità di risultati anche rispetto al cammino di altre Chiese e di altre teologie, e attorno al quale è ora possibile tentare di offrire una riflessione più organica e articolata.

 

 

 

a.

La sorgente «teologica»
e «trinitaria» della carità

 

Ma, per affrontare il tema del rapporto fra la carità e la Chiesa, è fondamentale innanzi tutto porsi la domanda sulla sorgente della carità, e sulla sorgente dell’essere della Chiesa. In effetti, se esaminiamo il Nuovo Testamento, dobbiamo concludere senza difficoltà che il termine agape, carità, viene usato in modo fondante e originario come una categoria cristologica sintetica per descrivere e annunciare la totalità dell’evento-Cristo. Basti pensare in questo senso al vangelo di Giovanni e alla prima lettera dell’apostolo: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha donato la sua vita per noi» (1 Gv 3,16: 4,10; cf. Gv 3, 16). Dunque l’agape, la carità, prima di avere una connotazione ecclesiologica, ha una decisa e specifica connotazione cristologica. L’agape è il Cristo stesso come evento dell’autocomunicazione salvifica del Padre alla storia dell’uomo. E’ contemplando l’avvenimento del Cristo, e in modo culminante l’evento della sua Croce e della sua resurrezione, che l’uomo incontra l’agape del Padre.

 

In questa prospettiva, l’agape, come sintetica categoria cristologica, rinvia di per sé alla sorgente propriamente teologica dell’evento Cristo. E’ ancora la prima lettera di Giovanni a chiamare Dio stesso Agape (4, 8, 16). Non si tratta di una definizione metafisica, ma di un termine riassuntivo che condensa l’esperienza della comunità apostolica soprattutto post-pasquale e, allargando lo sguardo, condensa l’intera esperienza di Israele dinamicamente protesa verso il suo compimento cristologico. JHWH, che nell’Antico Testamento si è presentato come Dio dell’Alleanza, fedele e misericordioso, rivelando a Mosè il suo nome sul monte Sinai, ha sottolineato a un tempo la sua infinita trascendenza rispetto alla storia e la sua più intima prossimità all’uomo: JHWH è il Dio-con-l’uomo. La rivelazione veterotestamentaria, come autocomunicazione salvifica di Dio, giunge al suo compimento nell’evento Cristo e nel dono dello Spirito. E’ autocomunicandosi in Cristo e nello Spirito, che Dio si rivela per quello che egli intimamente E’: perchè «E’» Agape in Sé stesso, Egli si rivela Agape verso l’uomo in Cristo, donando il Figlio suo agli uomini, ed effondendo il Suo Spirito nel cuore dei credenti. Autocomunicandosi, Dio «squaderna» il Suo essere interiore come infinito mistero di scambio e di reciproca accoglienza, e invita l’uomo liberamente a parteciparvi.

Come ben comprende e testimonia tutto il Nuovo Testamento, il divino «piano inclinato» di questa autocomunicazione di Dio Agape è la kenosi e la Croce del Cristo (Fil 2, 6-11). E’ un volto infinitamente nuovo di Dio quello che la Croce del Cristo rivela: il Dio onnipotente che si fa umile, il Dio infinito che si fa piccolo, il Dio santo che si fa peccato (cf. Gal 3,13; 2 Cor 5, 21). E’ solo di fronte a questa paradossale e abissale testimonianza dell’amore di Dio che l’uomo scopre che cos’è l’amore nella sua pienezza e nella sua «verità» teologica che è, di conseguenza, «verità» della creazione.

E’ di qui, da questa contemplazione, da questo credere all’amore (cf. 1 Gv 4, 16), e cioè aprirsi fiduciosamente e totalmente all’evento dell’Agape di Dio in Cristo e per lo Spirito, che nasce la Chiesa. Come luminosamente si esprime l’evangelista Giovanni, la Chiesa è la comunità di coloro che sono attirati dal Crocifisso, di coloro che guardano a Colui «che è stato trafitto» (cf. Gv 19, 37; 8, 28; 12, 32), contemplando lo spettacolo dell’Agape del Padre, accolgono il Suo dono, e, convertendosi, liberamente decidono di seguire Cristo facendosi essi stessi promotori, banditori e trasmettitori del suo evento di Agape nelle trame variegate della storia dell’uomo. Se Cristo «racconta» l’Agape del Padre nella forza dello Spirito, la comunità ecclesiale nella forza del medesimo Spirito «racconta» l’evento-Agape del Cristo.

 

 

 

b.

Le caratteristiche della carità
come «forma» della Chiesa

 

In questa prospettiva, l’Agape non è soltanto l’origine e la sorgente dell’evento ecclesiale, ma ne diventa la forma di vita. Dalla caratterizzazione cristologica, trinitaria e pneumatologica dell’evento dell’Agape di Dio, scaturiscono dunque anche le caratteristiche fondamentali dell’Agape come forma di vita della Chiesa.

 

b.1. Innanzi tutto, l’Agape significa e configura rispetto e apertura all’alterità. L’Agape nasce quando l’uomo, toccato dall’amore del Padre in Cristo, si fa capace di riconoscere nell’altro uomo il volto di un fratello, anzi, del «primogenito» che si rispecchia nei molti fratelli: il Cristo. Come ben sottolinea oggi, ad esempio, un pensatore come E. Lévinas, già nell’Antico Testamento il riconoscimento del volto del fratello diventa per l’uomo il luogo dell’esperienza etica, non soltanto, ma anche dell’esperienza religiosa. Nel «tu» che lo interpella, l’«io» nasce alla sua responsabilità etica. E, allo stesso tempo, vede e sperimenta il tralucere, attraverso il volto dell’altro, della presenza dell’Altro assoluto che lo interpella. Dunque, la prima caratteristica dell’Agape è proprio quella della scoperta dell’alterità. Come Dio mi personalizza attraverso la sua Agape, donandomi la mia identità, custodendola nella sua alterità e promuovendola verso il suo dispiegamento nella piena comunione con Lui, così l’Agape del credente come quella del cristiano, personalizza l’altro uomo facendolo diventare fratello.

 

b.2. Seconda fondamentale caratteristica dell’evento dell’Agape è la reciprocità. Il rapporto col volto dell’altro giunge al suo compimento quando, in risposta al mio riconoscimento, l’altro riconosce anche me come fratello. E’ il comandamento «nuovo» del Cristo (il «mio comandamento») che ne riassume il messaggio: «amatevi l’un l’altro come io ho amato voi» (Gv 15,12). L’Agape ha infatti, per natura sua, una struttura di reciprocità, come rivela in pienezza il mistero della Trinità di Dio. Il dono che il Padre fa a noi del Figlio, e il dono che il Figlio fa di Sé a noi sulla Croce, hanno il loro compimento nella reciprocità fra il Padre e il Figlio dischiusa nella luce dello Spirito dalla resurrezione e, per partecipazione, nella reciprocità di risposta che l’uomo è chiamato a dare nei confronti dell’evento dell’Agape del Padre e del Figlio. Questa caratteristica di reciprocità porta a compimento l’Agape come riconoscimento dell’alterità del volto, e realizzando la comunione fra i soggetti che entrano in rapporto, non sopprime ma esalta l’alterità. L’Agape si manifesta, pertanto, come un evento di unità nella distinzione, di distinzione nell’unità. La Chiesa trova in questo evento la sua essenza più profonda: l’unità (per dirla in termini giovannei), l’essere un corpo solo (per dirla in termini paolini), che si esprime in una pluriformità di identità personali, che restano ciascuna insopprimibile e insostituibile di fronte a Dio e di fronte ai fratelli, e che lo Spirito adorna di molteplici carismi e lega in profonda comunione.

 

b.3. Come narra lo «spettacolo» della Croce del Cristo, così come è sviscerato nella sua profondità nell’inno di San Paolo della lettera ai Filippesi, l’Agape mostra anche di avere, in quanto struttura di reciprocità, una caratterizzazione kenotica. Il riconoscimento dell’alterità, la pienezza della reciprocità come unità nella distinzione, presuppongono la capacità nello Spirito di «perdersi per ritrovarsi» (cf. Lc 9, 25; Gv 15, 13; Gv 10, 17s.). E’ questa la legge trinitaria dell’Agape. Come il Padre è se stesso in quanto è relazione, dono di sé totale al Figlio, e tale è il Figlio nel rapporto col Padre, così anche il credente è chiamato, nel seguire Gesù, a vivere questa legge pasquale di morte a sé, resurrezione in Cristo. Senza questa profondità kenotica, l’Agape non raggiunge la sua pienezza.

 

b.4. Un’ulteriore caratteristica dell’Agape è quella della sua costitutiva apertura ed effusività al e nel «terzo». L’Agape è per sé effusiva. Come il Padre e il Figlio sono uno e distinti nello Spirito, e lo Spirito rappresenta allo stesso tempo, il cuore, l’intimo di Dio e il Suo estremo, la sua «estasi» il sigillo dell’unità di Dio, e il traboccare del Suo amore nella creazione e nella storia , così l’Agape ecclesiale è, per definizione, il contrario della chiusura settaria e del ghetto. Mentre fonde in unità, in comunione, l’Agape spinge alla missione, perchè è apertura e traboccamento. Se manca una di queste due caratteristiche la profonda unità e la decisa apertura al «terzo» la Chiesa non vive la sua forma che è l’Agape del Cristo.

 

b.5. Infine, ultima caratteristica dell’Agape come forma della Chiesa, è la sua concretezza, ovvero la sua storicità. L’Agape del Padre si è incarnata nel Figlio, si è fatta storia, parola, gesto. Così, per la struttura antropologica stessa dell’uomo come spirito incarnato e per la modalità incarnatoria dell’evento della salvezza, l’Agape si esprime nella totalità dell’essere dell’uomo e delle sue molteplici e costitutive dimensioni d’esistenza; si mostra nella parola, si traduce nel gesto, si edifica nella struttura, si «politicizza» nella trasformazione del rapporto sociale. Senza questa concretezza storica, l’Agape ecclesiale non è cristologica, corre anzi il rischio di incappare in una pratica eresia docetica o monofisita o spiritualista, corre il rischio di predicare la fuga dal mondo, di dimenticare la storia, consegnandola in realtà all’anti-agape.

 

 

 

c.

Rapporto fra la carità «ecclesiale»
e la «carità» che è Dio

 

Se queste sono alcune delle caratteristiche fondamentali che l’Agape assume nella vita della Chiesa, non è difficile intravvedere anche qual’è il rapporto che queste caratteristiche stabiliscono fra la vita della Chiesa come vita dell’Agape, e il mistero di Dio rivelato in Cristo.

 

c.1. Il primo rapporto è disegnato da quella che potremmo definire l’iconicità della vita della Chiesa come Agape, rispetto al mistero di Dio. Proprio perchè la vita della chiesa deve diventare evento di Agape in Cristo e per lo Spirito, la Chiesa stessa diventa trasparenza dell’Agape trinitaria. Dio, il Cristo risorto, lo Spirito, non agiscono al di là, accanto alla Chiesa, (anche se è vero e non bisogna mai dimenticarlo, pena il tradimento dell’Agape stessa! che la loro presenza e la loro azione nella storia trascendono sempre la Chiesa), ma si rendono presenti attraverso la Chiesa, quanto più essa sa diventare trasparente icona del loro Amore. E’ evidente quanto questa visione, che possiamo trovare sia nel tema paolino della Chiesa-Corpo di Cristo come visibilità del Risorto, sia in quello giovanneo dell’unità fra i discepoli come mutua immanenza della Trinità in noi, e di noi nella Trinità (cf. Gv 17), che rende credibile l’evento della salvezza, abbia incidenza sul tema della missione della Chiesa.

 

c.2. Un altro rapporto fondamentale è quello dell’eccedenza ed inesauribilità che l’Agape di Dio conserva rispetto all’Agape della Chiesa. Non solo la Chiesa, sempre di nuovo, deve alimentarsi dalla sorgente teologica e teocentrica della sua Agape, ma anche deve essere cosciente che essa mai traduce in pienezza e in totalità l’Agape che è Dio stesso. La coscienza di questa distinzione, di questa alterità che si mantiene nell’unità fra l’Agape di Dio e l’Agape della Chiesa, è manifestata storicamente dal fatto che la Chiesa non solo testimonia iconicamente l’Agape di Dio, ma continuamente, sempre di nuovo, celebra e narra l’Agape del Padre. La celebrazione dell’Eucaristia, e la proclamazione-narrazione della Parola di Dio testimoniano la profonda autocoscienza che la Chiesa ha, non solo di ricevere l’Agape dal Padre per Cristo nello Spirito, ma anche dell’infinita eccedenza di quest’Agape rispetto alla realtà storica della Chiesa.

 

In sintesi, potremmo dire che l’Agape, come forma della Chiesa, disegna un volto di Chiesa totalmente relazionale: la Chiesa che si riceve dall’Agape trinitaria; la Chiesa che è chiamata a proiettarsi verso il mondo, in attesa e invocazione della consumazione escatologica; la Chiesa che in se stessa è chiamata a ridisegnare quell’evento dell’Agape da cui continuamente nasce, ed è chiamata a modellare la sua diaconia nei confronti del mondo sull’Agape del Cristo.

 

 

 

d.

Imperativo della configurazione
agapica della Chiesa in tutte
le sue espressioni

 

Delineo una conseguenza soltanto di quanto detto sinora sulla realtà della carità come forma della Chiesa. Se è così, all’interno della Chiesa non solo le relazioni interpersonali debbono essere permeate il più possibile dalla forma caritatis, ma anche le istituzioni ecclesiali, così come le ha volute Cristo Gesù, ponendo le basi della Chiesa, e anche così come l’esperienza storica della Chiesa le ha volute, interpretando la volontà originaria del Signore, debbono anch’esse essere testimonianza viva, trasparenza dell’Agape divina. La struttura di koinonia che, come ha messo in evidenza il Concilio Vaticano II e ci ha richiamato il Sinodo straordinario del 1985 a vent’anni dalla conclusione del Concilio, è il messaggio centrale del Vaticano II, è la realizzazione storica di questa Agape che è la forma della Chiesa. Koinonia che si traduce, ad esempio, a livello istituzionale, nel rapporto di collegialità e di primato fra il Vescovo di Roma, che già sant’Ignazio di Antiochia definiva come colui che presiede all’Agape universale, e i singoli vescovi; nel rapporto fra i vescovi e i sacerdoti all’interno del presbiterio diocesano; nel rapporto fra i laici e i vescovi e i presbiteri, secondo la prospettiva delineata, sulla scorta del Vaticano II, dalla Christifideles Laici;5 per non dire dei religiosi e delle religiose che sono appunto chiamati a rendere presente nel tessuto vivo della Chiesa e del mondo la tensione escatologica che è altresì presente in ogni manifestazione di carità. In questo senso, dunque, non solo quelle che, con Ricoeur, possiamo chiamare le relazioni «corte» (immediate) all’interno della Chiesa debbono essere espressione di carità, ma anche le relazioni cosiddette «lunghe» (mediate). Senza dimenticare che la koinonia, come frutto della carità, per natura sua non investe solamente la dimensione spirituale della comunanza dei beni escatologici della salvezza, ma per la struttura storica e incarnatoria dell’Agape, deve coinvolgere la totalità dell’espressione storica dell’esistenza cristiana, ivi compresa la dimensione «economica», come del resto ci mostrano le diversificate forme di «comunione dei beni» nei testi del Nuovo Testamento: dalla comunità apostolica descritta negli Atti degli Apostoli, alle diverse esperienze di collette e condivisioni di beni che ci testimonia l’epistolario paolino.

Parafrasando San Tommaso, che nella Summa Theologiae ha luminosamente definito la caritas come forma omnium virtutum,6 nella prospettiva ecclesiologica che abbiamo delineato potremmo dire che la carità deve mostrarsi come la forma di ogni attività della Chiesa, di ogni relazione all’interno della Chiesa, di ogni struttura chiamata a disciplinare e a rendere organica la koinonia ecclesiale. Solo se la carità dà la sua forma alla vita ecclesiale, la Chiesa stessa può assolvere il suo compito sacramentale di «segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità del genere umano» (Lumen Gentium, I): e cioè assolvere a quelle due fondamentali caratteristiche che definiscono come tale la carità di cui la Chiesa è oggetto e strumento l’iconicità, e cioè la trasparenza di Dio nella storia, e l’eccedenza dell’amore divino rispetto alla sua traduzione storico-ecclesiale. Se non è così, l’iconicità della Chiesa è offuscata, e in essa non è possibile contemplare la presenza e l’azione continuata di Dio nella storia, mentre la Chiesa stessa non lascia trasparire e non annuncia la sovrabbondanza, l’eccedenza dell’Agape divina rispetto ad essa medesima, diventando così non strumento di salvezza, ma pietra d’inciampo nel cammino dell’uomo verso Dio.

 

 

 

II.

LA CARITA’ TRA TESTIMONIANZA
E ANNUNCIO

 

Già il primo punto che abbiamo sinteticamente svolto ci offre molti elementi per articolare in modo corretto il rapporto fra carità, testimonianza e annuncio, e, nella prospettiva della carità, il reciproco rapporto fra annuncio e testimonianza.

 

 

 

a.

Superamento del falso dilemma
fra liberazione storica
e salvezza metastorica

La cosa fondamentale e previa per affrontare nella giusta prospettiva questo tema, è quella di andare decisamente al di là di un falso dilemma che, se non in forma esplicita, almeno inconsciamente, talvolta vizia il nostro modo di comprendere e di attuare nella prassi vuoi la testimonianza cristiana, vuoi l’annuncio della lieta notizia evangelica. Innanzitutto: l’annuncio non è per se stesso soltanto l’annuncio di una salvezza trascendente, o di una salvezza che tocchi unicamente la dimensione spirituale dell’uomo, secondo un modulo di comprensione dell’esperienza religiosa spiritualistico o «liberale» (nel senso della teologia liberale di stampo protestante), ma anche secondo un’interpretazione del cristianesimo tipica di tanta cultura «laicista» dell’Occidente europeo, che pretenderebbe relegare l’evento cristiano nel privato. D’altra parte: la testimonianza, soprattutto la testimonianza della carità, non deve essere intesa come mera operatività e prassi storica, avente come proprio oggetto la dimensione naturale, materiale, socio-politica dell’esistenza umana, anche qui secondo una modalità di interpretazione del cristianesimo che tende questa volta a ridurlo alla sua semplice dimensione sociale e terrena.

 

Infatti l’annuncio cristiano dev’essere globalmente inteso, secondo quanto già abbiamo rapidamente veduto, come annuncio della carità, «Vangelo della carità», nell’integrale prospettiva che vede in Cristo la figura concreta della carità di Dio verso l’uomo, e della carità dell’uomo verso Dio e verso l’altro uomo. In questo senso l’annuncio, l’evangelizzazione esplicita, ha per sé una duplice dimensione: investe l’esperienza storica dell’uomo, con tutto lo spessore delle sue caratteristiche e delle sue esigenze, mentre d’altra parte illumina la radice spirituale dell’uomo, dischiudendogli non solo l’esistenza e la realtà della trascendenza divina, ma anche l’orizzonte metastorico della sua vocazione e della sua destinazione ultima.

 

Allo stesso modo, la testimonianza (nel senso etimologico forte del termine, la martyria) è trasparenza di Dio, e dunque non è riducibile ai gesti concreti e materiali, né può essere finalizzata semplicisticamente alle sole dimensioni storiche della povertà umana, perché, caricata della novità di vita di cui è investita dell’evento Gesù, essa diventa nei gesti concreti che pone a favore dell’uomo, trasparenza dell’Agape di Cristo, e, in Lui, trasparenza dell’Agape del Padre. E nello stesso tempo, proprio operando a favore dell’uomo a partire dalle sue necessità materiali, storiche, squisitamente umane, guarda e vuole portare la salvezza e la liberazione all’uomo tutto intero. Ciò è testimoniato all’evidenza dalla prassi del Gesù storico, in cui l’annuncio dell’Agape del Padre è testimonianza del suo amore concreto per gli ultimi, per i poveri, per i peccatori; mentre d’altra parte il suo gesto concreto di salvezza verso di loro, diventa allo stesso tempo annuncio della salvezza più grande e più totale che investe la globalità della persona umana, a partire dal suo centro spirituale (il «cuore»).

 

 

 

b.

Superamento della falsa separazione

fra testimonianza e annuncio

 

In questo senso è chiaro, ed è estremamente importante per la vita della Chiesa oggi, rappresentandone forse uno dei nodi teorico-pratici più importanti, superare il falso dualismo fra essere e missione della Chiesa, dal quale deriva anche il dualismo fra testimonianza e annuncio. Nella Chiesa l’essere stesso dell’Agape come forma della sua vita si fà missione; mentre la sua missione è vivificata e sostenuta dall’Agape, tesa a manifestare l’Agape del Padre, e a introdurre nel circuito dell’Agape cristica gli uomini toccati dall’annuncio stesso (cf. in questo senso alcuni testi fondamentali della Christifideles laici). E’ in questa prospettiva che va letta una delle affermazioni fondamentali del pontificato di Giovanni Paolo II: l’uomo è «la via fondamentale della Chiesa», nel senso che la Chiesa deve servire l’uomo offrendogli il dono della salvezza; e la Chiesa stessa può assolvere a questa sua fondamentale missione senza la quale essa non solo perde rilevanza storica, ma vanifica la sua stessa identità , solo immergendo l’uomo nel mistero di Cristo, nell’integralità della sua dimensione, storica e metastorica, materiale e spirituale, religiosa e storico-sociale.

 

 

 

c.

Significato teologico della

«opzione preferenziale» per i poveri

 

Anche qui val la pena di tirare un’importante conseguenza. E’ in questa prospettiva, penso, che va letta un’importante affermazione del Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium, ripresa da Giovanni XXIII, secondo cui la Chiesa deve essere oggi la «Chiesa dei poveri».7 Riprendendo questa prospettiva del Concilio, e lo sviluppo che a fronte delle drammatiche situazioni sociali ne è stato dato nel continente Sudamericano, Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo Rei Socialis, rifacendosi a un’affermazione anche del Sinodo straordinario a vent’anni dal Concilio Vaticano II, ha chiaramente delineato il significato della «opzione preferenziale per i poveri», quale «opzione, o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (n. 42).

Val la pena rileggere, in questa prospettiva, una recente, ponderata affermazione della Conferenza Episcopale Brasiliana su questo tema: «L’opzione preferenziale per i poveri è, per natura sua, evangelica. Non si riduce a una presa di posizione socio-politica in favore dei poveri nel conflitto sociale, anche se essa rappresenta una conseguenza necessaria della vera opzione. Allo stesso modo, essa non costituisce semplicemente una strategia pastorale, a lato di altre egualmente importanti. L’opzione per i poveri è evangelica, ciò significa che riguarda un atteggiamento fondamentale del Signore che nell’annuncio della buona novella a tutti gli uomini, assunse l’amore di predilezione per i poveri, costituendoli come i primi destinatari e portatori privilegiati dei valori del Regno per confondere i sapienti e i potenti di questo mondo».8

In realtà, l’opzione preferenziale per i poveri costituisce la forma caritatis della testimonianza e dell’annuncio della Chiesa, così come ha costituito l’asse portante e caratterizzante della testimonianza e dell’annuncio di Cristo Gesù. L’amore di Dio in Cristo non può non partire dagli ultimi, per la natura stessa dell’amore di Dio: la paternità di Dio, all’interno della famiglia umana solcata dal peccato e dalla divisione, non può non privilegiare coloro che maggiormente soffrono e sono emarginati, altrimenti contraddirebbe la sua stessa realtà di amore paterno e universale. D’altra parte, la povertà di coloro che sono raggiunti dalla testimonianza e dall’annuncio del vangelo, è chiamata per sé a mostrarsi come primizia dello stile evangelico delle beatitudini, destinato a dar forma alla vita della Chiesa e all’umanità lievitata dai valori del Regno. E’ in questo contesto che la testimonianza evangelica e l’annuncio del vangelo della carità passano attraverso questa scelta preferenziale dei poveri, nelle concrete situazioni storiche non solo delle società sottosviluppate del terzo e quarto mondo, ma anche delle nostre società opulente. All’interno di queste, infatti, è ancora più stridente la presenza persistente della povertà come segno della nequizia strutturale di una progettualità economica non centrata sullo sviluppo integrale di tutti gli uomini, ma sullo sviluppo parziale di alcuni fra di essi.

 

 

 

d.

Al di là della dialettica
fra identità e dialogo

 

Un corretto rapporto fra l’essere e la missione della Chiesa alla luce dell’evento della carità, e dunque anche una ricomprensione del rapporto fra testimonianza e annuncio, permettono anche di superare un erroneo dualismo fra l’accentuazione del cristianesimo come liberazione storica e la sottolineatura del cristianesimo come messaggio di salvezza unicamente escatologica e trascendente. Ma questo stesso orizzonte di comprensione permette allo stesso tempo di superare una seconda dialettica fra due metodologie che possono essere utilizzate nella comprensione dell’annuncio cristiano. Come noto, oggi si parla di «nuova evangelizzazione», intendendo per nuova non soltanto una novità di carattere cronologico, nel senso che nei paesi di antica tradizione cristiana è oggi necessario pervenire a una seconda fase dell’evangelizzazione, ma anche nel senso che occorre approfondire il cuore del messaggio evangelico, la sua propria originalità e, appunto, novità.

 

Questa nuova fase di evangelizzazione che, come sottolinea la Christifidelis laici, è un compito urgente della Chiesa contemporanea, suscita la domanda su quale deve essere l’accento e il metodo privilegiato nella sua attuazione: affermazione decisa dell’identità cristiana, o mediazione e dialogo con la cultura occidentale post-moderna e post-cristiana e con i grandi universi religiosi extra-europei? Se il cuore dell’annuncio e della testimonianza cristiana è la carità, è evidente che la carità costituisce allo stesso tempo l’oggetto e l’originalità assoluta della fede cristiana, che trova in Cristo la sua definitiva configurazione storica, ma anche il metodo dialogico di attenzione all’altro. Non è possibile testimoniare e annunciare il vangelo della carità con un metodo che contraddica la carità stessa! né è possibile dialogare con l’uomo, mediare i valori del vangelo, contravvenendo o contraffacendo la verità cristiana. Dialogo e identità, così come verità e carità, non sono contraddittori nella missione della Chiesa, anche se storicamente e nella stessa esperienza contemporanea della Chiesa possono dar luogo a delle divaricazioni e a delle sottolineature, o anche a delle storture nel concepire la missione ecclesiale. Verità e carità vanno comprese insieme nella luce dell’evento di Cristo, che allo stesso tempo è evento della verità suprema della carità, e della carità di Dio come verità di Dio e dell’uomo.9

 

 

 

e.

L’orizzonte  della
interdipendenza planetaria

 

Ancora a proposito dell’annuncio e della testimonianza della carità di Cristo nella Chiesa di oggi, è importante fare un’ultima precisazione. Oggi, come ha sottolineato decisamente la Sollicitudo Rei Socialis, l’interdipendenza sociale, economica, a livello di comunicazione e cultura, è il fatto emergente nella storia dell’umanità, e questa interdipendenza deve essere assunta a livello morale come solidarietà. Dunque, la missione della Chiesa, la sua testimonianza e il suo annuncio, debbono oggi avere intrinsecamente un orizzonte planetario. Di fronte agli impegnativi compiti che attendono la Chiesa in Italia e in Europa (si veda il documento conclusivo dell’Assemblea ecumenica di Basilea), è necessario sempre avere presente l’orizzonte globale, l’orizzonte del villaggio mondiale. Anche qui la grande sfida che la testimonianza e l’annuncio della Chiesa sono chiamate ad assumere oggi, è quella di saper coniugare l’attenzione al particolare, l’incarnazione nel territorio, il rispetto delle varie identità razziali, culturali, politiche con l’orizzonte universale della mondialità. E’ in questo contesto che oggi l’annuncio e la testimonianza della carità come evento di Cristo e della Chiesa non possono prescindere dalla dimensione cosmologica ed ecologica. Occorre forse riflettere di più sul fatto che nel messaggio della carità di Cristo vi è anche la novità di un rapporto strutturalmente diverso dell’uomo non solo con gli altri uomini ma anche con il cosmo: basti rifarsi al testo paradigmatico di Romani cap. 8. Occorre oggi decisamente parlare anche di una dimensione ecologica della carità.

 

 

 

f.

Riserva escatologica e pluralismo

 

Per concludere non bisogna dimenticare, per quanto riguarda la testimonianza e l’annuncio del vangelo della carità nella missione della Chiesa, la discrepanza fra l’evento della Chiesa e l’avvento definitivo del Regno di Dio, così come, a proposito della carità come forma della Chiesa, non bisogna dimenticare l’eccedenza dell’evento di carità di Dio in Cristo, rispetto all’evento di carità fra gli uomini nella Chiesa. Occorre sempre mantenere questa «riserva escatologica», impegnandosi nella forza dello Spirito con tutte le energie, secondo quanto splendidamente affermato dal testo di Gaudium et Spes 38 («Egli il Cristo ci rivela che Dio è carità, e insieme ci insegna che la legge fondamentale dell’umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il comandamento nuovo della carità»), a impregnare del dinamismo della carità l’opera e le opere dell’uomo, le strutture della convivenza sociale e della configurazione politica;10 ma nello stesso tempo occorre non assolutizzare nessuna delle conquiste realizzate, occorre gratuitamente riconoscere che ogni cosa è ricevuta in dono da Dio, rispettare e valorizzare il pluralismo delle vie di ricerca e di realizzazione della carità; e occorre attendere nella speranza il compimento dei sentieri interrotti di carità scritti dalla Chiesa nel cammino della storia grazie a e in quella carità perfetta e consumata che dall’alto, dal seno del Padre, scenderà incontro alla storia.

 

Piero Coda