Perché la carità non sia utopia

 

 

Il segreto dell'unità - Gesù crocifisso

e abbandonato

 

di Aldo Stedile, incaricato del Movimento dei focolari per l'ecumenismo

 

 

E' dal mistero della croce che il cristianesimo trae tutta la sua forza. E come il singolo cristiano non può reggersi se non sul continuo passaggio dalla morte alla vita, così ogni sforzo di comunione. Aldo Stedile, uno dei primi focolarini, illustra come la scoperta dell'abbandono di Gesù in croce, avvenuta agli albori del Movimento dei focolari, sia diventata la chiave di volta e il segreto dell'ideale dell'unità. Riportiamo qui la trascrizione leggermente rielaborata dell'intervento.

 

Si è approfondita, in questi giorni, quella chiamata all'unità che sta al cuore dell'esperienza dell'Opera di Maria e alla quale cerchiamo di rispondere istaurando il più possibile l'amore scambievole non solo fra noi ma in tutta la Chiesa e l'umanità. E' questo il nostro apostolato e la testimonianza che vogliamo dare attraverso tutte le diramazioni del Movimento, secondo la preghiera di Gesù: “Tutti siano una sola cosa: come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda...” (Gv 17, 21), e secondo quell'altra espressione di Matteo: “Dove sono due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20).
Tutta la nostra spiritualità è incentrata su una convinzione fondamentale: il Risorto, la Trinità stessa può vivere in mezzo agli uomini se si vive l'amore reciproco. Questa presenza dà senso a tutto quello che facciamo. La nostra vita, altrimenti, sarebbe vana e vuota.

Essere uniti nel nome di Gesù, nella nostra esperienza, ha sempre significato fare propria la sua volontà, rimanere nel suo amore; essere pronti a dare la vita l'uno per l'altro, così come Lui ha fatto. Ecco perché consideriamo Gesù crocifisso e abbandonato come l'unico modello dell'amore e dell'unità.

La scoperta di Lui come chiave all'unità risale a un fatto di quelli che noi chiamiamo “i primi tempi”.

Siamo nel 1944, nella città di Trento: il Movimento - o meglio, quella corrente di vita nuova che più tardi si sarebbe configurata come un movimento - era appena nato. Una delle prime compagne di Chiara, Doriana Zamboni, aveva contratto un'infiammazione al viso. Costretta a stare a casa e non potendo andare a scuola, era spesso in compagnia di Chiara che si era offerta di aiutarla nelle ripetizioni delle materie scolastiche. Un giorno, dal momento che la situazione si era aggravata e Dori non sarebbe potuta uscire per andare a messa, Chiara chiamò un padre cappuccino per portarle la comunione. Mentre Dori faceva il ringraziamento, quel sacerdote domandò a Chiara quale era stato, secondo lei, il momento nel quale Gesù aveva sofferto di più durante la sua passione. Ella rispose d'aver sempre sentito dire che era stato il dolore patito nell'orto degli ulivi. Ma il sacerdote: “Io credo, invece, che sia stato quello in croce, quando ha gridato: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Questa risposta fu per Chiara come un fulmine a ciel sereno. Non era solo una intuizione, ma l'inizio profetico, la Parola che sarebbe divenuta la radice di tutta l'Opera di Maria. Appena il sacerdote aveva lasciato la casa, Chiara disse a Dori: “Se il più grande dolore di Gesù è stato l'abbandono da parte del Padre suo, noi lo scegliamo come Ideale e lo seguiamo così”. E Dori, raccontando quel momento, ricorda l'effetto che le facevano queste parole: “Le mie povere piaghe sul volto che m'apparivano ombre del suo dolore, mi davano gioia perché mi facevano un po' simile a lui. Da quel giorno Gesù abbandonato è divenuto il personaggio vivo della nostra esistenza”.

Quando nel 1951 noi focolarini siamo andati ad abitare, a Trento, in quello che era stato il primo focolare femminile, tra le cose che Chiara e le sue prime compagne ci avevano lasciato, abbiamo trovato un quadro di Gesù abbandonato dietro al quale Chiara aveva scritto: “Non moriar, sed vivam et narrabo opera Domini” (Sal. 118, 17). Questa frase divenne il motto della nostra vita di quel tempo. E come le focolarine, anche noi, prima di iniziare le nostre giornate, dicevamo: “Eccomi. Perché sei abbandonato voglio vivere per te momento per momento questa giornata”. Ancora oggi i focolarini cominciano così la propria giornata, puntando subito all'essenziale.

Un altro momento di luce della nostra storia è stato l'estate del 1949, quando per la prima volta siamo andati a trascorrere insieme qualche giorno di vacanza nelle Dolomiti. Furono poche settimane che, per l'esperienza intensissima della presenza di Gesù in mezzo a noi, furono momenti di paradiso così affascinanti che non volevamo più discendere da quel piccolo paese di montagna. Ma Chiara, ricordando la scelta di Gesù abbandonato che aveva fatto - e che tutti noi avevamo fatto con lei - capì che dovevamo “perdere” quel paradiso, per viverlo con tutti coloro che avremmo incontrato nelle città che ci attendevano. E proprio in quell'occasione Chiara scrisse quel famoso testo che è divenuto per noi come una magna charta: “Ho un solo Sposo sulla terra, Gesù crocifisso e abbandonato. Non ho altro Dio fuori di lui. In Lui è tutto il paradiso con la Trinità e tutta la terra con l'umanità” (cf. Scritti Spirituali/I, Roma 1978, p. 45). Più tardi quel testo avrebbe preso come titolo l'espressione di S. Paolo: “Non conosco che Cristo, e Cristo crocifisso” ( cf. 1 Cor 2, 2).

Noi non vogliamo, quindi, solo il Dio delle consolazioni, della gioia, della fraternità: il nostro Dio è il Dio dell'abbandono.

 

 

 

Il dolore nel piano della salvezza

 

Gesù avrebbe potuto salvare il mondo in tanti modi. Si sarebbe potuto presentare come grande filosofo, portatore di una saggezza nuova, come grande politico, o altro ancora. Ha scelto invece la via della croce, del dolore, la via comune di tutti gli uomini. La “vocazione” di Gesù, la sua “missione”, mi sembra sia espressa molto bene da un versetto del vangelo di Giovanni: “Ora l'anima mia è turbata, e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome” (Gv 12, 27). La vocazione di Gesù è venire a patire per gli uomini.

Come suoi discepoli non possiamo essere da più del maestro e la nostra via non può essere altra che la sua. E' Gesù stesso a ricordarcelo: “Chi non prende la sua croce e mi segue non può essere mio discepolo” (Lc 14, 27). Non esiste allora discepolo di Gesù che non abbia fatto la scelta della croce. D'altra parte la sofferenza di Gesù dà senso e significato alla sofferenza dell'uomo. Afferma Giovanni Paolo II, nella sua Lettera Apostolica Salvifici Doloris dell'84, che “nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta” (n. 19). Anzi “anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo” (ibid.). Sono pensieri che ripropongono la nota espressione di S. Paolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24).

I santi, in ogni tempo, sono stati quelli che hanno colto meglio la “sapienza della croce”. Essi sono per noi esempi luminosissimi, fari sempre accesi, modelli a cui guardare.

Splendida questa lettera di un martire del nazismo, il gesuita tedesco P. Alfred Delp, indirizzata dal carcere a un suo nipote che doveva essere battezzato: “Caro Alfred Sebastian, è molto ciò che l'uomo deve compiere nella sua vita. Carne e sangue solamente non riescono. Se ora fossi a Monaco, verrei a battezzarti, cioè ti farei partecipe della dignità di Dio, alla quale siamo chiamati. L'amore di Dio, una volta in noi, ci nobilita e ci trasforma. Da quel momento siamo più che uomini; è a nostra disposizione la potenza di Dio. Dio stesso vive la nostra vita assieme a noi, e ciò deve continuare e accrescersi sempre, figliolo. Dipende anche da questo se un uomo ha un valore definitivo o meno... T'ho scritto queste cose con le mani incatenate; non voglio lasciarti in eredità queste mani incatenate, ma ti auguro di ricevere in modo più bello, più dolce e più sereno la libertà che porta queste catene e che in esse rimane fedele a se stessa”. E' questa la chiamata di ogni battezzato: divenire simile a Gesù.

In mezzo a noi, anche oggi, vivono autentici testimoni di questa realtà che nasce dalla croce di Cristo. Un giorno un nostro amico, a Monaco di Baviera, ha dovuto sottoporsi a delle analisi in seguito a forti disturbi allo stomaco. Quando il medico gli comunicato che aveva un tumore già in stato avanzato e che gli sarebbero rimasti pochi mesi di vita, Dis - così lo chiamavamo - ha detto con gioiosa serenità: “Allora comincia l'ascesa!”. Aveva capito cosa significa unirsi a Gesù, portando la croce ogni giorno.

Così è stato anche per Marilen, una delle prime focolarine, che ha trovato la forza di dire con gioia il suo sì a Gesù abbandonato nella terribile malattia che la consumava lentamente. Quando Chiara è andata a trovarla e le ha detto: “Marilen, è Gesù abbandonato”, lei ha risposto: “Sono io Gesù abbandonato”. Era veramente riuscita ad identificarsi con Gesù in croce.

Un nostro amico in Toscana, Giovanni Belli, colpito anch'egli da tumore si era preparato per la sua partenza con la moglie e i figli. Al parroco che era andato a trovarlo pochi giorni prima della sua morte, aveva detto: “Mi raccomando, don Rocco, al funerale non mi celebri una messa da morto; io voglio una messa di festa...”.

Aderendo con la vita al mistero di dolore e di abbandono di Gesù crocifisso, il cristiano può comprendere un'espressione come quella di S. Francesco di Sales il quale diceva che, se gli angeli potessero invidiare gli uomini, lo farebbero per due motivi: primo perché Dio ha patito per loro, secondo perché essi possono patire per Dio.

 

 

 

Qualche suggerimento pratico

 

Ma come vivere, concretamente, questa scelta che contraddistingue i veri cristiani?

Spinte dal desiderio di unirsi a Lui, le prime focolarine, dopo la scoperta di Gesù abbandonato avvenuta nella casa di Dori, hanno cercato di riconoscerlo ed amarlo in tutti i dolori personali e dell'intera umanità: in ogni tensione o difficoltà, nei propri sbagli, nell'odio e nella distruzione della guerra, nei poveri, negli ammalati, nei prigionieri, negli atei. Ed oggi potremmo aggiungere: nelle offese alla dignità umana, nel commercio della droga, nello sfruttamento dei popoli del terzo e del quarto mondo, nella divisione dei cristiani.

Quando si incontrano queste ed altre croci, è inutile perdersi in lamenti, denunce e considerazioni, per quanto fondate. L'unico modo per reagire da veri cristiani al negativo nostro e a quello del mondo è di farne una pedana di lancio. C'è quasi una “ tecnica” che Chiara in questi anni ci ha insegnato a questo proposito e che passa per varie tappe: innanzitutto raccogliersi, guardare bene in faccia alla difficoltà che nel momento si presenta, chiamarla per nome: insuccesso, timore, offesa, malattia. Ma non basta. Occorre poi chiamarla col suo vero nome: Gesù in croce, l'Abbandonato; e quindi dire a Dio in uno slancio d'amore: “Lo accetto, lo voglio”.

Abbracciare in questo modo ogni abbandono non significa abbracciare un “tronco di legno”, ma è l'incontro con una persona: il Figlio di Dio che, nascosto dietro ogni dolore, ci dice: “Non temere! Sono io”. Possiamo allora essere felici di essergli un po' simili e dirgli anzi che siamo contenti di versare la nostra goccia di sofferenza nel mare della sua passione.

Chiara ci ha sempre detto che “sopportare” la croce è una parola che il cristiano non dovrebbe conoscere e ci ha invece insegnato ad amare Gesù abbandonato, a fargli festa ogni volta che si presenta. Una persona amata non si sopporta, ma si attende.

“Quando mi alzo la mattina - ci ha spiegato una volta il vescovo di Aquisgrana, mons. Klaus Hemmerle -, mi dichiaro subito pronto ad accoglierlo in ogni abbandono che il giorno che si apre mi potrà portare. Naturalmente non so quale sarà, ma so che Gesù abbandonato verrà a trovarmi, in un modo spesso imprevisto: in qualche difficoltà, in una delusione, forse anche in un mio sbaglio o in qualche notizia particolarmente grave o dolorosa. E allora gli dichiaro sin dal mattino che può senz'altro venire, che lo aspetto con gioia, che gli voglio addirittura preparare una festa”.

L'importante è non bloccarsi, non aspettare che tutto vada a posto per rilanciarsi. Appena detto il nostro sì a Gesù abbandonato bisogna mettersi subito ad amare, compiere bene la volontà di Dio di quel momento. Chiara a questo proposito ci ha spesso ricordato quale è la vera realtà del dolore: non è una stanza nella quale soggiornare, ma è una soglia, una porta attraverso la quale giungere alla “stanza” dell'amore di Dio. E allora il dolore si trasforma in amore, in gioia, in serenità, sicurezza, in generoso servizio agli altri.

 

 

 

Gli effetti della vita con Gesù crocifisso ed abbandonato

 

Vivendo nella disposizione di rimanere fedeli a Gesù crocifisso ed abbandonato, ci si apre sempre più ai doni dello Spirito. Il cristiano che si unisce alla morte di Cristo, infatti, partecipa non solo della sua resurrezione ma anche del suo Spirito. Dice il card. Ratzinger: “La fonte dello Spirito è Cristo crocefisso. Ma grazie a questi, è fonte dello Spirito ogni cristiano”.

La croce e l'abbandono di Gesù sono inoltre la più efficace scuola delle virtù. Basti pensare ai tre consigli evangelici. Nessuno li ha vissuti come Gesù in croce, che si è privato di tutto per arricchirci della vita immortale; che ha fatto della volontà di Dio, il suo cibo quotidiano, fino a morire per noi; e che nella sua più amara solitudine ha dichiarato la sua totale fedeltà al Padre: “Padre nelle tue mani affido il mio Spirito” (Lc 23, 44).

La croce e l'abbandono di Gesù sono, ancora, la vera fonte della gioia cristiana, quella gioia che nessuno può turbare. Bellissima a questo riguardo una pagina di Vittorio Bachelet, personaggio di primo piano della magistratura italiana, assassinato dai terroristi nel febbraio dell'80. Commentando il sacrificio di Martin Luther King, Bachelet scrive: “Per donare più gioia non vi è che un segreto: partecipare al mistero della salvezza della croce, della resurrezione, della morte che dà vita... perché ogni cristiano che pur fatto segno di ostilità e di odio, dà la sua vita per i fratelli nell'amore e nella pace, partecipa in qualche modo al sacrificio redentore di Cristo. Per essere gioia del mondo non dobbiamo chiedere al Signore di scendere dalla croce, ma di salirvi con Lui. Allora ci libereremo dall'uomo vecchio... per annunciare che Dio si è fatto veramente uomo, è morto e risorto per la salvezza degli uomini...”.

Allo stesso modo, infine, la croce e l'abbandono di Gesù sono fonte di unità. Nella sua visita in Germania del 1980 Giovanni Paolo II disse ai cattolici della Westfalia: “L'unità dei cristiani non può evitare la croce, l'unità avviene sotto la croce”. Il Papa faceva riferimento all'unità fra le chiese, ma l'affermazione è valida per ciascuno di noi e per qualunque nostro rapporto. Se non siamo costantemente inchiodati in croce con Gesù, il nostro egoismo imperversa e l'altro non ha posto nel nostro cuore e nella nostra vita. E' per questo che anche nel lavoro di riavvicinamento delle chiese non si può cominciare, come ricordava il card. Bea, che dall'ecumenismo spirituale, e cioè dalla conversione personale, lasciandosi cioè trasformare dalla croce e dall'amore di Dio.

Nel vangelo di Giovanni si legge: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Dunque, è vivendo continuamente con Gesù il mistero della sua croce, che potremo essere con Lui anche fonte del suo Spirito, della sua gioia, dell'unità, di quell'unità che fa di noi il suo “Corpo” sulla terra.

 

Aldo Stedile