Effetti del carisma dell'unità nella vita di sacerdoti e seminaristi

 

 

Sacerdoti per il nostro tempo

 

di Hubertus Blaumeiser, resp. del centro per seminaristi dioc. aderenti al Mov. dei focolari

 

 

La Chiesa, “Corpo” e “Sposa” di Cristo, è vivificata dai sempre nuovi doni dello Spirito. Venendo dall'alto, questi trascendono spesso le capacità umane tracciando vie nuove che sono allo stesso tempo antiche come il vangelo. E' così dei vari carismi che la Chiesa ritiene adatti e utili alla sua vita, ed è stato così nell'esperienza del Movimento dei focolari che, a contatto con migliaia di preti e seminaristi, oltre che laici, è diventato per loro uno stimolo a riscoprire in una luce nuova il proprio battesimo e il proprio ministero. Sono ormai oltre 3.000 i seminaristi che in tutto il mondo vivono la spiritualità dell'unità.

 

Al posto di una sintesi, ancora un'esperienza. Non è però un'esperienza personale soltanto, ma realtà condivisa, con sfumature diverse, da migliaia di sacerdoti e oltre 3000 seminaristi in tutto il mondo.

Molti in questi giorni, si saranno chiesti: che cosa avete trovato voi, sacerdoti e seminaristi, che a un certo punto della vostra vita vi siete imbattuti nel carisma dell'unità?

Non è semplice dare una risposta, proprio perché si tratta di un dono di Dio, di qualcosa che Dio ha fatto; e allora le nostre parole e il nostro ragionare si rivelano insufficienti. L'operare di Dio è qualcosa che ci trascende, che spesso non corrisponde alle nostre attese, ed invece ci interpella e ci strappa verso orizzonti nuovi.

Più che fare un discorso bisognerebbe quindi raccontare. E questo è ciò che in questi giorni abbiamo cercato di fare. Ma possiamo ora almeno un po' tirare le fila? Possiamo tentare di rendere ancora una volta presente alla nostra mente qualche dimensione di quella svolta esistenziale - e diciamo pure: conversione - che è avvenuta per molti di noi quando, attraverso l'Ideale dell'unità, abbiamo riscoperto il vangelo?

Per fare una sintesi, a dire il vero, basterebbe semplicemente rifarci alla storia dell'Ideale dell'unità come Chiara l'ha recentemente raccontata ai giovani a Santiago de Compostela o a una qualunque presentazione dei punti evangelici in cui si snoda la spiritualità dell'unità. E sarebbe già tutto detto. Non è, infatti, che noi sacerdoti o seminaristi avessimo scoperto qualcosa di diverso dai laici. E questo è, semmai, segno di genuinità evangelica (il vangelo è uguale per tutti!) e ci colloca nuovamente là dove il ministero sacerdotale è nato: in mezzo al popolo sacerdotale - fratelli tra i fratelli, come ha voluto il Concilio (cf. LG 32), e non a parte o al di sopra.

Tuttavia l'Ideale dell'unità, entrando nel contesto della vita di noi sacerdoti e seminaristi, ha provocato anche delle prese di coscienza particolari ed è di queste che ora vorrei parlare.

 

 

 

Dimensione mariana del sacerdozio

 

Innanzitutto, a contatto con la spiritualità dell'Opera di Maria - così infatti la Chiesa ha voluto chiamare il Movimento dei focolari - abbiamo riscoperto la dimensione mariana del sacerdozio. E questo non tanto nel senso di una devozione speciale o di atteggiamenti particolari da assumere, ma nel senso che Maria ci concentra sull'essenziale: su ciò che fa Dio. Lasciando fare Dio ha compiuto l'opera più grande: ha donato Dio al mondo.

Donare Dio al mondo - l'opera sacerdotale per eccellenza ed allo stesso tempo ciò che nessuno può “fare”. Solo Dio può farlo quando noi come Maria gli offriamo la nostra disponibilità più assoluta, il “vuoto” trasparente della nostra volontà e della nostra intelligenza. Quale scacco ad ogni forma di attivismo! Quale scacco alla nostra pretesa di poter fare: “fare” il prete, “fare” pastorale, “fare” la chiesa! Ma forse proprio per questo la via, l'unica autentica via per riportare Dio nel nostro complesso mondo.

Ciò che urge oggi molto più del “fare” - e Maria ce lo insegna - è “essere”. Essere cristiani innanzi tutto. Mettere Dio al primo posto e posporre ogni altra cosa per Lui: i nostri programmi, i nostri beni, le comodità, l'affetto di una famiglia. Sì, ogni cosa: anche il sacerdozio, che - se è dono di Dio - non è però Dio. Solo essendo staccati da tutto siamo liberi per davvero, e allora in questa disponibilità assoluta, come in Maria, la Parola si può nuovamente far “carne” fino a quando, almeno un po', saremo vangeli viventi: poveri, puri, miti, obbedienti... in una parola: cristiani.

Guardando a Maria impariamo che possiamo dare agli altri solo ciò che abbiamo; che la fede - soprattutto oggi che sembra così difficile trasmetterla - non si comunica in astratto perché è una vita. Solo la vita suscita vita. “Via della vita”, ha definito Giovanni Paolo II la spiritualità dell'Opera di Maria, spiritualità a contatto con la quale impariamo a vivere il vangelo, prima di pensare di annunciarlo; e di annunciarlo facendo, per così dire, come il “pellicano” che si squarcia il petto per nutrire i suoi piccoli con la propria carne - antichissima immagine per significare l'eucaristia, il dono sacerdotale di Cristo -, offrendo cioè agli altri ciò che è nostro; ma non nostre idee, nostri progetti, il nostro volere: bensì il vangelo fattosi, almeno un po', carne in noi. “L'uomo contemporaneo - ha scritto Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi - ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (n. 41). Riscoprire oggi questa dimensione mariana, vitale del sacerdozio è fondamentale. Solo così i preti del 2000 saranno “profeti” e “sacerdoti”: persone che dicono e portano Dio.

 

 

 

Dimensione comunitaria del sacerdozio

 

Ma veniamo ad una seconda presa di coscienza fiorita per noi dal contatto con il Movimento dei focolari: la dimensione comunitaria del sacerdozio. Parlare qui di autentiche comunità cristiane, di effettiva comunione nel presbiterio e nei seminari, sarebbe già tanto, ed è quanto tutti desideriamo. Ma il carisma dell'unità ci porta oltre e ci fa prendere coscienza della grande svolta, che è in atto nella chiesa e nell'umanità, da un tipo di spiritualità prevalentemente individuale ad una spiritualità più comunitaria, evidenziandocene i cardini evangelici: Gesù nel prossimo, Gesù fra due o più, uniti per l'amore reciproco.

Gesù nel prossimo. Non possiamo qui soffermarci sulle importanti implicazioni di questa realtà se viene presa evangelicamente sul serio: sul fatto che con essa si aprono alla spiritualità tutti i campi della vita umana - dal lavoro alla ricreazione, dallo studio alla comunicazione - o sul fatto, ancora, che qui sta la chiave per raggiungere quella “unità di vita dei presbiteri” che il Concilio si è augurato (cf. PO 14) e che fa di loro non già degli uomini del sacro, ammirevoli ma poco imitabili, bensì la “forma del gregge”, esempi-tipo della vita cristiana (cf. 1 Pt 5, 3).

Ma basta qui ricordare semplicemente la svolta che è avvenuta nella nostra vita quando per la prima volta ci siamo resi conto che a contatto con qualsiasi prossimo in realtà siamo a contatto con Dio. Ne è nata per noi l'esigenza di un rispetto enorme per ogni uomo. E ci siamo ancor più convinti dell'assurdo di ogni forma di paternalismo tanto antipatico all'uomo moderno. Su Dio nel prossimo non si può, infatti, in alcun modo disporre; si può solo servirlo. E Dio non lo si può giudicare. Egli è sempre mistero; e mistero è ciò che è fra lui e ciascuno dei nostri fratelli. Dio in ciascuno ha le sue vie ed i suoi tempi che noi possiamo soltanto seguire, amando. Ecco, il sacerdozio come servizio, come lavanda dei piedi! Ed ancora il sacerdozio come dialogo spalancato su tutti, perché Gesù vive o vuol nascere in ogni uomo - sia esso vicino o lontano, cattolico, protestante, buddista, buon cristiano o peccatore.

Ciò è appena l'inizio. C'è l'altro cardine: Gesù in mezzo. La spiritualità dell'unità ci ha fatto prendere coscienza che amandoci in Cristo formiamo realmente un corpo. E con ciò ha fatto saltare i nostri concetti poco evangelici di “mio” e “tuo”, avviandoci per logica conseguenza alla comunione dei beni e - dov'è possibile - alla vita comune. E ci ha fatto comprendere che l'unità-base della coscienza cristiana non è solo l'“io” ma altrettanto il “noi”, facendoci così sentir “chiesa”, in unità coi vescovi e col Papa, nel senso più pieno: “Voi siete il corpo di Cristo, e ciascuno per parte sua membra di esso” (1 Cor 12, 27).

Anche qui la rilevanza per il ministero sacerdotale è immediata. Non esiste - ben considerando le cose - il sacerdote al singolare, se non uno solo: Gesù. Ed in effetti il Concilio ha parlato sempre al plurale dei sacerdoti. Gesù, l'Unico Sacerdote nei sacerdoti!

Ecco allora la sfida, ma anche la grande ed affascinante scoperta cui ci ha invitato il carisma dell'unità: lasciar rivivere fra noi Gesù, il Sacerdote. Far sì che sia Lui il parroco, Lui il Maestro, la Guida, la Luce: Lui fra parroco e vice-parroco, Lui fra i parroci, grazie al Comandamento Nuovo vissuto.

Dove è avvenuta questa scoperta scompaiono gli stili troppo personali nella pastorale; anzi ciò che fa ciascuno, diventa - come si è ancora augurato il Concilio - espressione dell'intero presbiterio attorno al vescovo (cf. PO 8); e la gente non si attacca più all'uno o l'altro dei sacerdoti ma unicamente al Cristo Risorto che, vivendo fra i sacerdoti e nella comunità, “trascina dietro a sé il popolo di Dio risorto”.

L'uomo di oggi, avido di libertà, rifiuta il potere clericale. Ma non è insensibile a questa trasparenza di sacerdoti in mezzo ai quali vive Gesù Sacerdote. “Anche questa - ebbe a scrivere Chiara - è l'ora sua: non tanto d'un santo, ma di Lui, di Lui fra noi, di Lui vivente in noi, edificanti - in unità d'amore - il Corpo Mistico suo”.Se questo vale per tutti, non meno vale per i sacerdoti.

 

 

 

Dimensione pasquale del sacerdozio

 

Una terza presa di coscienza che in molti abbiamo vissuto. Essa, in un certo senso, è la più profonda e più preziosa: la dimensione pasquale del sacerdozio.

La spiritualità dei focolari non ci ha mai nascosto il prezzo dell'unità, il segreto doloroso e gioioso di ogni vera comunione trinitaria che è poi l'essenza stessa della vita della chiesa: l'abbandono di Gesù in croce. E non poteva neppure sfuggirci il fatto che ogni volta che a Chiara è toccato di parlare del sacerdozio, ha parlato appunto di Gesù abbandonato.

Essere sacerdoti - lo sapevamo anche prima, ma l'ideale dell'unità ce l'ha sottolineato - significa diventare altri Cristo, diventare come lui sacerdote e vittima. Ecco, nella massima concentrazione, l'essere del cristiano e l'essere del sacerdote! Ecco, il sacerdozio riportato alla sua radicalità e completezza: con il Cristo in croce, generare la chiesa! “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12, 32), ha detto Gesù. E san Paolo riecheggia: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24).

L'ideale dell'unità, di fronte alle immani sfide del nostro tempo, ci fa guardare soprattutto a questo mistero. E così ci fa vedere con occhi nuovi quanto avviene nella nostra vita e nel mondo intero: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10). “Se il chicco di grano non cade in terra e muore, rimane solo. Se invece muore porta molto frutto” (Gv 12, 24). Vissuti alla luce di queste ed altre parole, i momenti più neri della missione sacerdotale diventano proprio i suoi momenti più forti; e i momenti in cui ogni sicurezza umana sembra svanire diventano, paradossalmente, i momenti di maggiore realizzazione ed identità, se è vero che, dopo Gesù, l'identità si realizza non più nell'affermazione, bensì nel dono di sé.

Quale cambiamento di mentalità! Ma anche quale possibilità di maturazione umana e spirituale! E quale capacità - così indispensabile oggi - di accoglienza e di dialogo in chi, da Gesù in croce, impara a “perdere” evangelicamente la propria vita (cf. Gv 12, 32), a non considerare un “tesoro geloso” quanto ha ricevuto (cf. Fil 2, 6). Per l'evangelizzazione, nel nostro mondo secolarizzato, questa dimensione pasquale del sacerdozio è di attualità tutta particolare. E la scoperta di Gesù abbandonato, che abbiamo fatto a contatto coi focolari, ce la schiude in tutta la sua profondità.

“Gesù abbandonato - ha detto Chiara un giorno ai sacerdoti - è il Dio di oggi”. Ed ha spiegato il perché di quest'affermazione dicendo che Gesù nell'abbandono sembra essersi in un certo senso ridotto quasi solo a uomo. Ma proprio per questo - ha spiegato Chiara in un'altra occasione - “parla” più facilmente ai non credenti, a coloro cioè ai quali non importa né la risurrezione, né il mondo futuro. Come Gesù in croce, per amore di noi, si è fatto maledizione (cf. Gal 3, 13), così occorrono oggi cristiani i quali, come crocifissi viventi, amino talmente questi fratelli da saper provare, come Gesù abbandonato, se così si può dire, la perdita di Dio per gli uomini. Allora questi atei - diceva Chiara - piano piano simpatizzano per questi cristiani che vedono uomini semplici ma interi, come vogliono essere loro. E dalla simpatia nasce il colloquio. E dal colloquio la comunione: cosicché il divino entra nelle loro anime e nella società.

Come chiave di volta del carisma dell'unità, l'abbandono di Gesù ci ha schiuso in maniera nuova il mistero pasquale e ne ha fatto la sfida quotidiana per noi, il metro su cui misurare la nostra vita, il nostro parlare ed agire, i nostri rapporti con Dio e con i fratelli. L'abbandono di Gesù - ne siamo convinti - dà scacco ad ogni sottile tentazione di clericalismo. E più ancora. Ci dona la chiave per impegnarci seriamente nella vita comune, affrontando positivamente le inevitabili difficoltà, ma anche per stare - quando occorre - da soli; per comprometterci fino in fondo con le nostre chiese locali, ma anche per partire - qualora la chiesa ce lo chiedesse - per qualunque parte del mondo; la chiave della vera libertà che ci fa comprendere e vivere nella gioia l'impegno del celibato.

L'unità, Gesù abbandonato, Maria. Ecco, appena abbozzato e certamente incompleto, quello che abbiamo scoperto noi sacerdoti e seminaristi nell'Opera di Maria. Tutto si potrebbe anche dire con una sola frase: mettere, a base del sacerdozio ministeriale, il sacerdozio mariano, il sacerdozio regale vissuto.

Invece che alienarci dalla nostra specifica vocazione, questa scoperta, ci sembra, ci ha resi più pienamente sacerdoti e seminaristi come la chiesa oggi li vuole. E ci ha posto davanti il sacerdozio di sempre, ma riscoperto con novità.

 

Hubertus Blaumeiser