Con la Chiesa, anche quando costa

 

 

Un si' pieno

 

di Andreas Tapken, Germania

 

 

Lungo il cammino di una vocazione, Dio sempre più la purifica e la radica in quello che ne è l'unico fondamento: Lui stesso. Diventa allora tutto relativo: le circostanze, i propri limiti, la propria cultura. Nasce invece una libertà impensata, assieme alla capacità di guardare al mondo e alla Chiesa - almeno un poco - con l'occhio di Dio.

 

Sono entrato in seminario nel 1984. Già tempo prima avevo conosciuto la spiritualità dell'unità. Anzi, posso dire che la mia vocazione è nata proprio dall'incontro col Movimento dei focolari. Mi aspettavo quindi, entrando in seminario, un approfondimento sia del mio desiderio di dare la vita radicalmente a Dio, sia dell'esperienza di un cristianesimo vissuto insieme, in comunione.

La realtà è stata un po' diversa, e non solo attorno a me, ma ben presto anche dentro di me. Pur essendo ognuno seriamente impegnato in un cammino spirituale, avvertivo come in quell'ambiente tante altre cose avevano importanza: i problemi del seminario, la liturgia, lo studio, il sacerdozio, ecc. Non voglio dire che non siano importanti, ma ho sperimentato quanto sia facile che oscurino la trasparenza e la bellezza di quella scelta di Dio solo che è davvero la cosa più importante.

Ero un po' deluso, ma non mi sono arreso. Anzi, ricordo come per qualche mese - pieno di zelo apostolico - andavo dall'uno all'altro per dirgli che a mio avviso non si era forse ancora capito la cosa più importante del cristianesimo. E ne ero convinto.

Poco a poco però mi accorgevo che anch'io come tanti altri non ero immune dall'individualismo e dal consumismo del mondo attorno e che anche per me c'erano cose che, accanto o addirittura prima di Dio, prendevano un rilievo assai grande: io, per esempio, mi ero buttato a capofitto nello studio e mi ero fatto una bella biblioteca.

In quel tempo mi incontravo regolarmente con altri seminaristi che come me avevano conosciuto la spiritualità dell'unità. E' stata quella un'ancora di salvezza: insieme cercavamo di impegnarci nelle faccende del seminario, di aiutare altri seminaristi in difficoltà... , ed allo stesso tempo di richiamarci sempre di nuovo alla nostra scelta fondamentale, di vivere cioè per Dio.

Sentivo, durante quegli anni, come una lacerazione dentro di me: da una parte desideravo sinceramente donarmi a Dio con tutte le conseguenze, dall'altra avevo però l'impressione di essere ancora legato a tante cose e di trascinarmele dietro come un peso.

Dopo due anni, come è da noi consuetudine, ho lasciato per qualche tempo il seminario. Avevo avuto l'invito di passare quel tempo nei pressi di Roma nel cosiddetto “centro gens” - la segreteria internazionale che tiene i contatti con i seminaristi che, nei vari seminari del mondo, vivono la spiritualità dell'unità - e l'ho accettato con gioia. Ero contento, infatti, di poter conoscere ancora meglio questo spirito. E volevo innanzi tutto approfondire la mia scelta di Dio ed imparare a viverla insieme ad altri.

Sono seguiti due anni - per vari motivi - importantissimi, che sono stati per me un continuo aprire gli occhi ed allargare il cuore. Vivere insieme con un coreano, un italiano, un argentino, un africano... mi faceva scoprire le bellezze di altre culture e contemporaneamente mi rendeva più conscio dei limiti dello stile di vita e della società da cui provenivo. Pur essendo persone tanto diverse e non essendoci scelti l'uno l'altro, grazie al vangelo vissuto insieme si è creato fra noi un legame che era più profondo e stretto di quello che avevo sperimentato in famiglia.

Il frutto forse più importante di quei due anni è stato aver visto e sperimentato che l'unità è davvero possibile. Certo, poter fare quest'esperienza in un primo momento mi è pure costato: dovevo lasciare dietro a me uno stile di vita consueto, le abitudini della mia famiglia, certe idee a me care, la cerchia dei miei amici... Ma per dire la verità: non mi è stato troppo difficile. Perché proprio così si schiudeva un'esperienza fino ad allora solo sognata: la libertà e la gioia di avere Dio solo assieme ad una pienezza che è difficile descrivere.

Nel 1988 sono tornato in seminario: pieno di slancio, col fermo proposito di non lasciarmi sfuggire mai più quest'esperienza così preziosa e con il desiderio di condividerla il più possibile con i compagni. Ben presto però sono rimasto preso da un certo scoraggiamento: la situazione in seminario non solo non era cambiata, ma era diventata - così almeno mi sembrava - ancor più difficile. Inoltre la Chiesa in Germania in quel periodo stava attraversando, per diversi motivi, un momento non facile ed era più che mai polarizzata. Non c'era poi da illudersi di fronte a situazioni eloquenti come quella di una città come Amburgo dove solo il 2% della popolazione ha ancora un contatto con la Chiesa.

 

 

 

Incontro, nella luce,

coi dolori della Chiesa

 

Quella che vedevo attorno a me era una Chiesa in difficoltà, alquanto stanca e qualche volta... quasi morta. Sentivo dentro di me un dolore forte e fino ad allora sconosciuto nel pensare il mio futuro in una Chiesa così ferita, così priva di attrattiva, e per mesi non sapevo che fare. A volte tutto mi pareva buio ed assurdo. Non capivo più perché Dio mi avesse chiamato al sacerdozio. Pensavo allora di lasciare il seminario.
A questo punto mi è stato di grandissima luce un cardine della spiritualità dell'unità che mi si sarebbe dovuto schiudere con nuova profondità: Gesù abbandonato in croce. Già avevo trovato in Gesù, che nel suo abbandono sembra rispecchiare tutto il negativo che un uomo possa sperimentare, la via per vivere con i miei limiti e per scoprire Gesù anche nel fratello che soffre. Ora si trattava di scoprire ed amare Gesù abbandonato in ogni dolore della Chiesa, in ogni sua ferita e ruga. Ne è nato per me un rapporto con la Chiesa completamente diverso che me l'ha fatta guardare con occhi nuovi. Capivo allora che forse era stato proprio Dio a farmi fare quest'esperienza, liberandomi così da quella visione forse ancor troppo superficiale che avevo avuto della Chiesa, del Corpo di Cristo.

Non è che quei problemi che prima mi soffocavano ora non ci siano più. Ma vedendovi Gesù abbandonato, li posso guardare in faccia, e non rimango nell'illusione. E soprattutto, in Lui, ho trovato una libertà nuova: posso sempre amare!

 

Andreas Tapken