Sacerdote, al di là della crisi esistenziale

 

 

Se ami, vedi

 

di Enrique Cambón, Argentina

 

 

Enrique Cambón, sacerdote argentino, racconta la sua esperienza iniziata negli anni della contestazione del '68. Per lui, come per tanti altri, in quel periodo nessuna ideologia teneva e neanche la fede mostrata con parole o con serie argomentazioni lo ha convinto. Ad essere decisiva è stata la convivenza con alcuni focolarini, prima in Argentina e poi in Italia nella cittadella di Loppiano. Scoprendo la forza vitale del vangelo, in quella “Mariapoli permanente” ha trovato la la luce e il coraggio per lanciarsi di nuovo e fino in fondo nell'avventura di servire la Chiesa.

 

Ero uno dei dirigenti nazionali dell'Azione Cattolica in Argentina, quando ho sentito la chiamata a donarmi totalmente a Dio nel sacerdozio. Sono entrato in seminario nel '62 e dopo un anno ho incontrato un focolarino, uno dei primi che avevano seguito Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei focolari.
Ricordo nitidamente l'impressione provocata dai primi incontri con lui e con i suoi compagni: Dio per loro era così concreto, reale, presente, come mai lo era stato per me. Mi colpiva anche il loro modo di parlare del vangelo. Io lo conoscevo bene, lo leggevo ogni giorno, ma non avevo mai pensato che fosse possibile attuarlo nel quotidiano. Quei giovani focolarini nella loro semplicità e col loro esempio mi aprivano la strada, aiutandomi a trasformare in vita le parole di Gesù. Mi piaceva e mi attraeva poi tantissimo come essi vivevano proiettati nel rapporto con gli altri, mettendo al centro della loro vita l'unità.

C'era però nella loro vita una realtà di cui non riuscivo a cogliere il significato: Gesù nel suo abbandono in croce. Tanto che, dopo due anni da quel primo incontro, mi chiesi onestamente se era il caso di continuare questi contatti con loro che consideravano Gesù crocifisso e abbandonato come la chiave e il centro della loro esistenza, mentre per me quelle parole del Cristo in croce risuonavano come semplici affermazioni senza alcun legame con ciò che vivevo.

A questo punto entrai in una profonda crisi di fede. Studiavamo in filosofia le prove razionali dell'esistenza di Dio. Ma più cercavo di approfondire più crescevano in me i dubbi e la confusione. Anche se agli esami ottenni il massimo dei voti, non riuscivo più a credere e mi resi conto che, continuando così, avrei dovuto abbandonare il cristianesimo.

Andai a parlarne con quel focolarino che avevo conosciuto per primo. Egli mi ascoltò per quattro ore senza dir parola e alla fine mi disse: “Enrique, Gesù non è venuto a portare un sistema di idee, ma una vita, che poi dà tanta luce anche all'intelligenza. Se tu vuoi capire se il cristianesimo è vero, non ti basta studiarlo, devi farne un'esperienza vitale”. E mi parlò di Loppiano come il luogo più adatto in quel momento per fare un tentativo in questa direzione. Ne parlai col mio vescovo e questi, davanti al pericolo in cui mi trovavo di abbandonare la fede, mi lasciò andare.

I primi mesi a Loppiano furono molto difficili. Non avevo niente contro l'esperienza davvero stupenda che lì si viveva, anzi pensavo: “Quando avrò lasciato tutto, ogni volta che incontrerò una persona in cerca del vero senso della vita, le dirò di venire qui a conoscere queste persone, perché io non ho mai visto un altro gruppo umanamente così realizzato”. Ma questo a me non serviva, non potevo fabbricarmi una bugia solo perché bella.

Un giorno venne a parlarci Chiara Lubich. Trovavo così attraente e importante per l'umanità il cristianesimo che lei proponeva da farmi venire le lacrime agli occhi, mentre dicevo a me stesso: “E' così bello che meriterebbe di essere vero... Peccato che non lo sia!”.

 

 

 

Perchè Dio fosse in noi...

 

Tra le tante realtà trovate nella Mariapoli di Loppiano, due mi aiutarono in maniera determinante. La legge di questa cittadella è l'amore scambievole e chi vi rimane si impegna a viverla. Io allora mi dissi: “Un giorno andrò via da qui e lascerò tutto, ma mentre abito in questa cittadella devo stare alle regole del gioco: metto da parte tutti i miei problemi di fede e voglio lanciarmi nel condividere le gioie e le preoccupazioni degli altri”. E' stato il primo passo, un passo fondamentale, non solo perché ha salvato il mio equilibrio psichico dopo anni di terribili sofferenze, ma anche perché mi ha aiutato a vedere... Ho cominciato infatti a sperimentare quel che dice il vangelo: “ A chi mi ama, mi manifesterò” o “Chi ama conosce Dio”.

Man mano che andavo avanti in questa esperienza di amore concreto ai fratelli, si faceva luce dentro di me e cominciavo anche a capire Gesù crocifisso e abbandonato come misura dell'amore: “Amatevi come io vi ho amato”. In quei giorni mi capitò tra le mani una meditazione di Chiara Lubich su Gesù in croce che dice:

“Perché avessimo la Luce, ti venne meno la vista.

Perché avessimo l'unione, provasti la separazione dal Padre.
Perché avessimo la Sapienza, ti facesti ignorante.
Perché ci rivestissimo dell'innocenza, ti facesti peccato.

Perché Dio fosse in noi, lo provasti lontano da Te”.

Sentii il bisogno di portarmi davanti al tabernacolo per dire a Gesù: “Sì, ho capito. Questa è la misura del vero amore. Sono disposto ad amarti così, senza vedere, senza sentire niente per tutta la vita. Se tu mi lasci nelle tenebre, io potrò impazzire; ma anche il tuo abbandono sulla croce è stata una pazzia. Dammi di amarti così, trasformando ogni mio dolore in amore per gli altri...”.

In quel momento tutto quello che prima era negativo diventava positivo perché mi ricordava Lui nell'abbandono.

Dopo quel periodo di permanenza nella Mariapoli di Loppiano tornai in seminario, portando con me quella realtà nuova che avevo sperimentato: il regno di Dio su questa terra. Ciò rafforzava in me la fede che esso sarebbe continuato anche dopo questa vita e mi dava la gioia di accettare la chiamata al sacerdozio. Da allora sono convinto che Dio, avendoci creati per l'amore, non cede. Se ami, vedi; se ti fermi e cessi di amare, non riesci più a vedere. Come dice Sant'Agostino: “Tu vedi la Trinità, quando vedi l'amore”.

 

Enrique Cambon