Una meditazione biblico-teologica

 

 

Lo Spirito Santo crea la comunione

 

 

di Piero Coda

 

Questa meditazione illustra, in una prospettiva biblico-teologica, quello che si può considerare come il «primo effetto» della Pentecoste, provocato, nella vita della Chiesa nascente, dall'effusione dello Spirito Santo. Seguendo come filo conduttore le varie affermazioni del «sommario» di Atti 4, 31-34, si sofferma poi su alcuni altri testi, in particolare di Paolo nella Lettera ai Romani e di Giovanni nella cosiddetta preghiera sacerdotale. La meditazione è stata proposta nel febbraio scorso  come un approfondimento della conversazione di Chiara Lubich pubblicata nelle pagine precedenti  a un gruppo di vescovi riuniti al Centro Mariapoli di Castelgandolfo.

 

 

La  comunione,   alla  luce  degli  Atti  degli

Apostoli, può essere considerata come il primo effetto provocato nella Chiesa nascente dal dono dello Spirito. Ma forse si potrebbe dire di più: è proprio il dono dello Spirito che costituisce il frutto pieno della salvezza portata da Gesù, e proprio questo dono dello Spirito realizza in senso forte la Chiesa come comunione, segno e strumento di questa salvezza per gli uomini.

         Non per nulla, con la sua solita pregnanza e precisione, San Tommaso afferma, a proposito dell'effusione dello Spirito: «et hoc modo datum est Novum Testamentum, quia consistit in infusionem Spiritus Sancti» (In Hebraeos 8, 10; cf. In Romanos 8, 2); e, a proposito del dono della carità principio della comunione: «Spiritus Sanctus, dum facit in nobis caritatem, quae est plenitudo legis, est Testamentum Novum» (In 2 Cor 3, 6).

 

         In realtà, il fatto che al racconto della Pentecoste faccia seguito negli Atti degli Apostoli la descrizione della vita della comunità cristiana ha proprio il significato di sottolineare come la comunione sia l'attuazione della salvezza portata da Cristo e realizzata dallo Spirito Santo.

 

         Nel sommario di At 2 troviamo una descrizione molto semplice ma molto profonda del mistero della vita nuova che è la Chiesa: «erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (v. 42). L'ascolto della Parola di Gesù trasmessa dagli apostoli, la funzione stessa degli apostoli come inviati di Gesù in mezzo ai credenti, la frazione eucaristica del pane e l'unione fraterna costituiscono i segni e le modalità tipiche di vita della nuova comunità voluta da Cristo e animata dallo Spirito.

 

Ma, confrontando questo sommario del cap. 2 con quello del cap. 41, possiamo dire che la comunione è qualcosa di più di un semplice segno e di una semplice modalità della vita della Chiesa. Se, da un lato, in quanto esprime l'impegno dei credenti ad attuare rapporti di fraternità fra di loro, si può dire che essa è uno degli elementi costitutivi della vita della Chiesa; allo stesso tempo però, in quanto designa l'essere «un cuor solo e un'anima sola» dei credenti in Cristo per l'azione dello Spirito, la comunione è allora la vita profonda della Chiesa, l'effetto fondamentale provocato dal dono dello Spirito, al quale sono ordinati la vita di preghiera, l'ascolto della Parola, la celebrazione dell'Eucaristia, il ministero degli apostoli.

 

         Tutte queste realtà hanno infatti ragione di mezzo: tramite esse, lo Spirito opera nei credenti il frutto della salvezza che è l'unione con Dio e l'unità fra di loro. E' questa una riflessione teologica semplice ma densa di conseguenze per il nostro vivere la Chiesa: tutto in essa deve essere finalizzato alla comunione, all'unità, e  di converso  l'unità, la comunione è la luce che deve illuminare ogni atto autenticamente ecclesiale.

 

 

 

Figli nel Figlio

 

Sempre alla luce del testo citato negli Atti, ci può venire spontanea una domanda: perché la comunione è l'effetto proprio dello Spirito Santo?

 

Tutti ricordiamo quel bellissimo saluto di Paolo, ripreso nella Liturgia: «la grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi» (2 Cor 13, 13). In essa troviamo una stupenda sintesi del disegno di salvezza della Trinità: il Padre è la fonte dell'amore, nell'accezione tipicamente neotestamentaria dell'agape; il Figlio incarnato, morto e risorto, è la grazia, il dono gratuito attraverso cui il Padre ci partecipa la sua vita; lo Spirito Santo è colui che ci stringe in comunione col Padre attraverso il Figlio, e, in lui, fra di noi. E' la dinamica trinitaria della salvezza che coinvolge tutta la nostra esistenza.

 

Ma perché è proprio lo Spirito che fa la comunione?

 

San Paolo ci dà la risposta: «avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi, nel quale gridate: Abbà, Padre!. Lo stesso Spirito attesta al vostro spirito che voi siete figli di Dio» (Rom 8, 15-16); e ancora: «e che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4, 6).

         E' lo Spirito, dunque, che ci fa figli nel Figlio. E con e nel Figlio ci fa esclamare «Abbà, Padre!», e ci introduce così nel seno del Padre, verso il quale da sempre è proiettato il Figlio Unigenito (cf Gv 1, 18). In questo senso, innanzi tutto, lo Spirito è colui che opera la comunione innestandoci in modo inaudito ma reale nel cuore della stessa comunione trinitaria!

         Scrive Simeone il nuovo teologo: «la porta è il Figlio  Io sono la porta, egli dice (Gv 10, 7.9) : la chiave della porta è lo Spirito Santo  Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi, egli dice (Gv 20, 22-23) : la casa, il Padre  Nella casa del Padre mio vi sono molti posti, egli dice (Gv 14, 2)»2. Attraverso il dono dello Spirito, noi troviamo insieme con Cristo la nostra dimora definitiva nel seno del Padre: come per Gesù il Padre è il suo Paradiso, così per noi, grazie al dono dello Spirito, vivere proiettati nel seno del Padre, compiendo la sua volontà, diventa già in terra il nostro Paradiso.

         Ma perché ciò si attui, occorre vivere ogni istante quella che San Paolo chiama la crocifissione dell'uomo vecchio: solo così si può partecipare alla resurrezione di Cristo, avendo in noi il dono dello Spirito che ci fa traboccare, in parole e in azioni, in un «Abbà!» ininterrotto rivolto al Padre.

 

«Egli (il Cristo)  spiega San Massimo il Confessore, commentando il Padre nostro  ci dà la filiazione divina, donandoci la generazione e la condeificazione soprannaturale dall'Alto, mediante lo Spirito, nella grazia. La difesa e la custodia in Dio di tale stato dipende poi dalla determinazione volontaria dei generati (...). Tale determinazione volontaria, svuotando dalle passioni, tanto si appropria della divinità, quanto il Verbo di Dio, svuotandosi volontariamente della sua purissima gloria, veramente divenne e fu detto uomo»3.

 

         Solo svuotandoci continuamente di noi stessi, solo «abbracciando Gesù Abbandonato» come dice Chiara, la fonte dello Spirito può liberamente sgorgare dentro il nostro cuore e farci in Cristo «un solo Spirito» con Dio (1 Cor 6, 17).

 

 

 

Un'anima sola

 

Nel testo degli Atti degli apostoli troviamo ancora un'espressione molto significativa, alla quale forse non sempre si dà l'attenzione che meriterebbe: «i credenti erano un cuor solo e un'anima sola». Normalmente si intende questa affermazione in senso semplicemente metaforico: la comunione prodotta dallo Spirito Santo rende i credenti come un cuor solo e un'anima sola.

 

         In realtà, l'espressione deve essere intesa in senso realistico e pieno. Già San Paolo, nella lettera agli Efesini, dice che i credenti devono essere, in Cristo, non solo un unico Corpo, ma anche un solo Spirito (cf Ef 4, 4). Così che  come ci ricorda il Concilio  «i Santi Padri poterono paragonare la funzione dello Spirito con quella che esercita il principio vitale, cioè l'anima, nel corpo umano» (Lumen Gentium, 7).

 

San Tommaso, ad esempio, dice che «sicut constituitur unum corpus ex unitate animae, ita Ecclesia ex unitate Spiritus» (In Col. 1, 18). Di più ancora Sant'Agostino, prendendo sul serio l'affermazione scritturistica, non ha paura di affermare: «la tua anima non è più la tua, ma di tutti i fratelli e anche le loro anime sono tue o, meglio, le loro anime, insieme alla tua, non formano più se non un'anima sola, l'unica anima di Cristo»4.

         E proprio rifacendosi al testo, prima citato, di Paolo agli Efesini, Cirillo Alessandrino spiega, facendo un parallelo fra l'unità del corpo di Cristo fatta dal Cristo stesso, e l'unità degli spiriti operata dallo Spirito Santo: «Se tutti tra di noi siamo membra dello stesso corpo in Cristo e non solo tra di noi, ma anche con colui che è in noi per mezzo della sua carne, è evidente che tutti siamo una cosa sola sia tra noi che in Cristo. Cristo infatti è vincolo di unità, essendo egli al tempo stesso Dio e uomo. Quanto all'unione spirituale, seguendo il medesimo ragionamento, diremo ancora che noi tutti, avendo ricevuto un unico e medesimo Spirito Santo, siamo, in certo qual modo, uniti sia tra noi, sia con Dio. Infatti, sebbene, presi separatamente, siamo in molti, e in ciascuno di noi Cristo faccia abitare lo Spirito del Padre e suo, tuttavia unico e indivisibile è lo Spirito. Egli con la sua presenza e la sua azione riunisce nell'unità spiriti che tra loro sono distinti e separati. Egli fa di tutti in se stesso un'unica e medesima cosa. La potenza della santa umanità del Cristo rende concorporali coloro nei quali si trova. Allo stesso modo, credo, l'unico e indivisibile Spirito di Dio che abita in tutti, conduce tutti all'unità spirituale»5.

         Ciò sottolinea che, proprio in quanto lo Spirito Santo ci fa uno con Cristo e, in Lui, col Padre, allo stesso tempo ci fa, in Lui, realmente uno con i fratelli: un'anima sola in senso vero e reale, senza che ciò provochi la cancellazione dei singoli  proprio come avviene nella vita della Trinità, dove l'unità non cancella la distinzione dei Tre, ma in essa «si esprime». Anzi, potremmo dire che il credente può giungere a dire in Cristo «Abbà, Padre!», solo quando ha in sé tutti gli uomini come fratelli: solo quell'anima che i Padri definivano «ecclesiale» può essere figlia del Padre in Cristo. E viceversa.

 

 

 

Il comandamento nuovo

 

In questa prospettiva, possiamo comprendere perché sia così centrale nel quarto vangelo la preghiera dell'unità: «come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola» (Gv 17, 21); e come l'agente di questa unità sia proprio lo Spirito Santo, designato anche in Giovanni col nome di «gloria» (claritas): «e la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola» (Gv 17, 22).

«La gloria  commentano gli esegeti Mateos e Barreto  costituisce il Figlio Uno con il Padre. La comunicazione della gloria ai suoi realizza in loro la condizione di figli; possedendo tutti la stessa filiazione, tutti saranno uno. La comunità di Spirito rende uno con Gesù e, attraverso di Lui, con il Padre. Lo Spirito (la gloria) produce la comunione di vita e di attività»6. Ma proprio perché lo Spirito è vita e dinamismo, proprio perché Egli è l'amore reciproco fra il Padre e il Figlio, affinché il dono dell'unità si realizzi, occorre che i discepoli, per così dire assecondando in loro fino in fondo la spinta dello Spirito, giungano a realizzare il comandamento nuovo del Cristo: «amatevi a vicenda come io vi ho amati» (Gv 15, 12). L'unità, l'essere un'anima sola, si realizza  per dono  solo a questa condizione.

         E anche qui, come per l'unione con Dio, la misura è quella di assecondare in noi l'impulso dello Spirito sino ad esser pronti a donare la vita per gli altri: «nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13), come Gesù sulla croce e nel suo abbandono.

 

         Insegnare agli uomini, nella luce e nella forza della grazia di Dio, a vivere questa realtà è secondo Giovanni Paolo II il grande compito della Chiesa soprattutto nel nostro tempo: «nella prospettiva dell'anno duemila dalla nascita di Cristo  egli ha scritto nella Dominum et Vivificantem  si tratta di ottenere che un numero sempre più grande di uomini possa ritrovarsi pienamente (...) attraverso un dono sincero di sé, secondo l'espressione del Concilio. Che sotto l'azione dello Spirito Paraclito si realizzi nel nostro mondo quel processo di vera maturazione nell'umanità, nella vita individuale e in quella comunitaria, in ordine al quale Gesù stesso, quando prega il Padre perché tutti siano una cosa sola, come Io e Te siamo una cosa sola, (...) ci ha suggerito una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli di Dio nella verità e nella carità (Gaudium et Spes, 24). Il Concilio ribadisce tale verità sull'uomo, e la Chiesa vede in essa un'indicazione particolarmente forte e determinante dei propri compiti apostolici. Se, infatti, l'uomo è la via della Chiesa, questa via passa attraverso tutto il mistero di Cristo, come divino modello dell'uomo. Su questa via lo Spirito Santo, rafforzando in ciascuno di noi l'uomo interiore, fà sì che l'uomo sempre meglio si ritrovi attraverso un dono sincero di sé. Si può dire che in queste parole si riassuma tutta l'antropologia cristiana» (n. 59).

 

 

 

 

La comunione dei beni

 

Quest'ultimo richiamo alla realizzazione concreta del disegno di Dio sull'uomo nella storia ci porta a considerare un ulteriore elemento, che è fortemente sottolineato nei due sommari degli Atti che abbiamo citato all'inizio. La comunione escatologica ai beni della salvezza donati nello Spirito si traduce, anzi, si esprime concretamente nella comunione dei beni anche materiali fra i credenti.

         Anche qui, come a proposito dell'«anima una», rischia di prevalere un'interpretazione idealizzata di questa prassi della primitiva comunità. In realtà, il contesto in cui Luca parla di questa comunione dei beni, tende a sottolineare con forza che proprio la comunione dei beni è un segno escatologico della presenza sovrabbondante dello Spirito fra gli uomini. Potremmo dire che  nella visione di Luca  là dove c'é lo Spirito, c'é la comunione dei beni, e viceversa.

 

         Nel sommario del cap. 4, c'é una sottolineatura che rivela l'importanza che Luca (e la Chiesa primitiva) annettono a questa prassi: «nessuno tra loro era bisognoso  si sottolinea  perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (4, 34-35). E' evidente il richiamo, anche letterale, al testo di Deuteronomio 15, 4, che fa riferimento alla vita nuova degli israeliti dopo la liberazione dall'Egitto: «non ci sarà alcun povero in mezzo a voi».

 

         Nell'Antico Testamento, «scopo dell'Esodo  scrive J. Alfaro  era la perfetta fraternità e libertà fra gli israeliti che, grazie al dono della terra promessa, avrebbe avuto come risultato finale l'eliminazione di ogni forma di oppressione, ingiustizia e povertà»7. San Luca  alla luce del messaggio di Gesù sul Regno  interpreta la Pentecoste come la piena realizzazione  di questa promessa vetero-testamentaria: la comunità della Nuova Alleanza, rinnovata dal dono dello Spirito, è lo spazio escatologico in cui agisce una socialità nuova, regolata dall'amore e dalla condivisione dei beni.

 

         Il fatto che San Luca, in questa prospettiva messianica, sottolinei dunque così fortemente questo aspetto, vuol significare che la comunione nell'amore vissuta fra i cristiani (quell'essere l'«anima una», di cui abbiamo detto) si manifesta a livello sociale in un nuovo tipo di relazioni che rifondano dalla radice la stessa vita economica dell'uomo. Attraverso la comunione dei beni, la comunità messianica diventa il segno di una nuova umanità.

 

         Se in passato, forse, questo aspetto non è venuto in così forte evidenza, oggi  come sottolinea Chiara  «risulta di pressante attualità», tanto che quasi le sfugge questa ardita affermazione: «per questo è venuto lo Spirito Santo!»

 

         In effetti, sappiamo come la questione sociale, a partire dalla seconda metà dell'800, abbia assunto via via proporzioni sempre più vaste e inquietanti, sino a giungere alla drammatica situazione di oggi, nel rapporto fra Nord e Sud del mondo. Di fronte alle tentazioni di risolvere il problema con la violenza e con la fiducia nelle sole forze immanenti dell'uomo, Chiara mette in nuovo rilievo la pagina degli Atti: ce la presenta come un ideale concreto e proponibile, segno della presenza dello Spirito nella storia, via obbligata per risolvere i problemi sociali dell'umanità, assicurando innanzi tutto all'uomo la ricchezza di cui più ha bisogno  Dio.

         E' un'utopia, sì, nel senso che è un ideale che ancora deve farsi pienamente storia. Ma è di quelle utopie che trascinano avanti la storia dell'uomo perché  come diceva Paolo VI  sono abitate dalla forza dello Spirito: «lo Spirito del Signore, che anima l'uomo rinnovato nel Cristo, scompiglia senza posa gli orizzonti dove la sua intelligenza ama trovare la propria sicurezza, e sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri la sua azione; egli è abitato da una forza che lo sollecita a sorpassare ogni sistema e ogni ideologia» (Octogesima adveniens, 37).

 

 

 

«Se ci amiamo gli uni gli altri,

Dio rimane in noi»

 

         In una parola, possiamo concludere dicendo che la presenza dello Spirito in noi e in mezzo a noi è la garanzia che l'amore di Dio  che è la sua vita  diventa, in Cristo, storia degli uomini; e, viceversa, il segno e la prova dell'accoglimento dello Spirito è la comunione fraterna che si incarna in una storia nuova.

         Proprio come scrive la prima lettera di Giovanni: «nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di Lui è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in Lui ed Egli in noi: Egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1 Gv 4, 12-13).

 

Piero Coda