Riflessioni
su un'economia di comunione alla luce della
di
Silvano Cola
Il presente studio propone
ai lettori un percorso originale: dopo una lettura di temi forti della recente
enciclica sociale di Giovanni Paolo II, si occupa in conclusione, attraverso
una serie di testi di Chiara Lubich, della prassi della comunione dei beni come
era già in atto da oltre quaranta anni nel Movimento dei focolari e come si va
attualmente evolvendo su scala più ampia. Il confronto risulta illuminante, e
per le linee direttrici dell'enciclica e per quel progetto di un'economia di
comunione di cui si è parlato già nelle pagine precedenti.
Fare una
sintesi di questa
enciclica così densa e ricca
risulta difficile, per cui mi limiterò a esporre alcuni temi principali per poi
confrontarli con la prassi e i recenti sviluppi della comunione dei beni come è
in atto nel Movimento dei focolari.
Inizio con una citazione di
Igino Giordani tratta da un suo articolo scritto trent'anni fa proprio in
occasione del settantesimo dell'Enciclica Rerum Novarum (la Centesimus Annus,
del 1 maggio 1991, come dice il sottotitolo, ne commemora il centenario): «il
cristianesimo è bello ma difficile: difficile non perché insegni i dogmi
dell'Unità e Trinità di Dio o dell'Immacolata Concezione, ma perché impone le
norme di una convivenza nella carità e nella giustizia; e ciò perché aggiunge
al precetto dell'amore verso Dio il precetto dell'amore verso l'uomo,
associando alla realtà del Padre nostro nei cieli la realtà del pane nostro
quotidiano in terra: alla fede le opere». Più oltre dice: «La Rerum Novarum
risultò una riaffermazione e un'applicazione completa del dogma
dell'Incarnazione e cioè del mistero per cui l'uomo era stato riunito a Dio e
l'esistenza dell'umanità ricollegata alla legge e ai disegni dell'Eterno,
determinando una convivenza di umano e divino, di Stato e Chiesa, di opere e di
fede, di libertà e grazia... E Leone XIII tratta della questione operaia in
funzione della salvezza eterna: perché la fame è ateismo in atto, la miseria è
l'inferno in terra: mentre la giustizia sociale con l'equa ripartizione dei
beni è Vangelo fatto opere».
La Centesimus Annus è il
messaggio lanciato dal Papa agli uomini che entrano nel nuovo millennio per
ricordare anzitutto con riconoscenza la lungimiranza profetica di Leone XIII,
che affrontò a suo tempo le «cose nuove» nell'epoca della seconda rivoluzione
industriale offrendo i principi evangelici per l'evangelizzazione del sociale,
e in perfetta continuità con essa fare un esame delle «cose nuove» di oggi in
campo sociale per tracciare le basi dottrinali entro cui trovare le soluzioni.
In realtà è finito un mondo che ha visto il fallimento di ideologie e sistemi
politici materialisti e totalitari oppressivi per l'uomo, ma il valore e la
dignità dell'uomo non vengono salvati neppure dal sistema capitalistico
sopravvissuto, dove il pericolo della alienazione dell'uomo è forse ancora più
grave.
La chiave di lettura della
nuova enciclica è il valore unico della persona umana, «la sola creatura che
Dio ha voluto per se stessa» (n. 11; GS 24) e che è fatta a sua immagine e
somiglianza, per cui possiede diritti che vanno al di là del corrispettivo per
qualsiasi lavoro che svolge «perché derivano dalla essenziale sua dignità di
persona» (n. 11).
Nel primo capitolo vengono ricordati i diritti del
lavoratore difesi dalla Rerum Novarum: diritto al lavoro personale, alla
proprietà privata, a costituirsi in associazioni e sindacati, al riposo e alla
esplicazione dei doveri religiosi, al giusto salario per sé e per la famiglia,
e viene riaffermato che tutto ciò vale anche oggi poiché il «capitalismo
selvaggio» (n. 8) li mina alla base. Da notare però le novità apportate dalla
Centesimus Annus: il diritto al lavoro personale dev'essere visto nella sua
dimensione sociale e il diritto alla proprietà privata (diritto non più
chiamato sacro) dev'essere correlato al fatto che Dio stesso ha voluto che i
beni della terra (del mercato, dell'impresa) abbiano una destinazione
universale, senza esclusione di nessuna persona. Anzi, non solo la Chiesa, ma
anche lo Stato dovrebbe fare l'opzione preferenziale per i più poveri e deboli
in nome della solidarietà tra tutti gli uomini; solidarietà che da Leone XIII
veniva chiamata «amicizia», «carità sociale» da Pio XI, «civiltà dell'amore» da
Paolo VI.
Il fallimento sociale
di un umanesimo che
prescinde da Dio
Il secondo capitolo è
un'acuta analisi degli errori del socialismo che vanno dalla soppressione della
proprietà privata, alla falsa antropologia che annulla la persona e favorisce
la lotta di classe in senso violento nonché il totalitarismo e il militarismo,
tutte conseguenze dirette dell'ateismo e di un concetto di libertà sganciato
dalla veritB, che porta all'amore di sé e al disprezzo del prossimo.
Purtroppo dice la Centesimus Annus tutti questi errori si possono riscontrare
anche oggi, in forme diverse, nel sistema capitalistico.
Il capitolo terzo è
intitolato «L'anno 1989» ed è stato fatto notare che forse è la prima volta che
un numero costituisce un capitolo di un'enciclica, ma è certamente una data che dà inizio ad una
nuova epoca. In realtà, solo duecento anni prima aveva infuriato la Rivoluzione
francese che aveva fatto scorrere fiumi di sangue, mentre la rivoluzione del
1989 ha restituito la libertà a milioni e milioni di persone senza violenza, e
il Papa vi ha scorto il frutto maturato dei principi sull'uomo delineati dalla
Rerum Novarum. L'analisi dei motivi che hanno causato il crollo del sistema
socialista mette in evidenza non solo la violazione dei diritti dei lavoratori
e l'inefficienza del sistema economico, ma soprattutto il vuoto spirituale del sistema:
«il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo,
ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere
il cuore» (n. 24). Ma «la crisi del marxismo non elimina nel mondo le
situazioni di ingiustizia e di oppressione»
dice il Papa poiché queste
perdurano ad esempio nei Paesi del terzo Mondo dove molti, per il sincero
desiderio di stare dalla parte degli oppressi, sono stati indotti «a cercare in
diversi modi un impossibile compromesso tra marxismo e cristianesimo» (n. 26).
«Considerati da questo punto
di vista, gli avvenimenti del 1989 risultano importanti anche per i Paesi del
terzo Mondo che sono alla ricerca del loro sviluppo, come lo sono stati per
quelli dell'Europa centrale e orientale» (n. 26). E' comunque necessario che i
Paesi ricchi abbandonino la mentalità che considera i poveri, persone e popoli,
come un fardello e come fastidiosi importuni che pretendono di consumare quanto
altri hanno prodotto. I poveri chiedono il diritto di partecipare al godimento
dei beni materiali e di mettere a frutto le loro capacità di lavoro, creando
così un mondo più giusto e per tutti più prospero. L'elevazione dei poveri è
una grande occasione per la crescita morale, culturale ed anche economica dell'intera
umanità» (n. 28).
E' solo nel libero dono
di sé
che l'uomo diventa sé
stesso
Il capitolo quarto
dell'Enciclica è quello più fondamentale e innovativo, quello che parla del
diritto alla proprietà privata ma tenendo presente che «Dio ha dato la terra a
tutto il genere umano perché essa sostenti tutti i suoi membri senza escludere
né privilegiare nessuno» (n. 31); e di qui nasce la responsabilità a «non
impedire che altri uomini abbiano la loro parte del dono di Dio», anzi «oggi,
più che mai, lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri»
(n. 31), non solo nel senso che ogni lavoro è fatto per qualcuno ma anche nel
senso che «è mediante il libero dono di sé che l'uomo diventa autenticamente se
stesso» (n. 41). Viene qui in mente san Paolo quando raccomanda ai ladri oggi si potrebbe dire: gli operatori
economici disonesti che pensano solo ai propri interessi a danno di altri : «Se qualcuno rubava, ora non rubi più,
anzi si dia da fare, lavorando onestamente con le proprie mani per avere la
possibilità di aiutare chi si trova nel bisogno» (Ef 4, 28).
L'uomo dunque realizza se
stesso se si dona, se ama, e dunque anche lavorando «per». L'alienazione, ossia
la spersonalizzazione dell'uomo, che nel sistema marxista avveniva nel collettivismo
(che è una massa di persone non in comunione), oggi in Occidente avviene: o
quando «il lavoro è organizzato in modo da massimizzare soltanto i suoi frutti
e proventi» (n. 41) senza preoccuparsi che il lavoratore si realizzi, mediante
il lavoro, come uomo; o nel consumismo (cf. ibid.), che gli impedisce attraverso false e superficiali
soddisfazioni di «fare l'autentica e
concreta esperienza della sua personalità». Ne segue che non riconoscendo il
valore e la grandezza della persona in se stesso e nell'altro, l'uomo non
riesce a entrare «in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli
altri uomini per cui Dio l'ha creato». Ma «P alienata anche la società che
nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo rende più
difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa
solidarietà interumana».
Al n. 43 dell'Enciclica il Papa dice che la Chiesa non ha
modelli da proporre, ossia come diceva
la Sollicitudo Rei Socialis al n. 41
che tra collettivismo marxista e capitalismo non spetta a lei indicare
una «terza via», ma che essa si troverà quando, riconoscendo la positività del
mercato e dell'impresa, queste «vengano orientate al bene comune»: rispettando
la libertà di ogni lavoratore e dando «spazi maggiori di partecipazione nella
vita dell'azienda di modo che pur lavorando insieme con altri e sotto la
direzione di altri possano, in un certo senso, lavorare in proprio esercitando
la loro intelligenza e libertà». Inoltre, allo stesso modo che «la persona realizza
pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà [azienda,
mercato] si giustifica moralmente se crea... occasioni di lavoro e di crescita
umana per tutti» (ibid.).
La Chiesa non ha dunque
modelli tecnici da proporre per una «terza via» ma indica le condizioni
fondamentali per realizzarla, e si rifà
come spiega l'ultimo e sesto capitolo ai primi cristiani i quali, spinti
dal messaggio di Gesù, «distribuivano i loro beni ai poveri testimoniando che
nonostante le diverse provenienze sociali era possibile una convivenza pacifica
e solidale» (n. 57). Si impegnavano infatti in favore dei bisognosi e degli
emarginati, convinti che, «ogni volta che farete queste cose a uno dei miei
fratelli più piccoli l'avrete fatta a me» (Mt 25, 40). «E oggi più che mai la
Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella
testimonianza delle opere» (ibid.) e nella opzione preferenziale per i poveri
che però «non è mai esclusiva né discriminante verso altri gruppi», essendoci
nella società moderna «molte forme di povertà non solo economica ma anche
culturale e religiosa» (ibid.). «L'amore per l'uomo e, in primo luogo, per il
povero, nel quale la Chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della
giustizia. Questa non potrà mai essere realizzata se gli uomini non
riconosceranno nel bisognoso che chiede un sostegno per la sua vita, non un
importuno o un fardello, ma l'occasione di bene in sé, la possibilità di una
ricchezza più grande. Solo questa consapevolezza infonderà il coraggio per
affrontare il rischio ed il cambiamento impliciti in ogni autentico tentativo
di venire in soccorso dell'altro uomo. Non si tratta, infatti, solo di dare il
superfluo, ma di aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, ad
entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano. Ciò sarà possibile non
solo attingendo al superfluo, che il nostro mondo produce in abbondanza, ma
soprattutto cambiando gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo,
le strutture di potere che oggi reggono la società» (n. 58).
Una concretizzazione
nell'ambito dei Focolari:
le
cittadelle-testimonianza
A questo punto si capisce la
novità e l'importanza di una realtà come quella dell'«economia di comunione»
che in questi ultimi mesi si va stagliando nel Movimento dei focolari, in
seguito al recente viaggio di Chiara Lubich in Brasile. Essa annuncia
effettivamente una «terza via» perché per un verso soddisfa tutte le condizioni
della giustizia sociale tracciate dall'Enciclica, ma fa un passo più avanti
indicando quale possa essere in concreto la «testimonianza delle opere» su un
piano non più solamente di carità sussidiaria, bensì aziendale. Chiara l'aveva
intuita a Oberiberg e a Einsiedeln in Svizzera e ne ha dato spesso una
descrizione come, ad esempio, quando il giorno di Natale del '62, ha detto
alle focolarine: «L'Opera che nascerà
sarà una cittB, una città moderna, industriale, con le fabbriche, le industrie,
aziende nate da un capitale che è Dio, col contributo di chi lavora per Dio e
produce per il regno di Dio (...) rette da leggi divine, cioè dal Vangelo
(...). Città dove anche le grandi idee del mondo vengono sfruttate (...), città
dove la gente, venendo, possa dire: ecco, così si applica la dottrina sociale
cristiana, la Rerum Novarum, la Mater et Magistra», e oggi possiamo aggiungere
l'Octogesima Adveniens, la Laborem Exercens, la Sollicitudo Rei Socialis e la
Centesimus Annus.
Quanto Chiara Lubich ha
detto e scritto, a più riprese, sulla comunione dei beni e il lavoro,
testimonia il cammino fatto dall'Opera da lei iniziata in questo campo. Alla
base di tutto sta la comprensione dell'uomo e della creazione alla luce del
loro modello trinitario («Tutto è in rapporto d'amore con tutto») e il focolare
come espressione concreta, storica, della vita trinitaria. Dice un testo del
1960, in cui anche la povertà viene vista alla luce della Trinità: «Se
volessimo definire con una parola sola che cos'è la nostra vita di focolarini,
del focolare, noi potremmo dire esattamente, senza timore di sbagliare: la
nostra vita è sul modello della Trinità. (...) E la povertà, nella Trinità, si
vive alla perfezione: le tre divine Persone si comunicano tutto di se stesse,
sono Uno. (...) Dio è uno e trino; nell'unità, vorrei dire, è la sua povertà»
(2, p. 16; 12 giugno '60).
Dalla dignità della persona umana che si divinizza amando
(«All'amore non si può rispondere che con l'amore; e l'amore per Dio, come
risposta al suo essere Amore per noi, si è concretizzato subito in amore del
prossimo» 1, p. 10; 13 feb. '79) nasce
il rispetto per la dignità di ogni uomo e la gioia di servirlo («Chiunque
incontravamo nella vita diventava oggetto delle nostre attenzioni, delle nostre
cure, delle nostre premure» (ibid.); «Perché visitare quel povero era andare a
trovare Gesù» 2, p. 22; 1955); e così
inizia la rivoluzione sociale («Oggi, Lui in mezzo a noi deve sfamare gli
affamati, vestire gli ignudi (...) E ritorna imperioso nel focolare l'anelito a
risolvere il problema sociale» 2, pp.
22-23; 8 sett. '61) perché la nostra «povertà regolata dalla carità (...) non
si ferma entro i limiti dell'Opera di Maria» (2, p. 21; 1951).
Il concetto di
«superfluo»:
«nulla rimanga
accantonato»
Fin dagli anni '40 si
delinea il concetto di «superfluo» così espresso a tutta la comunità di Trento:
«ciascuno riveda le proprie cose; se qualcosa è superfluo lo dia o lo metta in
comune; chi è in necessità deve dirlo e sarà aiutato dal superfluo degli
altri». Sono parole che suscitano reazioni simili a quanto è avvenuto
recentemente in Brasile. Commentano le «linee guida»: «C'era chi dava per
esempio tutto il suo stipendio, chi portava la pelliccia, chi si ingegnava a
ricavare qualcosa da dare coltivando un piccolo orticello, ricchi che si accorgevano
di avere troppo e poveri che dicevano con semplicità le loro necessità perché
si sentivano parte viva della comunità, in una fraternità che tutti univa» (1,
p. 20).
Si arriva poi alla lettera
di Chiara sulla comunione dei beni indirizzata a tutta l'Opera nel 1958: «Se
l'Opera è un cuor solo e un'anima, tutto in essa deve circolare cosicché nulla
rimanga accantonato ed insfruttato mentre altri attendono l'aiuto (...) E Dio
comanda a tutti noi di condurre una battaglia pacifica ma concreta e costante
contro l'egoismo che è in noi (...) perché il mondo, vedendo il nostro esempio
di carità scambievole, si converta» (1, pp. 23-24; 2 marzo '58). Emergono qui
le basi per una retta interpretazione della «teologia della liberazione». La
Centesimus Annus afferma che i complessi problemi dei popoli poveri possono
essere risolti col metodo del dialogo e della solidarietB, anziché con la lotta
per la distruzione dell'avversario e della guerra (n. 22). Chiara, fin dalla
piccola rivoluzione sociale iniziata a Trento diceva: «Non è che noi volessimo
amare i poveri per i poveri o amare Gesù soltanto nei poveri: noi volevamo
risolvere il problema sociale» (1, p. 18; 8 sett. '61) e ci si basava dice Chiara
su «un ragionamento tanto semplice, e cioP: noi abbiamo di più, loro
hanno di meno; alzeremo il loro livello di vita in modo tale da arrivare tutti
ad una certa uguaglianza. Ma si pensava pure di smuovere i ricchi, non con
invettive ma con l'Ideale che avrebbe bruciato i cuori anche di quelli che
hanno di più, e la comunione dei beni sarebbe stata spontanea» (1, p. 18; 26
dic. '81).
Verso una nuova economia
a livello mondiale
Oggi, il superfluo
individuale che portava la giustizia sociale a livello cittadino, Chiara l'ha
visto su un piano di economia mondiale nello «utile» delle aziende private o
delle multinazionali. Il profitto di una attività, l'utile che resta dopo aver
soddisfatto equamente le necessità vitali dei lavoratori e delle loro famiglie
e dopo averne reinvestito parte nell'azienda stessa per adeguarla ai tempi e
creare nuovi posti di lavoro, viene dato a bisognosi, a coloro che «a causa di
impedimenti naturali o sociali non trovano accesso al mercato», sia che si
tratti di singoli individui incapaci o inetti o disoccupati, che di popoli
interi (si pensi a quei Paesi che hanno solo monocolture il cui prodotto non è
più richiesto sul mercato internazionale).
Una «terza via» sembra
dunque tracciata. Le nuove «cittadelle-pilota» vogliono essere anche la
testimonianza che «prima ancora della logica dello scambio (...) esiste un
qualcosa che è dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua eminente
dignità», come dice il n. 34 della Centesimus Annus.
Ma chi è chiamato a collaborare allo sviluppo di questo
nuovo tipo di economia di cui saranno un modello le cittadelle-pilota? Tutte le
persone con cui l'Opera entra in dialogo, dalla Chiesa cattolica alle altre
Chiese cristiane, alle grandi religioni e a chi non ha religione ma che è
sensibile all'ideale dell'unità. Anche la Centesimus Annus invita innanzi tutto
la Chiesa a sentirsi responsabile di questo contributo, ma ha «la fondata
speranza che anche quel gruppo numeroso che non confessa una religione, le
chiese cristiane e tutte le grandi religioni del mondo e tutti gli uomini di
buona volontà possano contribuire ad offrire l'unanime testimonianza delle
comuni convinzioni circa la dignità dell'uomo creato da Dio» (n. 60).
«A cent'anni dalla
pubblicazione della Rerum Novarum dice
l'enciclica la Chiesa si trova davanti
a cose nuove e a nuove sfide». La nuova creazione l'ha iniziata Gesù quando si
è incarnato facendo sua la vita dell'uomo. E la Centesimus Annus si chiude con
l'affermazione che «anche nel terzo Millennio la Chiesa sarà fedele nel fare
propria la via dell'uomo».
Silvano Cola