Malattia
e morte vissute con fede - una riflessione-testimonianza
La
sofferenza passa,
l'aver
sofferto rimane
di
Arnaldo Diana
Il
dolore del malato e del morente - dice il filosofo Gabriel Marcel - è unico in
ognuno. Legato intimamente al rapporto personale dell'uomo con Dio, il mistero
della sofferenza ha sollecitato in ogni epoca una risposta personale e nuova,
capace di illuminare i tratti più oscuri dell'esistenza umana. L'autore ne parla
con la sincerità inconfondibile di chi ha affrontato in prima persona lo
«scacco» della malattia grave.
Avendo vissuto
in prima persona
l'esperienza della sofferenza fisica intensa e della possibile
prossimità della morte, ed avendo avuto contatto diretto con persone versanti
nelle stesse condizioni, credo di aver acquistato una spontanea solidarietà,
quasi familiarità, con quanti - cristiani e non cristiani, contemporanei o non
- sono passati per questa stessa porta, così spesso stretta, ma sempre diversa
e spiccatamente personale per ciascuno.
Non
riesco più ad etichettare come «non-cristiano», ovvero come non accolto dal
Cristo, il dolore immane dei veri sofferenti. E non credo che qualcuno possa
definire la sua come la esperienza cristiana; essa è una esperienza, una delle
tante, ciascuna preziosa per sé e per gli altri.
Oserei
dire, anche se dovrò mostrarlo molto affrettatamente, che mi pare di scorgere,
almeno all'interno della cultura europea, la sola in cui io sia vissuto, un
costante desiderio dell'uomo di porsi la grande domanda del dolore e della
morte e di darsene risposte sempre più approfondite, sempre più vicine a quel
«perché» fondamentale e ultimo, che è l'azione dello Spirito nella storia
umana, in tutti noi che ne facciamo parte.
Ecco
dunque «l'intenzione» di questo breve scritto. Mi permetto però, prima di
tutto, di esporre al lettore qualcosa della mia esperienza.
La mia esperienza di
malattia
Nel
novembre 1978, in un ospedale di Monaco di Baviera, la città in cui allora vivevo,
il medico mi diagnosticò un tumore maligno al palato, in stadio piuttosto
avanzato.
Questa
diagnosi mi colse alla sprovvista. Per quanto cristiano praticante e impegnato
da decenni, non avevo mai pensato seriamente alla morte: senza rendermene conto,
seguivo come tutti la cultura dominante, orientata all'efficientismo ed al
pragmatismo. Ciò che per me contava era il fare, l'essere efficiente, il
costruire: alla morte ci avrei pensato a suo tempo, dopo i 65 anni; allora ne
avevo 46, ero quindi ancora «giovane», potevo rimandare tranquillamente l'esame
del problema (in realtà, lo «rimovevo», lo «spostavo»). Ma ora, sentendo le
parole del medico, mi sentivo completamente impreparato all'evento; mi chiedevo
costernato: «Come si fa a morire»?
Non
comunicai a nessuno il mio smarrimento; e fu un grosso sbaglio. Molti vennero a
trovarmi o mi scrissero. Ma io quasi ignoravo la loro vicinanza, assorbito
com'ero a vedere la prossimità della possibile morte come un affare personale
fra Dio e me, e basta. Mi aiutò molto, invece, per tutti i mesi e gli anni fino
alla guarigione, la possibilità che avevo di soffrire per gli altri e con
Cristo sofferente. Pian piano mi vennero in mente i focolarini che mi avevano
preceduto, il come avevano vissuto la loro malattia e la loro morte: questa
loro esperienza mi convinse sempre di più che - così pensavo allora - «come ce
l'hanno fatta loro, ce la farò anch'io».
La
ferita, piuttosto profonda che avevo nel collo, andò in suppurazione, a causa
delle forti radiazioni con cui venivo curato, e doveva essere ogni giorno
sottoposta a dolorosa medicazione. Ogni mattina mi toccava fare in corridoio la
fila, per ritirare la mia «razione quotidiana» di dolore. In quel corridoio mi
ricordai dei «poveri e umili di JHWH» che la Bibbia afferma essere
particolarmente vicini a Dio: e io ero ora uno di quelli. Questo mi rassicurb.
Anche
il rapporto fra noi malati gravi era complessivamente profondo e cordiale,
perché vero. Non avevamo più bisogno di nasconderci dietro una maschera e un
ruolo sociale; non avevamo da recitare nessuna parte o da sostenere un ruolo.
Eravamo liberi. Ricordo l'atmosfera di vicinanza reciproca che ogni pomeriggio
regnava fra noi malati di cancro nella saletta d'aspetto dello scantinato dei
raggi al cobalto, i nostri discorsi, l'attenzione ed il rispetto da parte del
personale sanitario. Non so se definire tutto questo come amore reciproco o
solo come solidarietà: per me è stata una esperienza di divino, di verità, di
salutare disillusione, di occasioni per uscire dal mio egoismo ed aiutare il
sofferente che mi stava accanto.
La
notevole preparazione professionale dei medici curanti mi è stata di grande
aiuto, sapevo di poterci fare affidamento e vedevo quanto si dedicassero a noi
malati. Da allora, quando sento certe critiche sull'uomo moderno che adorerebbe
gli idoli della scienza e della tecnologia anziché Dio stesso, non riesco ad
essere pienamente d'accordo. A noi il sapere medico ci ha aiutato.
La
forte solidarietà fra noi malati, la facilità dei rapporti reciproci, e la
generale apertura verso una fede, (non predicata ma) praticata nelle
piccole-grandi cose della vita quotidiana di corsia ospedaliera, mi fecero una
così grande impressione che, appena dimesso, pensai di scrivere un libro di
«cristianesimo per malati», sicuro di essere capito. Fortunatamente, la mia
estrema debolezza mi costrinse a fermarmi dopo qualche decina di pagine: una
cosa infatti è vivere con e per i malati, un'altra cosa - molto più ardua -
annunciare loro una verità.
Ora
mi trovo, dopo 12 anni, nella situazione di segno opposto: tutto ciò che tratta
del dolore mi suona familiare, vi scorgo qualcosa di molto «mio», qualcosa - o
molto - di cristiano. Perché, come dice Leon Bloy, «la sofferenza passa, l'aver
sofferto resta»: come ricchezza personale e della comunità.
L'umanità
di
fronte al problema del dolore
1.
La risposta «pragmatica»
Il
filosofo Democrito1 (460-370 a.C.) - si racconta - non riusciva a consolare il
re Dario che piangeva la morte della moglie bellissima, finché non gli promise
che l'avrebbe fatta tornare in vita, però ad una condizione: che Dario, re così
potente in tutta l'Asia, gli fornisse tre nomi da iscrivere sulla tomba della
morta. Si trattava dei nomi di tre uomini che fossero vissuti senza aver mai
provato dolore, iscritti i quali la regina sarebbe tornata in vita. E poiché
Dario, in tutto il suo regno non riusciva a trovare nessun uomo che non avesse
mai provato il dolore, Democrito gli disse: «Perché, o irragionevolissimo uomo,
piangi senza ritegno come se tu fossi il solo a cui è toccata una tale
sventura, tu che non potresti trovare fra tutte le passate generazioni neppure
un uomo solo che sia vissuto senza provare la sua parte di dolore?».
Ai
nostri giorni l'approccio al problema della sofferenza si fa ben più pragmatico,
come viene descritto con chiarezza da Brigitte e Peter Berger. Essi distinguono
un'esperienza «diurna» della vita (quella di ogni giorno e delle feste) da una
«notturna» (quella del limite, della morte e dei suoi «segnali»: malattia e
vecchiaia). Quindi la vera vita è l'esperienza «diurna» di essa, quella
dell'efficienza, della giovinezza e della salute. Malattia e morte vengono
«rimosse» nell'esperienza «notturna», quella di cui non si parla, perché, come
il sonno, non è «vera». Così il malato, il vecchio ed il morente hanno il
«dovere» di vergognarsi e nascondersi; di non uscire alla luce del sole. Lo
esprime bene un fatto: negli USA i cadaveri vengono truccati per non fare
troppa impressione ai parenti. Il vecchio e il malato perdono il loro stato di
adulti e vengono negli ospedali regrediti a quello di bambini. Li si tratta da
bambini, perché non essendo né efficienti né sani non possono essere neppure
«veri» adulti.
2.
La risposta dei pensatori
Come
nell'Antico Testamento, man mano che si passa da testi antichi a testi più
recenti, si notano chiaramente notevoli progressi nella comprensione del dolore
- nel Genesi il dolore è spiegato come conseguenza del peccato; nel canto di
Giobbe la somma dei dolori porta alla intima conoscenza di Dio, il «vederlo coi
propri occhi»; nel Deuteroisaia il servo sofferente di Jahvè assume e redime
col suo dolore i limiti e gli errori degli uomini -, così nella cultura greca e
nel pensiero europeo.
Eschilo
- come pure Esiodo e più tardi Aristotele - gioca coll'assonanza delle due
parole pathein = mathein (patire è imparare): «nella scuola del dolore si
impara a essere saggi»3. Anche gli stoici hanno, tutto sommato, una visione
positiva del dolore (anche se un po' troppo individualistica: esso tempra
l'eroe). Benché «obtorto collo» lo stesso Nietzsche ammette una valenza
positiva nella visione cristiana del dolore: essa ha dato un senso sbagliato -
quello ascetico - alla sofferenza, ma ha comunque fatto progredire l'umanità,
la cui maledizione non era la sofferenza, ma la mancanza in essa di un senso,
che «l'ideale ascetico» le offrX4. Karl Jaspers radica la sofferenza dell'uomo
nell'Assoluto e rende il sofferente cosciente dell'unicità della sua esistenza;
la logoterapia di Viktor Frankl aiuta il sofferente a enucleare il senso vero
che sottende al suo personale dolore.
Per
Sören Kierkegaard, come ben sappiamo, il cristiano sofferente è chiamato (e con
lui la Chiesa) a ripetere Cristo nella sua kenosi e nella sua morte, a essere
«mimetos» di Cristo. Gabriel Marcel vede nel dolore il luogo in cui
l'insondabile umano invoca e tocca l'insondabile divino. Questa mi pare una
vera e propria vetta della riflessione europea.
3.
La risposta dei testimoni
Tutti
gli autori sinora citati hanno dimestichezza con la sofferenza, hanno sofferto
veramente: e questa loro esperienza me li rende, come dicevo all'inizio,
assolutamente familiari, «miei».
Accanto
alla loro risposta riflessa c'è la risposta dei testimoni. Ne vorrei citare
solo due. Walter Nigg ha ricostruito fedelmente la morte di Francesco d'Assisi.
Ne faccio qui una brevissima sintesi, perché essa mi pare non tanto
«edificante» quanto importante per l'intuizione che vi è sottesa. Francesco
scrisse l'ultima strofa del Cantico delle Creature quando avvertì
l'approssimarsi della morte. Egli la salutò e l'accolse come sorella: «Laudato
si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da che nullo homo vivente
po' skappare». L'accento posto sull'aggettivo «corporale» viene chiarito dalle
azioni successive di Francesco: si fece porre nudo sulla terra nuda, per
morirvi così, senza niente tra sé e la terra. Il Cantico parla subito dopo di
«morte secunda», di dannazione cioè, la vera morte. Però il credente è soggetto
solo alla prima, che gli è «sorella», fa parte della sua vita, della sua
famiglia.
Dalla
morte di Francesco il pensiero passa a quella, molto simile, degli innumerevoli
anonimi, moribondi stesi sulle strade delle città indiane e negli altri paesi
in via di sviluppo. Ad essi Teresa di Calcutta ha dato un nome ed una dignità:
sono Gesù. Mt 25, 31-46 ci dice chiaramente che lui è in ogni malato, affamato,
assetato, carcerato, indipendentemente dalla sua fede o non fede in Cristo il
quale si identifica con ogni uomo sofferente, per il solo fatto ch'egli soffre.
Quindi il sofferente è più di me, perché soffre: Cristo gli è più vicino.
L'aiuto a chi soffre
Gabriel
Marcel dice spesso che il dolore del malato e del morente è unico in ognuno, è
il suo rapporto personale con Dio. Per noi che desideriamo aiutare i malati
occorre quindi entrare «in punta di piedi» in questo rapporto; non si può avere
uno schema universale. Porto qui l'esempio di tre miei compagni di stanza
d'ospedale.
Un
berlinese ottantenne, di magrezza e pallore estremi, appena posto nel letto
libero della nostra stanza, cominciò a gemere ininterrottamente: «Sono finito!
Sono un uomo finito!». Si calmò solo molto più tardi, quando il cappellano,
anche lui avanti negli anni, gli disse: «Noi vecchi dobbiamo adattarci! Siamo
vecchi!».
Un
dirigente d'azienda bavarese commentò la diagnosi, appena fattagli dal medico,
di tumore alle ossa, con queste parole: «Allora tutte le mie fatiche per
costruire l'azienda, il superlavoro, l'impegno, i viaggi, le ferie sono
traguardi senza senso!».
Il
terzo aveva un tipo di tumore simile al mio. Parlavamo spesso di molte cose,
anche un po' di religione. Morì fra Natale e Capodanno, proprio quando io ero
stato temporaneamente dimesso. Quando tornai, la caposala mi disse che prima di
morire aveva regolarizzato il suo matrimonio e ricevuto l'unzione degli
infermi.
Nel
primo esempio è servita la saggezza delle parole del cappellano. Nel secondo la
diagnosi crudele ha fatto sorgere la questione sul senso della vita. Nel terzo
non c'è stato bisogno che di con-vivere e con-versare tra normali vicini di
letto.
Come
si fa allora ad avere schemi fissi per tutti? Giorni fa mi è capitata la
lettera di un non-credente, fratello di una focolarina morta l'anno scorso, la
quale aveva spesso - invano - parlato di fede con lui. Ora lui scrive: «Da quando
mi diagnosticarono un cancro all'intestino, ero caduto nella più cupa
disperazione. Ma da qualche giorno mi è venuta in mente la frase: “Sia fatta la
volontà di Dio” ed in me è entrata una grande pace». Stupito egli stesso di
questo fatto, commentava: «Non temere: io sono rimasto ateo».
La
malattia e la morte
nella
spiritualità dell'unità
Vorrei
ora esprimere, in estrema sintesi e con parole mie, la visione di Chiara Lubich
e la specifica esperienza del Movimento dei focolari su questo punto.
a)
Visione positiva della vita di fede, che parte dalla «scoperta» ed esperienza
personali che Dio è Amore, che ci ama
sempre e comunque. Dio-Amore ha un progetto d'amore per ciascuno di noi, e noi
lo scopriamo amandolo e facendo nostra la sua volontà. Dio-Amore è lo scultore
che col suo scalpello modella l'uomo nuovo in noi; così la nostra piccola
«storia» personale può diventare parte della grande storia sacra, e come tale
va comunicata.
b)
Il dolore, o la malattia che progredisce, e la morte che si avvicina, se
«amati» perché provenienti dall'Amore, sono il segno concreto del «Regno di Dio
che avanza - come dice Chiara Lubich - in noi e quindi nel mondo».
c)
Salute, malattia e morte si vivono «a corpo», comunitariamente, insieme, e
insieme si realizza, anche in questo aspetto, quella sintesi fra dottrina ed
esperienza di fede, fra pratica personale e pratica collettiva di essa, che è
caratteristica del Movimento dei focolari.
d)
Tale duplice sintesi è la base perché si realizzi la promessa di Mt 18, 20, (la
presenza di Cristo fra i suoi riuniti in Lui), e porta quindi ad una terza
sintesi, ad una «contemporaneità» fra via ascetica e via mistica: l'esperienza
concreta di Cristo nella comunità e quindi in ogni singolo membro è già
esperienza mistica; le «condizioni» per arrivarvi (il «convenire verso il mio
nome»: synegmenoi eis to emon onoma di Mt 18, 20) sono l'ascetica che la
precede ed accompagna. Quale «conforto» migliore per l'ammalato ed il morente,
oltre l'unzione degli infermi, di tale Presenza, che è la stessa che lo attende
«di là»?
e)
L'abbandono del Padre, vissuto secondo Mc 15, 34 par Mt 27, 46 da Cristo
crocefisso, è vissuto in una doppia identificazione: di Cristo col dolore
dell'uomo e del dolore dell'uomo con Lui; questa esperienza di croce è vissuta
come sicuro passaggio (pascha) al momento della resurrezione.
f)
Il malato, l'anziano, il morente sono per noi immagine viva del Cristo
crocefisso e abbandonato, sono per noi Lui, quindi più di noi, più preziosi di
noi, più vicini al cuore di Dio, più Lui;
g)
Rispondendo alla chiamata alla sequela, doniamo noi stessi a Dio e quindi non
ci apparteniamo più; anche il nostro corpo non ci appartiene, la nostra salute
non ci appartiene. I malati quindi sono patrimonio di Dio e della Chiesa.
Perciò li dobbiamo custodire e curare, comunicare alla comunità eventuali
malattie, che saranno curate con ogni mezzo possibile e viste anch'esse come un
«patrimonio» prezioso.
Malattia
e morte al positivo -
testimoni
nel quotidiano
Queste
idee, qui appena abbozzate, trovano riscontro nella testimonianza di vita di
molti. In questi anni, in seno al Movimento dei focolari, sono state pubblicate
diverse biografie di persone che sono passate all'altra vita; mentre altre sono
state ricordate nei diversi incontri con apposite testimonianze. Il loro
esempio concreto è d'aiuto e di orientamento a molti altri che si trovano in
circostanze simili.
La
loro esperienza di fede, riferita da chi era loro vicino, mette in luce piccoli
o grandi eroismi, condotte di vita di autentica santità cristiana.
Penso
qui ad un articolo apparso tre anni fa sul giornale diocesano di Massa. Il
redattore aveva conosciuto un padre di famiglia di quella città, Giuseppe
Belli, morto in quei giorni, e ne aveva seguito da vicino la malattia e la morte,
rimanendone così edificato da proporre in quell'articolo alla diocesi di
iniziare il processo di canonizzazione. Penso anche al padre Giuseppe
Savastano, pallottino, morto nello stesso anno. Il sacerdote che ne sta curando
la biografia, dice di aver acquistato la certezza, a contatto con le varie
testimonianze su di lui, di scrivere la vita di un santo.
La
stessa impressione mi ha fatto la lettura della breve biografia di Sheri
Schiltz di Chicago, colpita da leucemia a 18 anni e morta due anni fa, all'età
di 25 anni. Il medico primario del «Valley ambulatory surgery center» di St.
Charles/Illinois, datore di lavoro di Sheri, scrisse ai suoi dipendenti:
«Abbiamo perso la collega Sheri Schiltz, esempio per tutti noi. Era ed è una
santa».
Decisivo
è il rapporto comunitario con gli altri. A Julia Gimenez di Areguà (Paraguay)
venne amputata, a 18 anni, una gamba. Non riusciva ad accettare questa prova.
Un sacerdote ed una suora le dissero che questa mutilazione era amore di Dio
per lei. Lei rispose: «Allora vorrei che Dio non mi amasse così tanto, o che
amasse qualche altro». Poi però scoprì nel nostro ritiro estivo dell'84, la
Mariapoli, il senso dell'abbandono di Gesù in croce e questo le schiuse una
comprensione tutta nuova della sua situazione.
Comunicava
quindi questa comprensione al suo gruppo di giovani, che a sua volta l'aiutava
a farle sperimentare, pur nel dolore, la pienezza della gioia cristiana. Morì
sette mesi dopo quella Mariapoli. Il suo diario mi pare testimoniare la
coincidenza in lei della via ascetica, data dall'esperienza della malattia, con
la via mistica, data dall'esperienza della presenza divina nella comunità ed in
lei stessa, che così progrediva man mano nella comprensione e nell'«esperienza»
di Dio.
Può
sembrare che sia la comunità ad aiutare il sofferente. Più spesso è il
sofferente ad aiutare gli altri, sia singolarmente che rafforzando attorno a sé
la comunità stessa. Penso qui a Gisela Steinhart di Heidelberg (fu preso in
affitto un appartamento in centro, in modo che i membri del Movimento della
città potessero assisterla a turno); a madre Achilia, superiora generale delle
Sorelle di Maria di Ingelmunster nelle Fiandre; a Herrman Schäfers, assistente
sociale a Herten in Westfalia: la loro «vicinanza» a Dio rinfrancava gli altri.
Poco
prima della morte per cancro vennero a trovare madre Achilia alcune ragazze
quattordicenni, che la videro così serena ed esuberante da dire: la morte non
ci fa più paura, abbiamo visto che essa è vita! Madre Achilia fu poi
intervistata dalla televisione fiamminga; con le sue risposte e la luminosità
del suo volto testimoniò di essere certa dell'Amore di Dio, sia per la fede -
diceva - sia per l'esperienza che faceva di Lui.
Hermann
Schäfers morto di cancro il 24 aprile del '90, appose la sua firma ad un testo
di Chiara Lubich su Gesù crocefisso e abbandonato, con la data 23/4/'90 e con
le parole: «Sì, sì, sì: Dio è l'Amore».
Per
molte di queste persone penso si possa dire che nel morire erano già immerse
nell'Amore divino presente in loro per il soffrire e nella comunità raccolta
intorno a loro.
Il dolore «dilata» la
nostra persona
L'esperienza
di Gesù crocifisso e abbandonato ripetuta nell'oggi della Chiesa dai cristiani
non è che una piccola parte del suo patire. Contemporaneamente, però, il cristiano
che soffre può dire con Col 1, 13, come tiene a sottolineare la Salvifici
Doloris: «Completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo per il
bene del suo corpo che è la Chiesa».
La
prospettiva completa della malattia e della morte che ci offre la fede
cristiana è quanto mai ampia. Partendo da alcune verità centrali del
cristianesimo come vengono esposte, ad esempio, nella Lumen Gentium o nella
Dominum et Vivificantem, per le quali il fine ultimo dell'uomo è la sua
partecipazione alla Vita Trinitaria, e considerando tutto da questo punto di
arrivo, si possono evidenziare le grandi linee che gettano luce anche su questo
aspetto della vita umana: il Padre «esce» da sé nel Figlio nello Spirito; il
Padre crea natura e uomo guardando al Figlio-sé (Gv 1, 3: dia autou; Col 1, 16:
dia auton kai eis auton), per cui il Figlio è immagine del Dio invisibile
(eikon tou theou tou aoratou; Col 1, 15) nella forza dello Spirito. Alla
creazione, secondo Gen 1, 2 «la ruah Elohim aleggiava sulle acque». Ora, questa
creazione continua gradualmente e si concluderà quando il Figlio «consegnerà il
Regno al Padre» (1 Cor 15, 24), e Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15, 28).
Chiesa,
sacramenti, Parola, amore, dolore, sono la forza di Dio (dynamis tou theou; cf.
Lc 1, 35 ecc.) che ci compenetra verso il fine ultimo; sono «il Regno di Dio
che avanza», che prende piede in noi, dilata la nostra persona (quindi anche il
corpo) sulla Sua misura. Non solo il dolore e la morte fanno soffrire e
contemporaneamente gioire, allargandoci il cuore su Dio: lo fanno anche la
Parola, se la mettiamo in pratica; l'amore per l'altro, se lo viviamo
seriamente, la Chiesa se ne siamo membri effettivi. Dice il libro dell'Esodo:
«Nessun uomo, che mi guarda, rimane in vita» (33, 20). E Martin Luther,
commentando il Salmo 12, 7, afferma: «Il parlare di Dio non è compreso e non
porta frutto se noi non siamo morti a noi stessi e passati per la
tribolazione».
Arnaldo Diana