Un'autorevole panoramica tracciata dal sottosegretario del Pontificio Consiglio per l'Unione dei Cristiani

 

 

Il dialogo teologico fra

Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa

di Mons. Eleuterio F. Fortino

 

Nel corso di appena dieci anni di dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, si sono raggiunti numerosi e considerevoli risultati. Ne ha offerto una preziosa sintesi, alla quarta “Scuola ecumenica” del “Centro Uno” del Movimento dei focolari, Mons. Eleuterio F. Fortino, segretario per la parte cattolica della commissione mista cattolico-ortodossa che porta avanti questo dialogo a nome delle rispettive Chiese. Riportiamo qui, col gentile permesso dell'autore, la trascrizione dell'intervento tratta dalla registrazione.

Quanto ha detto stamattina il Metropolita Bartolomeo di Calcedonia e quello che immagino sia stato detto ieri, costituisce il fondamento su cui si basa il poco che dirò. E' perciò nella prospettiva indicata questa mattina dal Metropolita che io stesso parlerò.

Il dialogo cattolico-ortodosso si inserisce in quell'avvenimento che ha concluso il Concilio Vaticano II: l'abrogazione delle scomuniche fra Roma e Costantinopoli. Quest'anno è il decimo anniversario dell'inizio del dialogo teologico - strutturato da una commissione mista - fra la Chiesa cattolica e tutte le Chiese ortodosse. In effetti la prima riunione di questo dialogo ha avuto luogo a Patmos - Rodi, alla fine di maggio del 1980. Siamo quindi proprio nel X anniversario.

La dottoressa Gabriella Fallacara ha detto poco fa - riferendosi al filmato della sessione di studio dello scorso anno - che era impossibile riassumere una sessione di tre giorni in trenta minuti. Spero che nessuno di voi attenda da me che riassuma dieci anni di conversazioni in 10 minuti! Dirò qualche cosa.

Va sottolineato, innanzi tutto, che è la prima volta nella storia che la Chiesa cattolica si trova in dialogo con tutte le Chiese ortodosse insieme. La valutazione di questo fatto è importante proprio per vedere poi, all'interno del dialogo, il progresso che si fa, progresso sostanziale in tempi relativamente brevi. Perché maturi una situazione che l'estraneamento reciproco aveva portato ai limiti della contrapposizione, oggettivamente si richiede del tempo.

La commissione mista, per raccogliere tutte le istanze di questo dialogo, è composta da 56 membri, 28 ortodossi e, di conseguenza, 28 cattolici. Perché 28 ortodossi? Perché le Chiese partecipanti a questo dialogo sono 14 e ogni Chiesa partecipa con due delegati. Ci sono in più due segretari, uno cattolico e uno ortodosso, che oggi sono qui presenti.

La commissione mista si è incontrata già in 5 sessioni plenarie. Ma essa non lavora soltanto nelle commissioni plenarie. Tra una sessione e l'altra si riuniscono tre sottocommissioni paritetiche e anche un comitato di coordinamento misto che, come dice il nome, coordina il lavoro, non solo pratico ma teologico. Perciò la commissione presenta un ingranaggio abbastanza complesso, ma fino ad ora ha mostrato di poter lavorare con efficacia e perseveranza, e con risultati, che ritengo positivi.

 

 

 

Preparazione al dialogo

 

Prima che incominciasse il vero e proprio dialogo, avevano avuto luogo tutti quegli avvenimenti - di cui alcuni sono stati segnalati questa mattina dal metropolita Bartolomeo di Calcedonia - che costituiscono quel “dialogo” noto come “dialogo della carità”. Vale a dire la ripresa dei rapporti fra la Chiesa cattolica e tutte e singole le Chiese ortodosse, in particolare con il Patriarcato ecumenico.

Il periodo del dialogo della carità ha preparato gli spiriti e ha orientato l’attenzione tanto dei cattolici quanto degli ortodossi verso l’esigenza di aprire anche un dialogo teologico, cioè un dialogo strutturato che discuta ciò che fa sì che la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse non siano ancora in piena comunione.

In questo periodo è emerso tutto ciò che abbiamo in comune. E’ nota l’espressione di Paolo VI che fra cattolici e ortodossi la comunione è tanto profonda che poco manca per essere piena. Ma quel “poco”, nella nostra visione, nel desiderio di tutti, deve scomparire. Dobbiamo arrivare a quel giorno in cui, come si è detto parlando dello scopo del dialogo teologico, si potrà celebrare insieme la santa eucarestia. Cioè il giorno della celebrazione della piena comunione.

Il periodo di preparazione ha avuto un secondo momento più tecnico, in cui si è studiato insieme come organizzare il dialogo: su che cosa si sarebbe svolto ed in che modo.

Queste idee si trovano concordate in un documento dal titolo “Piano per l’avviamento del dialogo fra cattolici e ortodossi”.

Lo scopo del dialogo vi è così descritto: “Scopo del dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa è il ristabilimento della piena comunione fra queste due Chiese. Questa comunione fondata sull’unità di fede nella linea dell’esperienza e della tradizione comune della Chiesa antica, troverà la sua espressione nella celebrazione della santa eucarestia”.

Questa descrizione dello scopo è già il primo grande risultato del dialogo. La commissione ha chiaro l’orientamento e il punto d’arrivo. E per un dialogo, sapere che cosa si vuole è una cosa importantissima.

La commissione preparatoria ha stabilito anche il metodo del dialogo: un metodo positivo, che parta dalla comunione esistente e tenda alla piena comunione.

 

 

 

Tematica del dialogo

 

In questa prospettiva ci si può chiedere: cosa fonda la comunione esistente fra cattolici ed ortodossi? Certo, la nostra fede nella Trinità, certo, la fede in Gesù Cristo, certo, il patrimonio comune dei dogmi definiti nel primo millennio, cioè la fede comune. Tutto questo poi è espresso nella vita sacramentale. Pertanto fra cattolici e ortodossi è stato proposto di prendere come tema-base per lo studio, la questione dei sacramenti.

La commissione quindi si è riunita su questi orientamenti. Essa ha già pubblicato tre documenti: “Il mistero della Chiesa e dell’eucarestia alla luce del mistero della SS. Trinità” (Monaco, 1982); “Fede, sacramenti e unità della Chiesa” (Bari, 1987); “Il sacramento dell’ordine nella struttura sacramentale della Chiesa, in particolare la successione apostolica per la santificazione e l’unificazione del popolo di Dio” (Valamo, 1988).

Si vede come la commissione abbia tenuto conto degli orientamenti del “Piano per l’avviamento del dialogo”: trattare i sacramenti, trattarli in modo positivo, costruttivo verso la piena unità, andare da ciò che abbiamo in comune verso l’individuazione delle divergenze per discuterle e, speriamo, per superarle.

 

 

 

Eucarestia e Chiesa

 

Il primo documento perciò è quello relativo alla concezione sacramentale della Chiesa: “Il mistero della Chiesa e dell’eucarestia alla luce del mistero della SS. Trinità”.

All’inizio del documento i membri della commissione dichiarano esplicitamente: “Vogliamo mostrare che esprimiamo insieme una fede che è la continuazione di quella degli apostoli”.

In questi documenti perciò si vuol esprimere la fede comune e una fede che è in continuazione con quella apostolica.

Queste indicazioni descrivono l’esatta prospettiva secondo cui occorre leggere le affermazioni dei documenti. Ci si pone insieme nella linea della fede apostolica e si esprime una sostanziale comune concezione sacramentale della Chiesa. L’aspetto scelto è quello della ecclesiologia eucaristica che il documento articola in tre momenti e cioè:

-“il rapporto fra eucarestia e Chiesa”;

-“l’eucarestia nella Chiesa locale intorno al vescovo”;

-“il rapporto fra Chiesa locale e Chiesa universale”.

Nella struttura stessa del documento l’argomentazione teologica vuole portare alla visione della comunione ecclesiale nel suo insieme.

Innanzitutto il rapporto fra Chiesa e eucarestia, e fra eucarestia e Chiesa. Queste due realtà sono intimamente connesse. Lo studio di questo rapporto fa dedurre la natura sacramentale della Chiesa e una conseguente concezione dell’unità espressa nella concelebrazione eucaristica, così come è stato posto nella definizione dello scopo, quale obiettivo di questo dialogo.

Da una parte la Chiesa celebra l’eucarestia; dall’altra l’eucarestia edifica la Chiesa, cioè “per suo mezzo lo Spirito di Cristo Risorto plasma la Chiesa in Corpo di Cristo” (I, 4c). In modo più sintetico e altrettanto denso il documento afferma: “Quando la Chiesa celebra l’eucarestia, essa realizza ciò che essa è, il Corpo di Cristo” (I, 4b). In questa visione si afferma un’armonica compenetrazione fra aspetto individuale dei singoli cristiani e aspetto comunitario.

L’eucarestia “ci incorpora pienamente al Cristo” (I, 2). Incorpora in Cristo che vi partecipa, incorpora ognuno e tutti. In essa trova realizzazione piena la vocazione

battesimale. Il documento ricorda che “i credenti sono battezzati nello Spirito nel nome della Santa Trinità per formare un solo Corpo” (I, 4b).

Questa “progressiva” formazione del “Corpo di Cristo-Chiesa” il documento la individua nel processo stesso della iniziazione cristiana che trova il suo compimento e il suo culmine, appunto, nella partecipazione all’eucarestia. Per mezzo del battesimo e della cresima le membra del Corpo sono innestate nel Cristo, sono unte dallo Spirito, “ma per mezzo dell’eucarestia l’evento pasquale si dilata in Chiesa” (I, 4b). La Chiesa diventa ciò che essa è chiamata ad essere con il battesimo e con la cresima.

L’espressione “si dilata” insinua un’immagine alquanto inconsueta ma efficace per fare intuire l’estendersi della comunità degli incorporati a Cristo verso dimensioni sempre più ampie, per comprendere tutte le persone di tutti i luoghi e di tutti i tempi che hanno “preso parte”, o che prenderanno parte, al corpo e al sangue di Cristo. Per questo il documento può dire che “l’eucarestia è veramente il sacramento della Chiesa” (I, 4c), in quanto essa è il sacramento del dono totale che il Signore fa ai suoi, ma anche “manifestazione e crescita del corpo di Cristo, la Chiesa” (I, 4c).

Tutto ciò può avvenire soltanto per opera dello Spirito Santo, che non solo prepara la venuta di Cristo e lo manifesta, ma anche “trasforma i sacri doni nel corpo e nel sangue di Cristo (metabolé) affinché possa compiersi la crescita del corpo, cioè della Chiesa” (I, 5c); inoltre lo Spirito mette in comunione e rende attuale ciò che il Cristo ha compiuto una volta per tutte.

La celebrazione eucaristica nel suo insieme rende presente il mistero trinitario: è azione di grazie resa al Padre, è memoriale del sacrificio di Cristo, è epiclesi, invocazione dello Spirito Santo. Invocazione non solo “per la trasformazione del pane e del calice” ma “è anche una preghiera perché si compia pienamente la comunione di tutti al mistero rivelato del Figlio” (I, 6). E ciò non è nient’altro che un’altra descrizione della definizione della Chiesa.

Questa concezione sacramentale della Chiesa incentrata nell’eucarestia è affermata ora insieme da cattolici e ortodossi. Questa parte del dialogo cattolico-ortodosso è fondamentale. Su di essa si svolge tutto il resto.

 

 

 

La Chiesa locale

nella comunione ecclesiale

 

In seguito il documento parla dell’eucaristia e dell’esperienza che noi tutti ne abbiamo: l’eucaristia celebrata in una comunità, l’eucaristia celebrata attorno al vescovo, l’eucaristia celebrata in più comunità, la comunione esistente fra tutte queste celebrazioni eucaristiche celebrate nel mondo intero. Sono molte celebrazioni ma una sola è l’eucaristia. Dovunque l’eucaristia si celebri, questo mistero della comunione dell’uomo con Dio viene realizzato nella comunità locale unita alla comunità di tutti coloro che celebrano l’unico sacrificio di Cristo.

Questa visione sacramentale della Chiesa è importante perché ci mette nella prospettiva più autentica della nostra fede. In questo contesto ha un ruolo particolare il vescovo. I documenti finora pubblicati lo hanno mostrato come testimone della fede apostolica - secondo il documento di Monaco - e anche come garante della sua apostolicità; egli è segno di unità della Chiesa locale: “Come la Chiesa non può essere separata dal vescovo, così il vescovo non può essere separato dalla sua Chiesa” (II, 3).

Il vescovo è vincolo con le altre Chiese: il vescovo rappresenta la propria Chiesa in seno alla comunione delle Chiese; “con ciò il suo ministero si inserisce nella cattolicità della Chiesa di Dio” (III, 4).

Abbiamo quindi, nella dimensione più profonda e più vera, il rapporto fra la comunità locale attorno al vescovo con tutte le altre comunità e con la Chiesa universale; il rapporto cioè fra Chiesa locale e Chiesa universale.

Si afferma che “il Corpo di Cristo è unico; e dunque una è la Chiesa di Dio” (III, 1). L’identità di una assemblea eucaristica con un’altra proviene dal fatto che tutte, con la medesima fede, celebrano il medesimo memoriale. “La molteplicità delle sinassi (assemblee) locali, lungi dal dividere la Chiesa, ne manifesta  sacramentalmente l’unità” (III, 1).

Ciò, in ogni modo, comporta inevitabilmente l’affermazione di un secondo essenziale principio per il rispetto e l’armonia fra le varie Chiese locali e cioè quello della legittima diversità o pluralità: la koinonia, lungi dall’escluderla, “ la sottintende e guarisce le ferite della divisione, trascendendo quest’ultima nell’unità” (III, 2).

Il documento afferma anche: “Unità e molteplicità sono a tal punto legate che l’una non potrebbe esistere senza l’altra. Le istituzioni rendono visibile e, si può dire, storicizzano questa relazione costitutiva della Chiesa” (III, 2).

Ma cosa occorre affinché la Chiesa locale faccia veramente parte della comunione ecclesiale? Il documento individua due condizioni:

a) La continuità nel tempo, cioè il collegamento con il mistero della Chiesa vissuto dalla Chiesa primitiva, trasmesso dagli apostoli. “La Chiesa è apostolica (un altro

documento parlerà della successione apostolica ma è qui che si inserisce) per il fatto che è fondata e continuamente sostenuta nel mistero di salvezza rivelato in Gesù Cristo, trasmesso nello Spirito da coloro che ne furono i testimoni, gli apostoli” (III, 3a).

b) Il reciproco riconoscimento oggi tra questa Chiesa locale e le altre Chiese. “Ciascuno deve riconoscere negli altri, attraverso le particolarità locali, l’identità del

mistero della Chiesa” (III, 3b). Il documento indica che questo riconoscimento avviene innanzitutto sul piano regionale, in seno ad una stessa cultura, a delle stesse condizioni storiche. Ma “questa comunione all’interno di una stessa regione deve superare se stessa nella comunione fra Chiese sorelle” (III, 3b), deve pervenire a una “sinfonia universale delle Chiese”.

In questa visione il primo documento della Commissione mista individua il ruolo del vescovo nella duplice funzione di collegamento con la tradizione apostolica e con il resto dell’episcopato della cattolicità.

Dal documento di Monaco ci proviene questa immagine della koinonia che dovrà caratterizzare l’unità della Chiesa e cioè “Comunione nella fede, nella speranza e nella carità; comunione nei sacramenti; comunione nella diversità dei carismi; comunione nella riconciliazione; comunione nel ministero” (III, 4).

Questo è un insegnamento tradizionale, un insegnamento comune: è l’insegnamento della Chiesa indivisa. E’ il futuro della nostra situazione.

 

 

 

Fede e sacramenti

 

Il secondo documento ha trattato di conseguenza il rapporto fra fede e sacramenti. La Commissione ha studiato questo tema lungamente; la redazione del documento è stata fatta e rifatta più volte, con discussioni alcune volte tese, ma è pervenuta ad un documento che credo sia altrettanto fondamentale come il primo, nel contesto del dialogo cattolicoortodosso.

Riassumo brevemente secondo due grandi temi.

a. Professione di fede e celebrazioni sacramentali.

La celebrazione del battesimo, dell’eucarestia, della penitenza, di una ordinazione, esprime di fatto tutta la fede della comunità celebrante. Tutto ciò che la Chiesa cattolica, per esempio, crede, lo esprime nella celebrazione di qualsiasi sacramento. Non esprime solo una parte, un dettaglio. Non mette da parte, tra parentesi, alcune sue affermazioni.

Ed è così tanto che lo celebri la Chiesa cattolica, quanto quella ortodossa. “Ogni sacramento presuppone ed esprime - dice il documento - la fede della Chiesa

che lo celebra”(I, 6).

Questo che cosa può significare? Che “nella Chiesa i sacramenti sono il luogo per eccellenza nel quale la fede è vissuta, trasmessa e professata” (I, 2).

Nello stesso luogo e in modo più esplicito il documento afferma: “La tradizione liturgica è interprete autentica della Rivelazione e di conseguenza criterio della professione della vera fede”.

La liturgia non è qualche cosa di secondario: essa celebra, esprime e professa tutta la fede della Chiesa.

b. Fede comune e celebrazione dei sacramenti.

Se la celebrazione di un sacramento esprime tutta la fede della Chiesa celebrante, per concelebrare i sacramenti bisogna avere una fede comune. Ma ciò significa che, se non abbiamo una professione di fede comune, non possiamo concelebrare i sacramenti, altrimenti faremmo un atto in cui alcune delle nostre cose sono messe fra parentesi, un atto in qualche modo incompleto, un atto imperfetto.

Questa visione è comune a cattolici e ortodossi. Sul piano pastorale pratico la Chiesa cattolica ha dato delle norme che derogano parzialmente, in casi speciali, da questo orientamento ma non lo contraddicono. Si vuole rispondere a dei bisogni personali “ora e adesso” per il bene spirituale delle persone, ma principio generale rimane che la concelebrazione dei sacramenti implica ed esige la professione comune della stessa fede.

Proprio per questo lo scopo del dialogo è di trovare un’affermazione comune della fede.

 

 

 

L’iniziazione cristiana

 

Nel documento di Bari è stato studiato anche il tema particolare dell’iniziazione cristiana: battesimo, cresima e ammissione all’eucarestia. E’ stato un punto molto discusso nel dialogo perché la prassi liturgica è differente tra Oriente e Occidente.

Come si sa, nella tradizione bizantina, battesimo, cresima e ammissione all’eucarestia, vengono fatti nel corso di una stessa celebrazione, anche per i piccoli. Questa prassi mostra l’unità dell’iniziazione cristiana.

In Occidente è prevalsa la prassi di distinguere questi sacramenti nel tempo: il battesimo è amministrato ai piccoli, nella gran maggioranza dei casi; poi ad una certa età si conferisce la cresima e quindi l’eucarestia. In tempi più recenti è stata manomessa questa tradizione ponendo l’ammissione all’eucarestia prima della cresima.

Nel dialogo sono state fatte delle domande ai cattolici occidentali su questa prassi. E ci sono delle cose non pienamente risolte.

Per esempio, se si prende l’iniziazione cristiana degli adulti nella Chiesa latina, il modo tradizionale è rispettato: battesimo, cresima e ammissione all’eucarestia. Se si prende il codice di diritto canonico recente del 1983, questo ordine tradizionale è rispettato. Se si prendono i testi liturgici quando si spiega l’orientamento della iniziazione cristiana si trova questo modo progressivo di spiegare. Nella prassi però si agisce diversamente.

Il documento ha affermato che la prassi tradizionale della Chiesa ha questa progressione: battesimo, cresima ed eucarestia, che si trova sostanzialmente affermata tanto in Oriente quanto in Occidente.

In questo documento è stato poi citato un testo del Concilio di Costantinopoli dell’879-880 in cui c’erano già delle discussioni su prassi liturgiche differenti. Quel Concilio afferma: “Ogni sede - cioè ogni Chiesa - ha ricevuto dalla tradizione alcuni usi antichi. Non bisogna fare dispute o polemiche a loro riguardo. Da parte sua la Chiesa di Roma conserva usi che le sono propri ed è bene che sia così. D’altra parte la Chiesa di Costantinopoli conserva anch’essa alcuni usi che le sono propri e che ha ricevuto dall’inizio, così è anche per le altre Chiese d’Oriente” (Mansi, XVII, 489B).

Questa citazione non copre tutta la diversità delle tradizioni e delle questioni discusse, ma offre un importante orientamento.

L’importante anche qui era di scoprire la stessa fede che è insita nella diversità di prassi. L’uso liturgico differente di per sé non dovrebbe toccare il significato ultimo. La questione nel documento è rimasta parzialmente aperta. Non c’è stata piena comune soddisfazione su questo punto. Ma, su di esso, non c’è piena soddisfazione neppure fra gli stessi liturgisti e teologi cattolici.

 

 

 

La successione apostolica

 

L’ultimo documento pubblicato, il terzo, era sulla successione apostolica e la continuità nel tempo della trasmissione della fede apostolica. Cattolici e ortodossi abbiamo su questo punto la stessa fede. I vescovi sono successori degli apostoli e trasmettono nel tempo la fede apostolica, sono garanti della fede apostolica, sono predicatori della fede apostolica, trasmettono la verità ricevuta dagli apostoli, la verità che gli apostoli hanno ricevuto da Gesù

Cristo.

Questa affermazione sulla successione apostolica è estremamente importante. I vescovi quali successori degli apostoli, sono i garanti dell’unità della propria Chiesa; inoltre essi hanno ricevuto l’episcopé della Chiesa universale. Hanno così una responsabilità per la Chiesa di Cristo nel suo insieme. Come si esprime questa unità?

Il documento non tratta in modo completo tutte le problematiche. L’unità e la “concordia” episcopale si esprimono sul piano locale, regionale e universale. La

prassi conciliare è uno dei modi tradizionali per esprimere questa unità. Sul piano locale di una regione si esprime con i Concili locali, regionali; sul piano universale si esprime nel Concilio Ecumenico. Qui abbiamo un’altra affermazione importante, comune a cattolici e ortodossi: il ruolo dei Concili nella vita della Chiesa, il ruolo del Concilio ecumenico nella vita della Chiesa e per l’unità della Chiesa.

A questo punto si accenna alla questione del vescovo di Roma. Noi tutti sappiamo che la grande divergenza tra cattolici e ortodossi è quella del primato e dell’infallibilità del Papa. Parlando della successione apostolica e della comunione fra le Chiese realizzata nei Concili

locali e universali il documento afferma: “In questa prospettiva di comunione fra le Chiese può essere affrontato il tema del primato nell’insieme della Chiesa, e in particolare quello del primato del vescovo di Roma, tema che costituisce una grave divergenza fra noi e che sarà discusso in seguito”. Il dialogo si avvia così lentamente e progressivamente ad affrontare le questioni più cruciali.

 

 

 

Nuova tappa

 

Questi sono, sinteticamente riassunti, i tre documenti pubblicati, ma il dialogo continua. Nel prossimo mese di giugno si riunirà ancora una volta la commissione mista in sessione plenaria per discutere un tema già preparato dalle sottocommissioni e dal comitato di coordinamento: Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della struttura sacramentale della Chiesa: conciliarità e autorità nella Chiesa.

Si comincia a studiare l’articolazione della comunione fra i vescovi, quella articolazione già accennata nel tema dei concili locali e del concilio universale e anche il tipo di autorità nella Chiesa.

Partendo dalla struttura sacramentale della Chiesa, dalla teologia di comunione eucaristica, qual’è la natura dell’autorità nella Chiesa? Certo cattolici e ortodossi affermiamo che c’è un’autorità nella Chiesa: rappresentata dai vescovi. Ci sono poi delle autorità regionali: i patriarchi. C’è sempre un “primus”, un primo, nella diocesi, in una regione, e noi cattolici diciamo: nella Chiesa universale. Che tipo di autorità è questa? Che tipo di autorità proviene dalla struttura sacramentale della Chiesa?

Il minimo che si possa dire è che essa non rassomiglia a nessuna autorità di questo mondo. Si tratta di un’autorità di tipo diverso. E’ questo modo diverso che deve esprimere anche la conciliarità, la collegialità, la comunione fra i vescovi. Su questo punto si discuterà nel prossimo mese di giugno.

 

 

 

Liberare la via

 

Ma il dialogo non è così semplice come potrebbe apparire da una presentazione così sintetica. La commissione mista ha studiato anche delle condizioni per il buon

proseguimento sulla via del dialogo.

Spesso sono apparse difficoltà. Certo c’è difficoltà nella terminologia, nel capirsi; ci sono difficoltà per le diverse mentalità e per le differenti espressioni della fede.

Il dialogo finora ha riflettuto per riscoprire la fede comune. Ha anche considerato come è meglio proseguire. In questa prospettiva ha studiato due particolari difficoltà che di tanto in tanto emergono nel dialogo: la questione del proselitismo e la questione dell’uniatismo a cui ha fatto riferimento nella sua conversazione il Metropolita Bartolomeo di Calcedonia.

Riguardo alla questione del proselitismo, dal punto di vista cattolico l’insegnamento è chiaro. Basta riferirsi, per esempio, alla Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, la dichiarazione in cui, al n. 4, è esplicitamente rifiutato il proselitismo.

Non bisogna operare nessun raggiro, non bisogna fare nessuna pressione perché un individuo accetti la fede cattolica o qualsiasi fede. Occorre rispettare la libertà dell’individuo.

Dal punto di vista teorico questo è acquisito.

Anche quando è venuto a Roma il Patriarca Atenagoras nel 1967, nella dichiarazione comune si è parlato di collaborazione, della necessità di una collaborazione disinteressata. E’ questa una espressione diversa per dire che occorre evitare ogni forma di proselitismo.

Tuttavia occorre costatare che l’accettazione di una nozione non determina automaticamente il comportamento pratico. E difatti ancora si lamentano da ambo le parti casi di proselitismo. E’ una difficoltà. E in due o tre riunioni plenarie della commissione se ne è parlato. Nel comunicato dato alla stampa dopo la riunione di Bari, nell’87, chiaramente è affermato che bisogna respingere ogni azione proselitistica.

Per quanto riguarda il problema del cosiddetto uniatismo, è stata posta la questione dagli ortodossi e, in modo autorevole, dalla commissione panortodossa preparatoria del Concilio delle Chiese ortodosse dell’86. La domanda poi è stata presentata alla commissione mista che l’ha studiata. Anzi, ha deciso di creare una sottocommissione speciale per lo studio di questo problema.

La sottocommissione si è già riunita e nel comunicato dato alla stampa si danno alcuni elementi del testo preparato. Ne leggo tre affermazioni. “La sottocommissione ha riconosciuto all’unanimità che l’uniatismo non è più considerato il modello di unione delle Chiese poiché l’ecclesiologia all’interno della quale quel modello si è sviluppato non si ispirava alla tradizione comune delle nostre Chiese indivise. Perciò la ricerca dell’unità dovrebbe avere, come proprio modello, quello di Chiese

sorelle, nel quadro di una ecclesiologia eucaristica di comunione”.

Il comunicato continua: “Si è convenuto che ogni forma di esclusivismo soteriologico contraddice l’ecclesiologia di Chiese sorelle e che ogni forma di proselitismo che viola la libertà religiosa della coscienza e che fa uso di mezzi illeciti o illegittimi deve essere rigettata”. “La sottocommissione ha dichiarato che in nessun modo si dovrebbero usare metodi forzati per risolvere problemi esistenti fra le Chiese, poiché l’uso della violenza nel presentare delle richieste è contrario all’insegnamento cristiano ed è condannato senza esitazione”.

E’ utile, a questo proposito, un breve commento.

Nel termine “uniatismo” spesso si mette un insieme confuso di elementi che non sono più o non devono essere più attuali. Per esempio si sottintende che le chiese orientali cattoliche verrebbero usate per fare proselitismo.

Ora, se queste Chiese nel passato sono state usate come uno strumento per far proseliti tra le Chiese ortodosse, non è certo questo lo scopo della loro esistenza. Né questo scopo deve essere ad esse attribuito.

Se nel passato c’è stata da qualche parte l’idea di una specie di “contr’altare”, di una contrapposizione di un mondo orientale cattolico alle Chiese ortodosse, dopo il Concilio Vaticano II, che ha riconosciuto l’ecclesialità delle Chiese d’Oriente ortodosse –le chiama e sono Chiese sorelle -, non può aver più luogo una simile concezione. Se prima si è potuto pensare che questo era il modello che Roma proponeva per l’unità, dopo il Concilio Vaticano II questo è fuori luogo perché dal Concilio in poi la Chiesa cattolica ha aperto il dialogo diretto con le Chiese ortodosse.

Nel dialogo si cerca insieme il modello di unità alla luce della tradizione della Chiesa e alla luce della sacra Scrittura. Il dialogo è aperto fra tutte le chiese ortodosse e tutte le chiese cattoliche e non fra parti di esse.

La chiarificazione su questi punti è utile proprio per spazzare la via da inutili impedimenti e anche per non essere ingiusti con le Chiese orientali cattoliche.

Il dialogo nella nostra epoca è un dialogo di lealtà, un dialogo di fraternità, un dialogo di ricerca della verità, un dialogo di libertà dove ognuno deve avere il suo modo di esprimersi.

 

 

 

Una breve sintesi

 

Ma tutto questo dialogo, dopo 10 anni di lavoro, che risultati ha avuto?

Innanzi tutto il contatto diretto, il dialogo fra la Chiesa cattolica e tutte le Chiese ortodosse nel suo insieme è un fatto straordinario che deve essere considerato in tutta la sua grandezza.

Noi cerchiamo la comunione. Il dialogo è un mezzo di comunione. La comunione non è semplicemente un’idea teorica. Le Chiese sono a contatto diretto e credo di poter dire: in contatto diretto, fraterno e positivo. Ciò va nella linea del vangelo ed è un fatto spirituale importante. Ci sono discussioni alcune volte pungenti; ma questa è una condizione umana vera. Il dialogo è fatto per discutere, per risolvere le questioni; non è fatto per stare semplicemente insieme. Quindi è un contributo vero verso la verità, e quando è fatto con franchezza ha un valore spirituale e teologico importante. Il primo risultato è proprio questo: il dialogo stesso.

Secondo: l’affermazione comune della concezione sacramentale della Chiesa, fatta nel primo documento che tratta del rapporto Chiesa-eucaristia, è un dato acquisito estremamente importante. Il Concilio l’aveva fatto per conto suo nel decreto sull’ecumenismo, ma adesso è fatto insieme.

Si esprime, in quel documento, una concezione comune della Chiesa locale, del necessario e articolato rapporto fra Chiesa locale e Chiesa universale e una visione dell’unità come comunione di Chiese locali.

In questo contesto, come ho cercato di spiegare, ha particolare importanza l’affermazione comune della successione apostolica e la funzione dei concili locali e universali nella Chiesa.

Inoltre si esprime una concezione comune sul sacerdozio, sull’episcopato e si portano chiarimenti importanti anche su due questioni che nel passato sono state molto discusse fra cattolici e ortodossi, spesso con contrapposizioni polemiche: la questione della epiclesi e quella del filioque. Né l’una né l’altra è stata direttamente affrontata dal dialogo, ma siccome le questioni sono connesse, l’una e l’altra sono state toccate.

Per esempio, quanto all’epiclesi c’è tutta una questione un po’ casuistica riguardo al momento in cui avviene la transustanziazione, la conversione del pane in Corpo di Cristo.

Nel documento di Monaco, in fondo si dice che tutta la celebrazione è un’epiclesi o esplicita o implicita; che, per la “metabolé”, per la trasformazione, sono necessarie e le parole dell’istituzione e l’epiclesi.

Viene superata, in una visione della preghiera e della epiclesi più comprensiva, una discussione che di per sé non doveva esserci stata. Ma questo mostra come –quando avvengono tali discussioni - si possano assolutizzare certi orientamenti teologici di mentalità differenti puntando su dei dettagli particolari, e perdendo di vista l’insieme.

Neanche sulla questione del filioque si è trattato esplicitamente, e il documento lo dice chiaramente. Ma si è fatta una affermazione essenziale.

Dice il documento: “Pur non volendo ancora risolvere le difficoltà sorte fra Oriente e Occidente circa la relazione fra il Figlio e lo Spirito, possiamo già affermare insieme che questo Spirito che procede dal Padre (Gv 15, 26) come dall’unica fonte nella Trinità, e che è diventato lo Spirito della nostra adozione filiale (Rm 8, 15) perché Egli è anche lo Spirito del Figlio (Gal 4, 6) ci è trasmesso soprattutto nell’eucarestia, da questo Figlio sul quale riposa nel tempo e nella eternità (Gv 1, 32)”.

L’affermazione che lo Spirito procede dal Padre come dall’unica fonte, assicura gli ortodossi che i cattolici non ammettono due “fonti”, due “principi” nella Trinità,

mentre l’affermazione “Spirito del Figlio” e l’altra “Lo Spirito riposa sul Figlio nel tempo e nella eternità” esprime il rapporto fra lo Spirito e il Figlio che l’aggiunta al

credo (“filioque”) intendeva affermare.

Anche la questione del rapporto fra fede e sacramenti, è un’affermazione estremamente importante; e altrettanto importante è quella dell’unità nella diversità, fatta soprattutto nel documento detto “di Bari”, dove si portano anche degli esempi.

Nominiamone solo uno: in Occidente come professione di fede nel battesimo è prevalso quel Simbolo detto “degli apostoli” e in Oriente quello niceno-costantinopolitano.

Si tratta di forme differenti ma l’uno e l’altro esprimono la retta fede. Ci possono essere quindi espressioni - anche espressioni dell’importanza di una professione di fede - differenti ma che trasmettono la stessa fede. Nel corso del dialogo si sono poi fatte varie acquisizioni che aiutano a far progredire la ricerca dell’unità: si è innanzitutto imparato a tener presente la distinzione di livelli fra la fede, l’espressione della fede, l’elaborazione teologica, la celebrazione liturgica e le normative disciplinari; e la distinzione fra vari gradi di comunione e cioè: comunione “piena”, comunione “quasi piena”, comunione “imperfetta”. Questa distinzione di livelli è un quadro che ci permette di progredire ulteriormente nel dialogo.

Inoltre, in tutti questi anni di dialogo abbiamo fatto ricorso alla storia ed essa ci è venuta in aiuto. In realtà si sono trovati elementi nella storia che hanno facilitato la comprensione odierna fra cattolici e ortodossi. Ho citato, per esempio il Concilio di Costantinopoli dell’880.

Alcune volte noi però ci riferiamo al passato come se fosse l’era aurea del cristianesimo. In qualche modo è vero: per esempio nel primo millennio c’è stata la grande espansione missionaria della Chiesa, si sono organizzate le strutture della Chiesa, sono stati definiti i dogmi, il Simbolo di fede che noi professiamo. Nel primo millennio, inoltre, si è elaborata la teologia cristiana. Ma nel primo millennio ha covato anche la divisione. La divisione non è venuta un giorno così d’improvviso.

Così io credo che l’età aurea sta davanti a noi e non dietro. E che il nostro tempo, tempo di grazia, in cui la ricerca dell’unità è diventata una componente della nostra società, in cui l’ecumenismo è diventato un fatto che caratterizza il nostro tempo, noi dobbiamo costruire una nuova storia, una storia più conforme al vangelo, una storia che assuma tutto ciò che abbiamo ricevuto, che lo purifichi da ciò che è caduco e che ci porti più vicini a quella che è

la nostra vocazione e ci avvii alla piena unità nella fede e nella vita cristiana.

Vorrei terminare con una citazione di Baruch.

Baruch, in visione, aveva profetizzato una nuova storia; prospettiva che è sempre attuale: “Ecco ritornano i figli che hai visto partire, ritorneranno insieme riuniti dall’Oriente e dall’Occidente alla parola del Santo esultando per la gloria di Dio” (Bar 4, 37).

Ritornare insieme: questo è il nostro avvenire.

 

Eleuterio F. Fortino