Tracce
di riflessione sulla «questione seria» dell'uomo
Dolore -
malattia terminale - morte
e qualità
della vita
di
Aldo Giordano
Se
il costitutivo dell'uomo è l'amore, la qualità della vita si deciderà in ultima
analisi sull'amore. E' questa la tesi centrale delle riflessioni filosofiche e
teologiche che l'autore ha proposto a due convegni di medici e che qui
pubblichiamo. L'intervento indica una via per superare il dualismo sani -
ammalati, non-sofferenti - sofferenti (come se la realtà del dolore
interessasse solo qualcuno) e attingere il punto di vista della comunione.
Tutto ciò appare ancora più evidente in quella situazione limite che è la
malattia terminale dove «esplodono» domande che appartengono all'essere stesso
dell'uomo.
Affrontiamo
un aspetto dell'esistere umano enigmatico, denso di mistero, scandaloso e
inesauribile. Per parlare di esso occorre passare seriamente attraverso quello
che Wittgenstein esprimeva nell'ultima proposizione del suo Tractatus: «Su ciò,
di cui non si può parlare, si deve tacere». Al massimo della sua intensità il
dolore si fa silenzio o trapassa nel grido. Il nostro dire tradisce qualcosa di
insondabile e di indicibile e quindi deve contenere il silenzio e lo stupore.
Il tentare una riflessione su questo argomento vuole essere tuttavia un
contributo per evitare, da una parte, il rischio del feticismo del dolore che
lo rende una dimensione quasi sacra, e, dall'altra, quello della fobia
tabuistica che tenta il totale oblio di questa realtà quasi non fosse la questione
seria dell'uomo.
Ed
è proprio il percepire che nella malattia, nella morte, nel dolore, è implicato
l'uomo come tale che richiede una riflessione di tipo filosofico e teologico.
La questione del dolore (in particolare quello terminale) non è solo una
questione tecnica, scientifica, sociale, giuridica, psicologica, economica...,
ma impone il rimando alle domande: chi è l'uomo nella sua globalità - che senso
ha il soffrire - cosa è la morte - esiste l'essere o il nulla - chi decide la
qualità della vita...
La sofferenza come rottura
- divisione
La
malattia terminale (e la morte in modo definitivo) crea una rottura a vari
livelli.
Essa
prima di tutto lacera i rapporti con il proprio corpo e le sue capacità:
insorge il dolore fisico, crolla l'efficienza, svanisce la bellezza, spesso si
è progressivamente corrosi... Ma più in profondità spezza i rapporti con la
propria psiche: nasce la paura di non essere più amati, si ha l'impressione di
non essere più fonte di gioia per le persone che si amano, si è pervasi dal
senso di essere una delusione e quando il pensiero si rivolge al futuro il buio
diventa più intenso per il timore della dipendenza, della debolezza, di un
dolore più grande... Inoltre la malattia terminale rompe i rapporti con gli
altri: appare il fallimento dell'amore e si può sprofondare nell'estrema
solitudine... In ultimo si presenta ancora un ulteriore livello di divisione:
la frattura con l'essere stesso e l'angoscia per la possibilità dello
sprofondare nel niente. Dietro la malattia terminale appare la signoria della
morte.
La sofferenza inutile
La
lacerazione causata dalla sofferenza appare allora il luogo dove la vita
diventa insensata. Tutto destinato allo scacco. Senza unità non c'è senso. La
malattia terminale causa un tipico caso di sofferenza inutile. A questo livello
il tormento mentale è più terribile del dolore fisico. Esso scaturisce dal
fatto che questa sofferenza, che sembra non avere altro risultato che quello di
produrre ulteriore sofferenza, appare sprecata, assurda e senza senso. Chi la
vive non è più soggetto, perché non agisce, ma è l'oggetto di un destino
crudele, ingiusto, capriccioso e arbitrario.
E'
emblematico un testo di Nietzsche: «L'uomo era principalmente un animale
malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il
fatto che il grido della domanda «a che scopo soffrire?» restasse senza
risposta.... L'assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la
maledizione che fino ad oggi è dilagata su tutta l'umanità» (F. Nietzsche, Genealogia
della morale).
Saint-Exupery
ha un'immagine particolarmente suggestiva: «Vogliamo essere liberati. Colui che
dà un colpo di piccone vuol sapere che il suo colpo di piccone ha un senso. E
il colpo di piccone dell'ergastolano, non è affatto lo stesso del colpo di
piccone del cercatore di miniere. L'ergastolo non sta dove si danno colpi di
piccone. L'orrore materiale non esiste. L'ergastolo sta dove vengono dati colpi
di piccone che non hanno alcun senso, che non ricollegano colui che li dà alla
comunità. E noi vogliamo evadere dall'ergastolo» (A. De Saint-Exupery, Terra
degli uomini).
E
l'uomo di sempre con passione e con ansia ha cercato delle risposte, dei
sentieri di liberazione. Ma anche se guardiamo con amore al travaglio della
ragione davanti al dolore, dobbiamo tuttavia riconoscere la povertà filosofica
in questi territori della sofferenza. Si è preferito spesso l'oblio per le
categorie della distruzione: quelle che fanno «iattura» all'essere o
sopprimendolo o dilaniandolo. Il tentativo di razionalizzazione, tipico della
ricerca filosofica della nostra tradizione, non è facilmente coordinabile con
ciò che esprime lo scacco della razionalità. Si crea uno spazio vuoto.
Sullo
scenario culturale sono apparsi tentativi di filosofie senza il dolore (da
Parmenide a Spinoza): l'essere è uno, perfetto, razionale. Il caduco, il
morente, sono pura apparenza. D'altra parte chi ha preso sul serio la realtà
del negativo, del lato oscuro dell'esistere, del male, spesso è approdato al tragico: la vita è un
non-senso. «L'esistenza, per sua natura ed essenza, è un'imperfezione,
un'irregolarità, una mostruosità» (Leopardi). «In principio c'era il non-senso,
il non-senso era presso Dio, Dio era il non-senso» (Nietzsche). Altre
prospettive di pensiero offrono invece suggerimenti per posizioni eroiche,
titaniche, animate dall'amor fati.
In
tempi più recenti il tema è meno disatteso. Una testimonianza particolarmente
significativa è l'analisi del Sein zum Tode (Essere-per-la-morte) di M.
Heidegger. L'angoscia sperimentata dall'uomo che sente lo sprofondare
nell'insignificanza di tutto il mondo, mette davanti all'esistenza come tale,
davanti alla propria responsabilità. Fa uscire dal modo di esistere della
banalità e impersonalità quotidiana. Il rimuovere la realtà della morte (spesso
da parte del potere) è invece favorire l'inautenticità della massificazione
(quindi è un favorire il potere). E' urgente poi notare come il problema del
dolore, della morte, è il movente forse più interiore del diffondersi attuale
di tanti gruppi o sette dove si coltivano cammini e interpretazioni gnostiche,
occulte, esoteriche, animistiche, panteistiche...
La
questione del senso
e
il problema della verità sull'uomo
Stiamo
procedendo di gradino in gradino. Abbiamo visto che la sofferenza appare
immediatamente come rottura e che la divisione rimanda alla questione del senso
della vita, ma occorre andare avanti, perché l'interrogazione sul senso implica
l'ulteriore problema del chi è l'uomo, la domanda circa la verità sull'uomo. Gli altri livelli di domanda rimandano
inevitabilmente alla visione globale dell'uomo.
E'
una sfida molto impegnativa rimetterci oggi sulle tracce dell'uomo nel
tentativo di averne una comprensione ampia,
rispettosa della ricchezza di tutti gli elementi, armonica, bella,
unitaria e non povera, parziale, unilaterale, ridotta, frammentata.
Abbiamo
infatti assistito alla difficoltà di considerare la questione della verità nel
cocktail culturale attuale. Forse due sentieri in particolare hanno reso arduo
il ritornare alle questioni di fondo.
Il
nostro tempo, definito l'epoca della «morte di Dio» e del «nichilismo compiuto»
in cui «dell'essere non è più niente», dell'Abend-Land (= Occidente, terra del
tramonto) (Hegel - Nietzsche - Heidegger...), tende a restringere il campo
della qualità della vita all'immediatamente soggettivo-biologico-vitale e
terrestre, senza legami al passato e al futuro, senza «fondamenti che fondino».
La vita si poggia su speranze «corte» con la chiusura nel mito dell'onnipotenza
soggettiva, con il culto del corpo bello e sano, secondo il modello
giovanilistico...
Co-protagonista
di questa cultura radicale può essere considerato l'affermarsi dell'ideologia
scientista-tecnologica con la relativa caduta dell'«intenzionalità filosofica»
(Husserl). La scienza non è più un contributo importantissimo per l'uomo, ma
pretende di essere l'unico discorso sensato. Il dolore terminale e la morte, in
una cultura egemonizzata dalla fede nella scienza e nella tecnica, appaiono
solo come irruzione del non controllabile e del fallimento. La civilizzazione
tecnologica occidentale sembra abbia anche tra l'altro abbassato la soglia
psicologica di tolleranza del dolore. Emerge allora l'importanza del ricupero
del pensiero meditante, contemplante, accanto a quello calcolante. Proprio la
filosofia dovrebbe essere questa ricerca che deve ricuperare il pensiero della
meraviglia, prendendo in conto e instaurando la domanda circa il valore globale
dell'uomo.
La sofferenza e la realtà
di Dio
Ancora
un passo avanti: la ricerca di chi è l'uomo coincide con la domanda
sull'Assoluto. L'interrogativo sul senso della sofferenza l'uomo lo pone in
ultimo a Dio.
E'
la questione di Giobbe che sempre ci ricade addosso, attraverso i dolorosi
interrogativi dei fratelli Karamazov di Dostoevskiù, riecheggiati nella Peste
di Camus o nel grido lancinante di Auschwitz... La sofferenza inutile porta ad
un appello davanti al quale risponde il silenzio della divinità e quindi nasce
la ribellione contro un Dio crudele o, più radicalmente, la negazione d'un Dio
ingiusto. E' inammissibile la concezione d'una necessità della sofferenza
inutile per un piano divino sul mondo. Nessuno accetterebbe di essere
architetto d'un mondo costruito su quella base. Se il mondo è assurdo e senza
senso, si dovrà riconoscere che Dio non esiste.
Dal
rifiuto, all'invocazione,
alla
risposta
La
sofferenza inutile diviene il grido dell'umanità che richiede di essere
liberata dal dolore, che si appella ad un redentore. Nella lacerazione rinasce
la domanda dell'unità. «E il senso di tutto il mio operare è che io immagini
come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida
casualità» (F. Nietzsche). La ricerca del senso è la ricerca dell'uno.
Nella
prospettiva delle grandi religioni il problema della malattia terminale e della
morte entra in una nuova luce: essi sono il passaggio ad un oltre, seppur visto
in modo diversificato.
La
ricerca umana, sul «perché il dolore e la morte», trova, in modo unico,
nell'evento storico del cristianesimo una cattedra del tutto inattesa: quella
di un Dio crocifisso (Logos tou staurou). Il Dio Crocifisso non dà una
spiegazione al dolore, ma lo prende su di sé e ne libera l'umanità. La
sofferenza rimane scandalosa e incomprensibile, ed è conseguenza del peccato dell'uomo,
ma Dio stesso l'ha presa su di sé, vivendola sino in fondo e, così facendo,
l'ha annullata. Se non ci fosse il Dio sofferente, il nostro dolore rimarrebbe
senza senso. La sofferenza inutile perde molto del suo carattere di scandalo di
fronte ad uno scandalo infinitamente più grande, quello della sofferenza di Dio
stesso. Ogni altro scandalo cessa se anche Dio soffre e vuol soffrire. Nessuna
morte di Dio «culturale» è andata così lontano come la morte di un Dio in croce
presente al cuore del cristianesimo. La sofferenza di Dio è l'unica risposta
che si può dare al problema del dolore. Nello spazio vuoto creato dal dolore è
accaduta la novità di un evento. La morte rimane drammatica (l'ultimo nemico),
ma non è più l'ultima parola. La morte è distrutta dalla Risurrezione.
Se
la malattia terminale è estrema separazione, ora la divisione è assunta dal
Cristo che si fa separazione, fino a gridare «Perché mi hai abbandonato?»: il
grande abisso. La novità: questo divenire niente è riempito dall'amore, è amore.
Il non-essere, progressivamente sperimentato nella malattia terminale e quindi
nella morte, può essere gestito dalla libertà e divenire dono di sé, estasi
d'amore. Il Cristo che si dona fino alla morte è anche il Risorto: la
realizzazione dell'uomo (la qualità della vita) sta nel donare la vita. La vera
libertà nasce là dove improvvisamente non si ha più paura dei signori di questo
mondo e del signore dei signori che è la morte. La sofferenza può creare allora
uno spazio di gratuità, di disinteresse, di non possesso, di prendersi cura
autentico, di non violenza...
Scrive
M. Heidegger: «Il dolore spezza. E' lo spezzamento. Ma esso non schianta in
schegge dirompenti in tutte le direzioni. Il dolore, sì, spezza, divide, però
anche in modo che insieme tutto attira a sé, raccoglie in sé... Il dolore è ciò
che congiunge nello spezzamento che divide e aduna». Senza distanza,
distinzione, separazione, rimango nell'egologia totalizzante, non c'è
possibilità di scoprire l'altro da me, quindi non è possibile il rapporto,
l'amore. Dall'altra il rimanere nello spezzamento è la caduta nel non-senso. Il
Cristo crocifisso e risorto ha abitato lo spezzamento, senza eliminare la
distinzione. Se già a livello puramente umano lo spazio creato dal dolore può
divenire luogo di partenza dalla landa egologica, dalla sicurezza che proviene
dalle cose che ci circondano, verso nuovi orizzonti di conoscenza, di sapienza,
di creatività, di essenzialità, di scoperta della preziosità delle piccole
cose, verso le ultime profondità, verso lo sperare l'insperato; alla luce della
comunione con il Cristo morto e risorto esso può divenire il luogo di una
dipartenza fino all'Invisibile, di un'apertura al di là dei limiti dello spazio
e del tempo.
Il
Dio crocifisso ci porta ancora oltre. Egli ci squarcia il mistero stesso
dell'Essere, dell'Assoluto. L'Essere
trinitario. In Lui c'è una distinzione, un «negativo» (il Padre non è il
Figlio e il Figlio non è il Padre), ma
in Dio il non non può essere male e fallimento. In Lui la «separazione-distinzione»
vive nella più piena unità. Il Dio cristiano è unità e distinzione insieme. Se
esistesse solo la separazione sgorgherebbe una logica duale che porta alla
conflittualità ed alla disgregazione. Se esistesse solo l'unità, non ci sarebbe
la possibilità di una comunione, di un rapporto, di un amore. Ci sarebbe logica
totalitaria, monolitica.
Il
dolore umano, unito al Cristo sofferente, diviene icona (pur sempre terrena e
quindi condizionata dal peccato) di quella distinzione («ferita») che c'è in
Dio stesso. In Dio essa è totalmente abitata dall'Amore: la terza persona della
Trinità, lo Spirito Santo. Si tratta allora di uscire da una logica monolitica,
come da una duale, per entrare nell'assoluta novità della logica trinitaria
dove i due esistono nella piena libertà e realizzazione e insieme nella
perfetta comunione del terzo. Anche il dolore (momento della distinzione) può
essere abitato dall'amore (momento dell'unitB). Ma senza distinzione non c'è
possibilità autentica di amore. L'essere è ferito, perché l'amore è ferito.
Questa è la sfida, ci sembra, che i nostri tempi pongono anche alla medicina.
Conclusioni «aperte»
La
riflessione svolta ci ha condotti ad una luce che deve illuminare la vita
concreta. Concludiamo indicando delle tracce che pensiamo indicative per il
mondo della malattia e della sofferenza.
Innanzitutto
occorre non rimuovere un problema che è intrinsecamente umano. Scrive Pascal:
«Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno
creduto meglio, per essere felici, di non pensarci». Nella tecnopoli moderna il
sistema tenta di sopprimere la morte in quanto essa turberebbe il circuito:
consumare-produrre-consumare. Non sono risolutrici la paura e la fuga davanti
alle domande scomode: in realtà esse sono indispensabili per la maturità della
persona.
Siamo
chiamati a servire la ricchezza-complessità dell'uomo e non qualche suo
dettaglio. E' il problema etico. Per questo «servire» diventa fondamentale
l'interdisciplinarietà tra tecnica, scienze, filosofia, teologia, o meglio
l'intersoggettività tra chi presta il suo servizio nei vari ambiti. La
tecnica-scienza è un contributo indispensabile, ma solo contributo, al servizio
dell'unità dell'uomo. Essa non può dare risposta sul versante del senso e della
verità.
E
se il costitutivo dell'uomo è l'amore, la qualità della vita si deciderà in
ultima analisi sull'amore. E' l'amore che ha il primato, non la salute,
l'efficienza, la bellezza... Il malato terminale può essere amato e può amare
fino al dono della vita.
In
quest'ottica emerge il valore di tutte le dimensioni interpersonali-solidali:
non esiste la sofferenza, ma sempre la sofferenza di qualcuno. La presenza del
medico-uomo è insostituibile anche quando non c'è più nulla da fare. Chi è
vicino al malato è chiamato a «simpatizzare» con il malato fino a «diventare
malato» e questo richiede soprattutto capacità di ascolto (spesso è la realtà
più importante) ed accettazione degli stati d'animo del paziente anche quando
appaiono insostenibili: accogliere anche il suo rifiuto, la sua violenza, la
sua rabbia, la sua tenebra, l'insopportabilità, l'egoismo... Se si ha un cuore
profondo il malato terminale può diventare «rivelazione», per chi gli vive
accanto, di dimensioni nuove. Una delle sfumature più delicate di questa
dimensione interpersonale è da una parte la capacità di sostenere nell'ammalato
quel qualcosa di grande che può compiere e dall'altra l'avere un attentissimo
senso della discrezione: essere una presenza che è sfondo e calore per
valorizzare le energie creatrici che sempre permangono nella persona. Ed è
proprio questa prospettiva della comunione che ci fa uscire da ogni forma di
dualismo: sgorga un nuovo rapporto nel momento che scopro che la sua fragilità
è anche la mia, come la sua domanda di senso e la sua paura della morte. E' il
medesimo problema, solo il modo è diverso. Nel malato c'è una parte di me e io
sono nel malato.
Molte
altre dimensioni dell'amore acquistano risalto davanti al mistero del dolore:
la debolezza della sofferenza diventa contro-canto alla violenza prometeica;
alla luce della mia sventura, altre sventure si illuminano e si apre la
possibilità di comunicare con vite lontane che improvvisamente diventano
prossime; nasce una spinta all'uscita dall'irretimento nella sfera egoistica dei
propri bisogni umani.
L'amore
dà unità alla vita dell'uomo e per impedire all'ammalato di vivere disperso o
nella nostalgia per il passato o nella paura per il futuro, valorizza l'attimo
presente: la morte in particolare dice che la mia responsabilità non può essere
dilazionata. L'istante, in quanto incastonato sull'eterno, contiene tutto il
passato e tutto il futuro e quindi è proprio nell'istante che si tratta di
rimanere radicati.
Emerge
quindi l'importanza della dimensione culturale-sociale nell'affrontare il
dolore. La resistenza al dolore è anche una variabile culturale. Dipende dal
livello di motivazioni, di significati che si attribuiscono ad esso.
Questa
visione dell'uomo diventa riferimento anche per tante problematiche cruciali
che la medicina si trova ad affrontare. Essa spinge per esempio ad un impegno
per aiutare l'uomo a vivere una morte «degna». Il problema è difficile, senza
confini definiti: un viaggio nella terra di nessuno. Si tratta di rinunciare
all'onnipotenza terapeutica che diventa accanimento e insieme rifiutare gli
interventi che direttamente causino la morte. La medicina deve riuscire a
tenere insieme la lotta contro il dolore inutile, il rispetto per la libertà
della persona, l'informazione del paziente (con attenzione alla valutazione dei
tempi e dei modi davanti alle prognosi infauste), il ricupero di una certa
«naturalità» della morte, la restituzione della morte al suo contesto sociale,
la non eliminazione dei riti e dei simboli che accompagnano, pur nella loro
ambiguità, la fase terminale della vita.
Nella
malattia terminale emerge una sfida ultima. E' richiesta una risposta
altrettanto radicale: quella dell'amore che è la radice della persona. Questa
risposta è anche densamente culturale e insieme aperta alla concretezza, perché
pensiero e prassi nell'amore coincidono.
Aldo Giordano