A contatto con ebrei sovietici di passaggio a Roma

 

 

Le molte dimensioni
del servizio all'altro

 

di Joseph Sievers

 

Spesso il dialogo interreligioso presenta dimensioni tutt'altro che accademiche ed è fatto invece di condivisione concreta, di un sapersi immedesimare con l'altro e penetrare nel suo universo culturale e religioso al punto da aiutarlo a trovare la sua identità. L'autore di questa testimonianza insegna al Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma.

 

 

Tra    l'autunno  del  1989   e   la   primavera
del 1990 migliaia di immigranti sovietici sono venuti in Italia attraverso l'Austria. La maggior parte di essi erano ebrei o loro parenti. Il loro scopo era quello di riuscire ad essere accolti come profughi negli Stati Uniti, in Canada o in Australia. Però, dato che il tempo necessario per lo svolgimento di una singola pratica andava da due mesi a oltre un anno, si è verificato che nel solo territorio di Roma sono venuti a trovarsi contemporaneamente oltre 21.000 ebrei russi (normalmente la città conta circa 16.000 ebrei).

 

Tramite un mio amico in Austria, che aveva assistito molti emigranti in quel Paese durante la loro prima tappa in Occidente, fui presentato a diverse famiglie poco dopo il loro arrivo in Italia. Così, assieme ad altre persone che quasi tutte come me fanno parte del Movimento dei focolari andai a trovare queste famiglie nelle loro provvisorie abitazioni. Al primo approccio, nel fare conoscenza, abbiamo incontrato qualche difficoltà a causa del problema della lingua. Tuttavia un po' con l'inglese, un po' con lo yiddish, un po' col tedesco, a volte con un dizionario russo-italiano, e sempre con una tazza di ottimo tè russo, riuscivamo subito a stabilire il rapporto. A volte erano gli album di famiglia degli emigranti, con foto di Leningrado, Kiev, Charkov, Tashkent, a compensare la scarsa conoscenza del vocabolario.

 

Alle necessità principali degli emigranti provvedevano con molta cura parecchi enti caritativi, tra cui soprattutto due enti ebraici, l'American Joint Distribution Committee (JDC) e la HIAS. La JDC provvedeva l'indennità di sostentamento, l'assistenza sanitaria e sociale, l'alloggio provvisorio, programmi educativi, corsi di lingua, ecc.; mentre la HIAS si interessava di tutti i problemi riguardanti le pratiche di immigrazione. Anche la comunità ebraica di Roma aiutava notevolmente in tanti modi; tuttavia restava difficile curare dei contatti personali con un numero così elevato di emigranti.

 

 

 

Ascolto ed incontri:
un aiuto che non si può organizzare

 

Perciò abbiamo visto che era bene incontrare semplicemente quante più famiglie possibile, ascoltare, conoscere la vita da loro lasciata alle spalle, le loro speranze e attese per il futuro, i loro timori. Molti esprimevano la paura di tumulti nazionalistici e antisemiti in Russia. Molti, ancora, avevano da raccontare fatti circa la discriminazione anti-ebrea nel lavoro e nelle scuole. Spesso rivolgevano domande sull'Italia, circa le possibilità di alloggio temporaneo e lavoro, circa i pro e i contro dell'immigrazione nell'uno o nell'altro paese. Nella maggior parte dei casi non disponevamo di una risposta, ma anche il solo poter condividere con qualcuno problemi e incertezze significava molto per loro.

 

Anche se non abbiamo avuto molto successo nel procurare occupazioni adatte alle disponibilità degli emigranti, né alloggi migliori, le occasioni per essere utili a loro non sono mancate. Per esempio, due di noi hanno avuto occasione di portare una coppia di ebrei dell'Ucraina a una sinagoga di Roma e partecipare con loro al servizio del venerdì sera. Quella coppia ebrea non era mai stata in una sinagoga prima di allora. Non occorre dire che è stata un'esperienza indimenticabile per tutti e quattro. In parecchie altre occasioni dei seminaristi tedeschi nostri amici si sono offerti per condurre in macchina delle coppie anziane di Kiev e Tashkent per visitare la principale sinagoga di Roma e il suo museo. Le lingue per comunicare erano tedesco e yiddish. Oltre che venire a conoscenza di un luogo di preghiera e una storia, è anche stata una opportunità per conoscere l'altro e forse per superare preconcetti da ambo le parti.

 

 

 

A contatto col Papa
e con la comunità ebraica di Roma

 

Una famiglia ebrea ha chiesto di poter vedere il Papa. Sapevamo che non ci sarebbe stato difficile procurare loro dei biglietti per una delle udienze generali settimanali. Però si capì subito che c'era di più: infatti parecchie altre famiglie chiesero se potevano venire anche loro. Un bambino di sei anni scrisse persino di suo pugno una letterina al Papa, chiedendo di poterlo vedere. Per cui ci sembrò giusto informare l'ufficio del rabbino capo, così pure gli ufficiali incaricati per tale scopo della Chiesa cattolica. L'udienza ebbe luogo il 17 gennaio '90, data che la Conferenza Episcopale Italiana aveva scelto come giorno per approfondire e sviluppare il dialogo interreligioso ebreo-cristiano. Il gruppo di circa trenta persone ebbe i posti in prima fila a quell'udienza, a cui partecipavano oltre tremila persone. Il Papa si rivolgeva agli emigranti in russo e salutava molti di loro personalmente. Quell'incontro lasciava evidentemente una profonda impressione. Una persona disse che quella era stata la giornata più bella della sua vita.

 

Dopo l'udienza ci fu un semplice pranzo al Centro giovanile S. Lorenzo, preparato in parte dalle responsabili del Centro, in parte da volontarie del Movimento dei focolari. Il menu teneva conto delle regole ebraiche. Per parecchi emigranti quel pranzo è stato un'occasione per conoscersi sia tra di loro che con i loro ospiti, di scambiarsi storie ed esperienze, forse di sentirsi in qualche modo a casa.

 

Un membro della comunità ebraica di Roma, che ci aveva accompagnati all'udienza, mi mise in contatto con varie organizzazioni ebraiche. In seguito un gruppo mi chiese di radunare quindici emigranti russi, affinché potessero poi incontrarsi con altrettanti giovani ebrei romani, per una visita alla sinagoga e un pranzo al centro della comunità ebraica. Ci fu un vivace scambio di opinioni e una prima opportunità per la maggior parte degli italiani di incontrare personalmente ebrei russi, e viceversa. Vennero scambiati molti indirizzi e anche programmate visite da una parte e dall'altra.

 

 

 

Il contributo straordinario
di una parrocchia

 

Inoltre fu stabilito un contatto diretto, che poi ha avuto un ottimo risultato, con la JDC. In una stazione balneare a circa trenta chilometri da Roma, dove al momento culmine si trovavano varie migliaia di ebrei emigranti, la JDC aveva cercato di aprire una scuola, ma senza successo. Intanto la parrocchia del posto e la Caritas offrivano possibilità di organizzare programmi educativi, comprese lezioni gratuite di inglese. Dietro mio interessamento riuscii a far incontrare esponenti della Caritas e della JDC: il risultato fu che da allora per parecchi mesi la parrocchia ospitò una scuola per fanciulli ebrei russi, con insegnanti russi per tutte le materie, compresi Studi ebraici, e con la programmazione e lo stipendio per gli insegnanti a carico della JDC.

 

La stessa chiesa apriva anche la sua sala parrocchiale per la celebrazione del Purim: la prima per la maggior parte degli emigranti. Si invitò anche qualcuno a spiegare il significato del Purim ai giovani della parrocchia. La stessa sala veniva offerta per il Seder della Pasqua ebraica (cioè la cena pasquale). E quando si costatò che essa non era adatta, lo stesso parroco personalmente si dava da fare per trovare di meglio. Così pure quando una coppia anziana aveva bisogno di un alloggio provvisorio, la Caritas provvedeva a procurarglielo gratuitamente per parecchie settimane; mentre il viceparroco li aiutava per il trasloco.

 

 

 

Al di là di ogni confine

 

Questa parrocchia non è stata l'unica a prestare un aiuto. Varie parrocchie hanno preso contatto attivamente con gli ebrei, loro temporanei vicini: una di esse in stretta collaborazione con organizzazioni ebraiche.

 

Comunque sono rimasti particolarmente significativi i contatti con le singole famiglie. Una volta una famiglia russa fu invitata a una festa di compleanno. Accadde che vi partecipò anche una coppia palestinese di Gerusalemme. Fu un aprire gli occhi da ambo le parti. Il marito ebreo fu molto sorpreso che i primi israeliani che incontrava fossero degli arabi. Anche i palestinesi erano stupiti di incontrare gli ebrei come amici: per la moglie un incontro di quel genere era solo la seconda volta che le capitava nel corso della sua esistenza. Anche se questo fu solo una serata, tuttavia ci fu un profondo cambiamento di valutazione dell'altro da ambo le parti.

Spesso durante un pranzo o un tè sorgevano domande, come per esempio: Mio figlio fra poco compirà tredici anni. Ciò non ha qualche significato particolare nella tradizione ebraica?. Così sono stato invitato in più occasioni a spiegare il significato del Bar Mitzvah (cerimonia con cui un ragazzo, a tredici anni, diventa adulto e responsabile di osservare i comandamenti), delle feste di Chanukkah e della Pasqua ebraica, io cattolico a degli ascoltatori ebrei. Il dialogo interreligioso in questi casi forse ha significato aiutare l'altro a trovare la sua identità.

Entro l'autunno del 1990 la maggior parte degli emigranti erano partiti per la loro destinazione finale negli Stati Uniti, in Canada, o in Australia. Ma con ciò non sono cessati i contatti. Essi continuano in parte per posta, in parte tramite amici. Abbiamo fatto un tentativo, in tanti casi riuscito, di mettere i nuovi immigranti a contatto con amici ebrei e non, nel posto in cui essi ora si trovano. Uno mi ha scritto da New York: Grazie per i tuoi amici, che sono diventati anche nostri. Solo con loro ora ci sentiamo bene, perché i primi passi qui sono molto difficili.

 

Joseph Sievers