Una
riflessione sulla fisionomia spirituale e culturale del XX secolo
mons.
Klaus Hemmerle
Una
lettura dei travagli del nostro secolo che ne mette a nudo radici lontane e
dinamismi profondi; eppure una lettura
che sa scorgere nei solchi della storia l'agire dello Spirito che spinge
l'umanità verso nuovi orizzonti e, in definitiva, verso un nuovo stile di vita,
che l'autore focalizza come unità del mondo, dell'io e della storia. Lo stile
letterario è quello della conversazione. Occasione di questo intervento è stato
infatti un incontro nel febbraio '91 di circa sessanta vescovi al Centro
Mariapoli di Castelgandolfo.
Qual è la fisionomia di questo secolo? Potrebbe sembrare inutile
porci così questa domanda, dato che contare il tempo di cento in cento anni non
P altro che una convenzione umana. Penso tuttavia che non sia impresa vana, e
questo per due motivi.
Il primo è biblico e si rifà
al salmo 90 (89) il quale ci invita a contare i nostri giorni per «giungere
alla sapienza del cuore». Solo quando «contiamo», vale a dire quando
consideriamo le cose anche nel loro susseguirsi, possiamo giungere alla
sapienza interiore.
Ma c'è anche un secondo motivo, di ordine filosofico. Dice Aristotele e ciò può sembrare superficiale, ma secondo me è molto profondo che «tempus est motus numerus in anima»: il tempo è la misura, la cifra del movimento interiore. Occorre calcolare per prendere atto di ciò che si muove; ed occorre misurare per seguire quello che accade in un arco di tempo.
Vogliamo dunque renderci conto di quanto è avvenuto nel nostro secolo. L'interpretazione che ne propongo non pretende di essere l'unica valida. Mi sembra tuttavia che sia particolarmente illuminante. Penso che la caratteristica di questo secolo sia l'universale tensione all'unità. Questa, dunque, sarebbe la tesi: il segno dei tempi, del secolo, è la universale ricerca dell'unità. Per spiegarla vorrei brevemente ricorrere alla storia della filosofia per poi tornare al nostro tempo.
«Io penso» - «io faccio»
dal
sistema universale
alla fattibilità universale
A segnare una svolta
decisiva di cui solo oggi sperimentiamo pienamente le conseguenze è stato, nel
diciassettesimo secolo, il tentativo di Cartesio di arrivare ad una scienza
universale («Mathesis universalis»). Forse non sempre si sa che Cartesio con cib ha voluto salvare la filosofia
scolastica. Vedendo come essa non aveva pij presa sulla mentalità di
quell'epoca, ha voluto fondarla su una nuova certezza, riconducendo tutti i
principi della filosofia scolastica all'esperienza della ragione, ovvero al
soggetto pensante: tutto ormai andava pensato e strutturato secondo la
struttura del soggetto pensante. Più tardi Kant avrebbe assunto questo
approccio radicalizzandolo però fino a staccarsi decisamente dalla scolastica.
Più tardi ancora, sempre sulla scia di quest'eredità, Hegel svilupperà il suo
sistema dello «spirito assoluto».
Pur nella varietà delle
elaborazioni, i tre hanno in comune ciò che ritroviamo in tutti i grandi
«sistemi» moderni: il soggetto (subiectum) come indiscusso punto di partenza;
punto di partenza dal quale un pensatore come Schelling ha voluto dedurre ogni
altro concetto. Lo stesso Marx si muove in questa prospettiva, con la
differenza, però, che il soggetto ora è il noi: la classe, la società. Ciò che
caratterizza, dunque, il tempo moderno è la tensione ad un sistema universale,
imperniato nel soggetto che pensa ed afferma se stesso.
Pur rimanendo nella logica del «sistema», il nostro secolo ne esprime un'applicazione dalle conseguenze quanto mai importanti: non ci si ferma più al piano del pensiero, ma si passa a quello di una fattibilità universale. Ormai non si vuole più soltanto pensare tutto, ma fare tutto, persino la vita; cosicché la natura non è più una realtà con un valore a sé stante, ma vale in quanto può essere usata dall'uomo. Ecco allora la grande «idea» del nostro secolo: una civilizzazione tecnica, industriale; vale a dire un sistema universale, pratico, funzionale, ispirato all'ideale del «fare» tutto, «produrre» tutto. L'illusione di poter cambiare tutto, disporre di tutto, ha determinato l'idea di un progresso assoluto. E, allo stesso tempo, ha prodotto un mondo «unito», ma nel solo senso della tecnica e della comunicazione. Ormai qualunque cosa accada nel mondo ha una ripercussione universale. Sicché ne deriva una sorte indivisibile per tutta l'umanità. Questo è il nuovo di questo secolo.
Fra
interdipendenza universale
e solitudine universale
La cultura, che ne è
derivata e che caratterizza questo nostro secolo, si contraddistingue per due
aspetti quasi contraddittori e nondimeno collegati tra loro: la comunicazione e
l'interdipendenza universale, da una parte, e dall'altra la solitudine
universale.
L'interdipendenza che ci
lega, ovvero l'unità nella cultura della tecnica, è solo funzionale. Non c'è
più l'idea di quello che devo o posso pensare; non interessa più il senso delle
cose; l'importante è funzionare. Se io sono comunista o cristiano non importa.
Devo funzionare, altrimenti non posso vivere; altrimenti non posso partecipare
a questa interdipendenza che «funziona», a prescindere dal fatto che Dio esista
o meno.
Da questa impostazione
deriva come conseguenza un pluralismo sul piano religioso e teologico. Ciascuno
infatti pub pensare quello che vuole senza che questo incida minimamente sul
legame reciproco. Questo fa essere soli, molto soli; perché io penso e mi
muovo, ma rimango sempre nell'ambito di me stesso. Non c'è un'altra istanza a
impregnare la civiltà, la cultura. Per la prima volta, nella storia
dell'umanità, c'è una cultura in cui non ha importanza la religione, il culto.
Benché questa cultura non sia di per sé atea, Dio non ha nessuna «funzione» in
essa.
Ciò che ne risulta è una
grandissima solitudine. Ma non solo. In questa solitudine del singolo che
poggia solo su di sé viene meno anche il principio unificante della persona.
Vivo e reagisco a un impulso; dopo ne sopravviene un altro, che determina
un'altra reazione, e così via. E il soggetto si sdoppia: non sono lo stesso in
casa, in chiesa, in fabbrica, nel traffico, nel tempo libero. Nella
molteplicità delle situazioni è solo l'io che lega i vari ruoli che di per sé
non sarebbero affatto collegati tra loro. Venendo a mancare l'unità in me,
viene meno evidentemente anche l'unità con l'altro, se per unità si intende una
realtà qualitativa. Paradossalmente, dunque, l'interdipendenza totale e la
totale solitudine sono le due facce della stessa medaglia.
Il
rischio di una guerra planetaria
e quello dell'indifferenza generalizzata
Sono
due le possibili conseguenze. Una potrebbe essere la guerra su scala
planetaria. Dato il tipo di armi che possediamo è sempre reale, in questo
secolo, il pericolo di una guerra totale. Alla ricerca di un orizzonte
unificante, c'è infatti sempre il rischio che qualcuno voglia proprio in virtù della
tecnica, che ha sempre ripercussioni sul sistema globale imporre le proprie
idee e i propri interessi come ciò che totalizza e lega tutto.
L'altra
conseguenza potrebbe essere una specie di sincronizzazione delle solitudini in
un sistema neutrale, tecnico, senza un centro vitale che lega tutto. E quindi
l'indifferenza assoluta, il freddo della città moderna. Se non riusciremo
presto a riportare la tecnica al suo compito di medium, di mezzo per
comunicare, prima o poi il fantasma di una cultura tecnica mondiale finirà per
spegnere le tante culture del mondo.
Qualche
tempo fa sono stato invitato da alcuni scienziati nel grande politecnico della
nostra città. Dopo avermi mostrato i computer e i vari sistemi di informazione
moderna, essi mi hanno chiesto quali conseguenze potranno derivarne per l'uomo.
Ho risposto rifacendomi a quanto s. Agostino dice della memoria,
dell'intelletto e dell'amore, come principi costitutivi dell'uomo. Nell'epoca
dell'informatica, l'uomo è tentato di rinunciare alla memoria, facendo
eccessivo affidamento sui sistemi tecnici. Anzi, in un certo senso il computer
lo sostituisce anche nelle sue operazioni intellettuali. Eppure l'uomo continua
a credere di essere totalmente libero perché solo lui può programmare e solo
lui ha l'amore, cioè la volontà che tutto governa. In realtà egli non può
volere più quello che vuole: nella cultura tecnica tutto il suo pensare è già
canalizzato. E' la misura tecnica, la «computerabilità» - per così dire - di
tutto, la misura di quello che l'uomo può pensare ed immaginare. L'unificazione
che ne consegue e che spegne la varietà delle culture, è un fenomeno di
un'estrema povertà, pur nella ricchezza dei ritrovati moderni.
Il
secolo delle grandi ideologie
In
questo secolo che oscilla tra il rischio di una guerra totale e quello
dell'indifferenza universale, in questo mondo in cui ad una intercomunicazione
globale fa riscontro la solitudine universale, si apre lo spazio per la nascita
delle ideologie. Se è vero che esse erano nate nel secolo scorso, è altrettanto
vero che esse non vi hanno fatto storia; hanno prodotto solo idee. Incidevano
sul pensiero, e non ancora sulla vita e
sull'agire. In questo nostro secolo, invece, i grandi sistemi ideologici
dall'ideologia comunista a quella fascista e nazista, dall'ideologia razzista
ai fondamentalismi religiosi si sono
fatti forza dirompente che ha insanguinato la storia. Attualmente, dopo il
crollo dell'ideologia nazista e razzista e quello dell'ideologia comunista,
vanno fortemente crescendo fondamentalismi di vario tipo, che non rispettano la
libertà dell'uomo, bensì impongono la loro verità con la forza, quale regola
per tutti. Essi non trovano certo un'alternativa nella cultura tecnica ma ne
rivelano piuttosto il limite: una libertà e una economia, basati solo su
principi tecnici senz'anima, finiscono per essere anch'esse ideologie.
L'anelito all'unità:
grido del nostro secolo
Qual
è allora il compito e anche il grido di questo secolo? Che cosa dobbiamo
cercare? Una vera unità! Un'unità cioè che non crea né solitudine né servitù,
ma comunicazione, dialogo, comunione. E più esattamente: un'unità che sia
capace di creare l'unità del mondo, l'unità dell'io, l'unità della storia.
L'unità del mondo. La sfida, se l'uomo non vuole distruggere se
stesso, è quella di vivere nella
pluralità delle culture, nell'unità di un unico rispetto dell'uomo, di un unico
rispetto dell'Assoluto. Il mondo non è uno se non in un cuore che sia ispirato
dall'amore verso tutti. Solo colui, allora, che, vivendo come uomo, si è fatto
partecipe della sorte di tutti; solo il Figlio di Dio, insomma, che ha assunto
la sorte di ogni uomo, lui che come dice la Gaudium et Spes al n. 22 «si è
unito in certo modo ad ogni uomo» e «svela anche pienamente l'uomo all'uomo e
gli fa nota la sua altissima vocazione», soltanto Lui è il punto nel quale il
mondo può essere veramente unito. Solo lo Spirito che ispira questo cuore pub
essere il principio dell'unità. Ciò non vuole escludere i non cristiani, come
leggiamo ancora nel passo citato, ma vale «anche per tutti gli uomini di buona
volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto
per tutti...». E' significativo come la Redemptoris Missio abbia effettivamente
espresso e l'uno e l'altro aspetto. Se da un lato insiste sulla necessità della
missione, dall'altro evidenzia come essa non sia contro il dialogo, ma debba
avvenire in spirito di dialogo e
tolleranza. Solo a partire da questo binomio apparentemente paradossale è
realistico pensare all'unità. Se cerchiamo l'unità del mondo dobbiamo quindi
mirare a quell'unità che è ispirata dallo Spirito, nel quale Gesù si è offerto
per tutta l'umanità e ha fatto propria la sorte di tutta l'umanità.
L'unità dell'io. Non a caso nei due primi decenni di questo secolo,
l'arte che ha anche la funzione, fra l'altro, di fotografare l'evolversi
dell'animo umano ha espresso nel cubismo la distruzione del volto umano e della
persona umana. C'è dunque, nel nostro tempo, la minaccia all'unità della
persona. Di qui l'importanza di avere un volto. Ma chi lo può dare all'uomo e
chi, soprattutto, glielo può dare in maniera che sia inconfondibile?
Quell'Amore che mi ama in ogni momento in tutto quello che è spezzato e non
unito in me! E' solo questo Amore, in definitiva, che mi raccoglie e mi
custodisce. La mia unità non è in me, ma in Colui che mi ha amato e continua ad
amarmi. In realtà, io sono io soltanto quando posso dire: «Non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella
fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,
20). Quando il suo Spirito vive in me, P allora che sono, e sono uno.
L'unità della storia. Se ci fosse solo il succedersi delle generazioni, non
si potrebbe mai parlare di un'unità della storia. Oggi infatti ci siamo noi, ma
domani moriamo e vengono altri. Solo se c'è Uno nel quale convergono e sono
raccolti tutti i soggetti, tutti i tempi e tutti gli eventi, ci può essere
unità della storia.
La triplice ricerca del nostro secolo l'unità del mondo, l'unità dell'io e l'unità della storia non è altro che un grido che invoca quell'unità che viene dallo Spirito: da quello Spirito che ha riempito Gesù come fiamma ardente. Rivela così tutta la sua attualità un messaggio come quello della Lettera agli Efesini quando parla, in particolare nei primi tre capitoli, della ricapitolazione (anakephalaiosis; cf. 1, 10) di tutto in Cristo.
Le
istanze del Vaticano II
e i movimenti ecclesiali
Se leggiamo in questa luce i
documenti del Vaticano II ne comprendiamo con maggiore pienezza il contenuto e
ci si illumina ulteriormente l'argomento di cui stiamo parlando. Vediamo cioè che quell'idea del «popolo
adunato dall'unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4), quei
cerchi concentrici attorno a Cristo nella Chiesa, l'ecumenismo, il dialogo con
le altre religioni e appunto quella visione della cultura moderna che propone
la Gaudium et Spes, non fanno altro che esprimere quell'unità a cui anela
l'uomo d'oggi e che P la ricerca fondamentale di questo secolo.
Ma c'è un altro fatto. Secondo Giovanni Paolo II anche i movimenti ecclesiali che sono nati in questo secolo hanno una grande importanza in questo senso. In essi, infatti, spesso è posta al centro e profondamente vissuta quell'unità alla quale mira l'insegnamento del Concilio Vaticano II. E non sempre tali movimenti sono sorti dopo, come una applicazione delle linee dettate dal Concilio. Qualcuno, come ad esempio il Movimento dei focolari, era nato già decenni prima. Eppure costituisce una risposta vitale alle istanze del Concilio, corrispondendovi attraverso i punti essenziali della sua spiritualità evangelica: credere all'amore di Dio; rispondere a Lui seguendo la Sua volontà; amare tutti e puntare all'amore vicendevole ed anzi all'unità dell' «io in te e tu in me» (cf. Gv 17, 21), a quell'unità pericoretica, per la quale io non annullo l'altro né lo isolo in una ideologia, ma mi vengo a trovare con lui in una unica realtà.
Nasce da tutto cib una
dinamica vitale che è una vera alternativa alla cultura della solitudine e al
rischio della guerra totale; uno stile di vita che non è né solitario né ideologico.
E' appunto di questa dinamica che ci parlerà in questi giorni Chiara Lubich
nella sua conversazione sugli effetti e i doni dello Spirito Santo come vengono
sperimentati nella vita del Movimento dei focolari.
Vedremo, attraverso questa
testimonianza, come lo Spirito, dove opera, realizza l'unità, suscitando un
nuovo stile di vita che si esprime in un nuovo comunicarsi l'uno con l'altro
fino ad arrivare alla comunione dei beni.
Vedremo pure come, sotto
l'azione dello Spirito, il mondo interiore dell'uomo, prima frantumato in tanti
pezzi, si ricomponga e riemerga, nella nostra vita e nella nostra personalità,
quel filo d'oro che ci fa dire in una maniera nuova, redenta: «io». Ed è un
nuovo io. Perché non siamo più noi a cercare la nostra identità, ma facciamo
l'esperienza che questa identità ci viene data dallo Spirito Santo.
Vedremo infine come, nella piccola misura della nostra vita e della nostra comunità e sempre più in tutta la Chiesa e fra le Chiese, si può aprire una nuova storia; la storia di un'unità non soltanto funzionale e neppure ideologica, ma vitale; la storia di un'unità che rappresenta un'alternativa di pace, di gioia e di speranza, contro tutte le disperazioni e gli ostacoli, come risposta al grido e all'anelito del nostro secolo.
mons. Klaus Hemmerle