L'esperienza
di un medico
di
Cosimo Calò
Una
riflessione stimolante del dott. Cosimo Calò, medico chirurgo e stimato
cardiologo, basata sul contatto da lui intensamente vissuto con gli ammalati,
in Africa e in Italia, per oltre trent'anni. Una riflessione fondata
sull'esperienza, che dischiude orizzonti spesso volutamente dimenticati dalla
nostra cultura consumistica, ma indispensabili per una comprensione seria ed
umanizzante della presenza della malattia e del dolore nella vita dell'uomo.
I
mass media ci forniscono, ormai quotidianamente, informazioni sui
progressi della medicina e della biologia. Non si può non constatare quanto la
tecnologia abbia contribuito alla soluzione di tanti problemi diagnostici e
terapeutici. Contemporaneamente però, come è facile constatare, all'interno
della stessa medicina nascono problematiche a volte, a dir poco, inquietanti.
Basta pensare all'uso indiscriminato di tranquillanti da parte di milioni di
persone... Non intendo soffermarmi qui, su questo tema, peraltro molto
interessante e attuale. Né tantomeno sui progressi della scienza o sulla
problematica della medicina di oggi. Cercherò semplicemente di raccontare col
linguaggio dell'esperienza quello che ho provato in questi trent'anni a
contatto coi malati.
Le
mie riflessioni si riferiscono quindi a persone che hanno un volto, a
circostanze ben definite, ad avvenimenti umani, a rapporti intensamente
vissuti. Il mio mondo è stato la malattia; la mia gente e il mio interesse sono
stati gli ammalati. Con loro sovente ho stabilito un dialogo. Spesso il dialogo
con l'ammalato si è realizzato quando era imprevisto e inaspettato. Dialogo non
sempre fatto di parole.
Cosa si cela dietro il
volto del malato?
Ma
che cos'è la malattia? Chi è l'ammalato? Qual è il suo linguaggio?
Per
“capire” che l'ammalato non è il numero del letto di una divisione ospedaliera,
bensì una persona che ha un nome, ci sono voluti per me alcuni anni di
esercizio professionale. Può sembrare una verità ovvia, ma interiorizzarla ha
richiesto del tempo.
Successivamente
la malattia, come presenza nel mondo, mi fece un'impressione enorme. Fu in
seguito ad un viaggio nel '64 in una vallata del Camerun di lingua inglese ai
confini con la Nigeria. Le ulcerazioni, le piaghe di quella gente, erano il
volto esterno, percepito con i sensi, di un male più profondo percepito con
l'anima.
ì,
In
quelle circostanze, ed in altre successive, sempre in Africa, ho preso
coscienza di quanto il dolore sia una realtà che fa parte dell'uomo. Lo esprime
per me un'immagine che non potrò mai più dimenticare e che mi si è impressa
nell'anima: il volto di una madre che mi portò il suo bambino in fin di vita
per una cardiopatia reumatica attiva.
Sempre
in quegli anni, la morte di una epilettica caduta sul fuoco ed ustionata in
un'ampia superficie del corpo, mi introdusse in una nuova dimensione dei
rapporti tra gli uomini. Ricordo il profondo legame che questa ragazza creava
intorno a sé. Legame con la famiglia, legame con tutti. La sua rassegnazione e
la sua morte furono poi seguite da un'atmosfera di autentica religiosità. La
ragazza e la sua famiglia erano di religione musulmana. Ci fu un'irruzione di
Dio in questa vicenda, Dio che si accostò a noi come un unico Padre. Cadevano
così pregiudizi inveterati ed emozioni negative e scoprimmo in un modo nuovo la
fraternità universale.
Pietre vive nella
costruzione dell'umanità
Tornato
in Italia alla fine del '67, la mia attenzione fu particolarmente attratta
dalle persone afflitte da mali incurabili e da malattie croniche debilitanti.
Nacquero,
con gli anni, alcune convinzioni profonde.
Una
prima riguarda le infinite sfumature del dolore. La sofferenza è sempre
attuale: il dolore non è monotono. Ciascuno ha il suo dolore. Ogni dolore, come
ogni uomo, è irripetibile.
Un'altra
impressione forte è quella delle piccole attese quotidiane inserite nella
grande attesa per l'appuntamento finale.
Ma
la comprensione forse più importante nata in me in questi anni è la seguente:
questi pazienti, denudati dalla sofferenza, mi sono apparsi come pietre vive
nella costruzione dell'umanità e dei suoi valori. Il loro vestito è la
sfinitezza, ma anche la trasparenza; essi sono portatori di una luce
particolare, la luce di Dio.
Sempre
più mi sono convinto che - come afferma Simone Weil - l'umanità, se fosse
privata di tali persone, non avrebbe alcuna idea di Dio.
Nel silenzio di Dio la sua
presenza
In
alcuni casi poi si riscontra negli ammalati un'assenza totale di energie,
un'evoluzione disperante del male, un'oscurità totale che occupa tutto il loro
spazio psichico: un perché senza risposta. Eppure spesso ho visto che questi
ammalati, con una piccola e misteriosa parte di se stessi, vanno al di là, sono
orientati verso quella luce che non c'P.
In
questi casi, quando tutta l'oscurità è stata consumata, un altro viene
dall'esterno e li prende: si ha allora un contatto reale non con la luce di Dio
(che non è avvertita), ma con Dio stesso. Il silenzio di Dio si rivela come una
sua particolare presenza. Sembra che Dio si incarni in quelle esistenze ormai
disgregate. Spesso le parole dei moribondi sembrano dettate da Lui. Di fronte a
loro si fa forte l'impressione che la sofferenza sia una porta di ingresso di
Dio nel mondo.
Trattare
il prossimo infelice con amore
significa,
in un certo senso, battezzarlo
Un
cenno a parte meriterebbe la situazione degli handicappati gravi, di certi
anziani affetti da psicosi arteriosclerotiche avanzate, soprattutto dei malati
mentali: persone in cui l'io psichico è ridotto, compromesso e qualche volta
assente.
Colpite
in una delle fondamentali dimensioni della loro dignità - la ragione -, spesso
«parcheggiate» in luoghi non idonei, non ci sarà mai sufficiente attenzione per
queste persone. Loro comunicano con un linguaggio essenziale di verità. Ci
fanno pensare che la verità è terribile, che esige una purificazione interiore
che rassomiglia alla morte. Essi non mentono, anche se privati dell'io, anzi
proprio per questo. A contatto con la loro essenza psichica e con la loro
tristezza, l'anima vibra in un modo particolare come se il loro essere
sprigionasse la verità dell'uomo e sull'uomo. Anche se ci fanno riflettere
sull'infelicità dell'uomo, essi ci attraggono verso uno stato di tenerezza che
si può chiamare amore. Ci sentiamo purificati. E' stato scritto da Simone Weil
che «trattare il prossimo infelice con amore è come battezzarlo». Forse è
proprio così.
Tra
i diritti umani
non
dimentichiamo quelli dell'anima
Dopo
queste riflessioni forse è possibile cominciare un discorso etico. Sono qui le
vere radici dell'etica e della cultura.
Non
vorrei si pensasse che si debba fare una cultura della sofferenza. Ci basta
quella che già c'è nel mondo. E' importante però tener conto che la sofferenza
c'è e che essa è parte essenziale dell'identità dell'uomo su questa terra.
Certamente
bisogna alleviare la sofferenza ed il male con tutte le energie di cui si
dispone, ma è fondamentale capire e rispettare compiutamente il linguaggio
della sofferenza. Essa ci richiama i sentimenti e la vita dell'anima tanto
quanto la fame e la sete ci richiamano le necessità del corpo.
E
se le istanze sociali giustamente sottolineano i diritti fondamentali dell'uomo
(come il lavoro, la casa, l'istruzione, ecc.), le istanze culturali dovrebbero
sottolineare i diritti dell'anima .
Non
credo infatti che esista cultura senza l'uomo intero. E nell'uomo intero c'è
anche l'Assoluto, in cui la sofferenza si estingue.
E'
a partire da questo che la sofferenza può diventare punto di convergenza e di
riflessione universali, elemento di aggregazione sociale. Ma perché ciò si
verifichi occorre una civiltà d'anima senza precedenti.
Cosimo Calò