Note per la concretizzazione di un'istanza del Concilio ancora da realizzare

 

 

La vita comune tra i sacerdoti

 

di Giuseppe Caffi

 

 

L'autore, partendo dai testi conciliari, analizza le diverse possibilità che i presbiteri hanno a loro disposizione per attuare forme concrete di convivenza che alimentino la comunione così fondamentale per la vita della Chiesa e per l'evangelizzazione del mondo, facendo notare che l'idea di comunione rimane astratta e fittizia se non si con- cretizza in forme adatte a renderla operante nella vita quotidiana.

 

La base di partenza per una riflessione su questo argomento sono due testi del Concilio Vaticano II che la propongono in maniera esplicita, circostanziata e motivata. Li riportiamo qui di seguito.
«A rendere più efficace la cura delle anime, è da raccomandare caldamente la vita comune dei sacerdoti, e specialmente di quelli addetti alla stessa parrocchia, perché questa, mentre giova all'attività apostolica, offre ai fedeli esempio di carità e di unità” (CD 30,1).

 

«... Inoltre per far sì che i presbiteri possano reciprocamente aiutarsi a fomentare la vita spirituale e intellettuale, collaborare più efficacemente nel ministero, ed eventualmente evitare i pericoli della solitudine, sia incoraggiata fra di essi una certa vita comune, ossia una qualche comunità di vita, che può naturalmente assumere forme diverse, in rapporto ai differenti bisogni personali o pastorali: può trattarsi, cioè, di coabitazione, lì dove è possibile, oppure di una mensa comune, o almeno di frequenti e periodici raduni» (PO 8).

La proposta del Concilio non è generica, ma, con suggerimenti opportuni e concreti, delinea tre modalità di vita comune, e cioè, la coabitazione, la mensa comune e i frequenti e periodici raduni.

Le motivazioni addotte poi sono su due piani distinti e complementari: la vita stessa dei preti e le esigenze del ministero pastorale.

Ci sembra di poter dire che per i Padri del Concilio tutti i sacerdoti sono chiamati ad “una qualche comunità di vita”, ma non tutti la possono realizzare nella forma della coabitazione. Può darsi che in tanti casi sia più utile rimanere nella forma della mensa comune, o anche soltanto in quella dei raduni frequenti e periodici. Le varie forme non costituiscono un valore in se stesse, ma sono mezzi che, in condizioni adatte e favorevoli, alimentano quella comunione per la quale molti si compongono in un unico corpo che è la Chiesa, dove si manifesta la presenza del Risorto. Le varie forme di convivenza restano prive di contenuto se viene a mancare questa presenza. Allo stesso modo, però, l'idea di comunione rimane astratta e fittizia, se non si concretizza in forme adatte a renderla operante nella vita quotidiana.

 

 

 

Almeno frequenti e periodici incontri

 

La prima forma di “comunità di vita” è descritta nel testo conciliare in questi termini: almeno frequenti e periodici raduni. La parola “almeno” ci sembra voglia esprimere la misura minima, al di sotto della quale non è possibile scendere. E' una misura che va accettata ed incoraggiata e può essere il terreno adatto su cui potranno fruttificare realtà successive più mature.

Si potrebbe pensare che alla richiesta di frequenti e periodici incontri rispondano sufficientemente le riunioni periodiche che si fanno in ambito diocesano e vicariale per ritiri mensili e per altri motivi. Ci sembra che il Concilio, senza sminuire il valore di questi incontri dove intervengono necessariamente molte persone, insista molto sapientemente sulla comunione tra piccoli gruppi di sacerdoti, accennando a quelli che lavorano insieme in ambito parrocchiale o interparrocchiale. Le cellule prime, necessarie per la vitalità dell'intera diocesi, attraverso le vicarie e le zone pastorali, sono senz'altro le parrocchie e le piccole strutture interparrocchiali.

I raduni frequenti e periodici fra piccoli gruppi, sono capaci di contenere una iniziale, ma autentica sostanza di comunione.

Sono in atto al riguardo numerose esperienze, molto interessanti, condotte in questa linea. Riassumendo brevemente, in molti casi, si sono iniziati degli incontri per lo più con l'intendimento di unificare la programmazione delle attività pastorali per evitare di disperdere le forze in tanti rigagnoli operativi non confluenti in indirizzi univoci. Attraverso più o meno marcate difficoltà, passando a volte per periodi di stasi e di scoraggiamento, gli incontri spesso sono divenuti sempre più regolari e, in alcune zone, anche settimanali.

A volte ci si è fermati a questo stadio, che pure ha avuto i suoi frutti in conoscenza, comprensione e stima reciproca, nonché in più valida testimonianza e più fruttuosa realizzazione di operazioni pastorali.

Altre volte però, da questi incontri è sgorgata una più profonda esigenza di fraternità che ha portato alla ricerca di passi ulteriori nella comunione, impegnando i sacerdoti a cercare tempi più ampi per il loro ritrovarsi insieme.

Altre volte ancora questa forma è progredita in un cammino di crescita verso contenuti ancora più pieni di comunione. Due o più sacerdoti, sperimentando la presenza del Risorto tra loro, non solo si arricchiscono mutuamente, ma portano un nuovo slancio nel loro lavoro pastorale.

Così questa forma di comunione, che parte dai frequenti incontri, può raggiungere contenuti altissimi. C'è da chiedersi allora, perché è usata la parola “almeno” nel denominarla. Io la intendo così: che si ponga da tutti almeno il passo iniziale e poi - senza affanni e precipitazioni per non forzare i tempi di crescita, ma anche senza paura o pigrizia per non arrestare la vita - non ci si fermi lungo il cammino, ma si tenda a compiere con gradualità i passi successivi.

 

 

 

La mensa comune

 

La seconda forma di “comunità di vita”, indicata e proposta ai sacerdoti dal Concilio, è quella della mensa comune. Tutto quanto è stato segnalato precedentemente nei “frequenti e periodici incontri” come elemento di coesione, di scambievole arricchimento personale e di aiuto reciproco, qui può trovare maggiore continuità di sviluppo. Ci si ritrova insieme tutti i giorni, almeno due volte, così che il contatto diventa continuo e costante. Le possibilità di conoscenza reciproca vengono molto dilatate e diventa più immediato lo scambio di quello che ciascuno vive.

Lo stesso vale in rapporto alla fecondità del ministero pastorale presso i fedeli, sia per la testimonianza di unità, sia per la progettazione e la conduzione dei programmi, per i quali può compiersi un confronto sulla validità operativa con ritmo praticamente quotidiano.

Certamente la convivenza durante i pasti può essere ridotta alla dimensione negativa delle chiacchiere inutili o del deprimente pettegolezzo, come pure può scadere a vuota solitudine, quando si costruiscono le barricate dei fogli di giornale da leggere fra un boccone e l'altro. Ma questa non è la sua natura, bensì la sua corruzione.

I valori della mensa comune

I valori propri della mensa comune, tutti positivi e generalmente spontanei, si esprimono in una gamma piuttosto ricca di combinazioni, proprio per la frequenza dell'incontro.

La mensa comune non è solo ristoro fisico, ma anche distensione psichica e riposo. C'è poi tutta l'informazione che ci si scambia ragionando insieme; sia quella sull'attualità, che può essere locale, oppure più vasta sui fatti della vita della Chiesa e del mondo; sia quella di tipo culturale, per la quale ci si fa dono reciproco di una lettura, di uno studio, di una ricerca, di una meditazione, insomma delle ricchezze acquisite nell'ordine intellettuale e spirituale.

Se è vero che questo può compiersi anche in altro modo, con altri strumenti, tuttavia non può avvenire facilmente con la stessa continuità e spontaneità con la quale si instaura fra coloro che praticano la comunione di mensa, proprio perché il colloquio è quotidiano, il clima è fraterno, il momento è favorevole.

Nella mensa alla quale siedono le persone di una famiglia, sono già insiti elementi naturali stimolanti alla comunicazione e al convenire in unità. Gesù, poi, l'ha arricchita di una quasi sacramentalità per l'uso che ne ha fatto a partire dalle nozze di Cana fino alla Cena Eucaristica e a quell'ultimo pasto di pane e pesce consumato sulla riva del lago di Galilea. In quella occasione, quando ebbero mangiato, egli richiese a Pietro il primato nell'amore e gli conferì il primato apostolico sulla Chiesa (cf Gv 21, 9-17).

Voglio richiamare anche l'episodio particolarmente significativo della lavanda dei piedi nell'ultima Cena: è una delicatissima ed efficace lezione sulla pratica dell'amore scambievole, che Gesù ci lascia come “suo testamento”. Cogliamo qui tutta una dottrina sulla grandezza soprannaturale dei piccoli gesti quotidiani, posti a servizio attento di Gesù nei fratelli, come il semplice gesto di porgere il pane al proprio commensale o di versargli il vino nel bicchiere.

 

 

 

La coabitazione

 

La forma di comunione che il Vaticano II chiama “di coabitazione”, è sicuramente la più completa nei confronti di quelle esaminate in precedenza, anche se la sostanza dei contenuti, cioè la comunione fra i sacerdoti e - come conseguenza - anche una maggiore pienezza nel servizio pastorale, costituisce la base comune. Naturalmente le tre forme in cui ciò si attua concretamente hanno diversa ampiezza e richiedono impegni maggiori. Anche se ogni grado ecepisce, a suo modo, quello precedente e si completa con nuove note sue proprie. Questo va detto per escludere, salvo alcuni riferimenti necessari, che si debba ripetere ciò che è già stato notato riguardo ai frequenti e periodici incontri e alla mensa comune. Quanto lì è stato detto, ampliato adeguatamente, va riferito anche alla coabitazione. Ma anche quanto si dirà più avanti, va riferito in maniera relativa pure alle forme già trattate.

Nella genesi della vita comune fra sacerdoti nella forma della coabitazione, sembra debba esserci, secondo alcuni, una quasi vocazione specifica, per cui chi desidera attuarla deve interrogarsi prima di intraprendere quel tipo di esperienza per rendersi meglio consapevole di esservi chiamato oppure no.

E' opportuno dare immediata e ben definita limitazione al termine appena usato di quasi vocazione. Esso qui vale a significare l'insieme di attitudini, inclinazioni e disponibilità, sia spontanee e naturali, sia acquisite per esperienza di formazione spirituale, che a volte, se sono ben conosciute, danno preziose indicazioni riguardo ai disegni provvidenziali di Dio sulla vita di una persona, la quale aderendovi realizza il meglio di se stessa.

I sacerdoti che si sentono chiamati a questo tipo di vita in linea di massima potrebbero essere anche tutti, ma più probabilmente, almeno per ora, solo una parte è ad essa veramente preparata. Quando le condizioni della loro Chiesa locale lo permettono, essi si ritrovano volentieri insieme per costituire una famiglia di veri fratelli che hanno come principio basilare nei loro rapporti l'attuazione del comandamento nuovo di Gesù per meritare la presenza del Risorto (cf Mt 18, 20).

Certamente il comandamento nuovo è per tutti i cristiani e non lo si può riservare in esclusività ad alcuni, ma qui si vuole soltanto sottolineare che esso non può venir meno - né può essere in qualche modo stemperata la costante tensione a realizzarlo nella vita quotidiana - da parte di chi si mette in questa esperienza di vita comune nella forma della coabitazione.

 

 

 

Il fondamento della vita comune

 

L'amore fraterno scambievole, nella misura del “come io ho amato voi” (Gv 13, 34), è l'unica ragione che possa motivare efficacemente questo tipo di convivenza. Poiché questa affermazione può sembrare a prima vista eccessiva, vedrò di darne ragione con sufficiente chiarezza. La pista di indagine più immediata è quella di ricercare se vi siano altri elementi sui quali possa trovare ragionevole fondamento questa forma di vita comune, e procedere per esclusione.

Possono venire in evidenza valori importanti, quali l'incremento della vita spirituale e di quella intellettuale, la difesa contro i pericoli della solitudine, l'aiuto fraterno nel tendere alla santità ed anche la testimonianza dell'unità. E' evidente che non si deve escludere nulla di tutto questo, né sminuirne l'importanza. Però, per sgombrare il campo da facili illusioni, è necessario chiarire che non sono questi gli elementi fondanti della fraternità sacerdotale; essi sono soltanto alcuni dei risultati che ne conseguono. Questi valori non possono generare la vita di comunione tra i sacerdoti, ma la postulano pressantemente, quale terreno favorevole dove essi possono meglio fruttificare.

Si può anche andare a cercare le ragioni di economia pastorale o personale, elementi da non scartare né sottovalutare, ma da situare nella posizione giusta. Certamente una vera vita di comunione tra sacerdoti in una stessa casa moltiplica le possibilità di maggiore efficienza nella elaborazione ed attuazione dei programmi pastorali e viene incontro alla soluzione di difficili problemi economici. Ma qualora si cercasse di porre su queste esigenze il fondamento della vita comune, si edificherebbe la casa sulla sabbia (cf Lc 6, 49). Ci si potrebbe ritrovare facilmente nell'esperienza della casa-albergo, alla quale le persone si appoggiano, perché vi trovano vitto, alloggio, manutenzione degli indumenti ed altri servizi, ma non ci vivono come famiglia unita.

L'unico vero fondamento per una vera vita comune è e resta, dunque, il comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13, 34). E in quel “come” è incluso il mistero pasquale di morte e risurrezione: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3, 14). Se non si punta prima di tutto a creare e a ricreare ogni giorno questo rapporto di autentica fraternità, tutte le altre pur nobili motivazioni non saranno sufficienti per alimentare a lungo un'autentica vita comune.

 

 

 

I modelli

 

A questo punto viene spontaneo il desiderio di cercare e di trovare dei modelli a cui ispirarsi per la vita comune tra sacerdoti.

Non possiamo fare lo sbaglio di copiare qualcuno dei tanti modelli degli ordini o delle congregazioni dei religiosi. Persino S. Agostino e S. Gregorio Magno ritennero impossibile continuare a vivere come monaci dopo che furono chiamati al ministero pastorale.

Penso che oggi noi possiamo ispirarci ai due modelli principali che troviamo nel Nuovo Testamento.

a. Innanzi tutto la famiglia di Nazareth. Due persone umane, Maria e Giuseppe, sono insieme per singolarissima vocazione e vivono un amore verginale, totalmente donati a Dio per il compimento del disegno di salvezza, che riguarda tutta l'umanità. E in mezzo a loro c'è Gesù, l'uomo Dio, che costituisce la loro ragion d'essere.

b. Il secondo modello è la famiglia di Gesù con gli apostoli. Egli li ha chiamati ed ha posto le sue condizioni a chi lo ha seguito. “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”, (Mt 16, 24), ed essi hanno lasciato tutto, e segnatamente le loro famiglie, e lo hanno seguito, rimanendo sempre con lui. Gesù li ha uniti a sé e tra di loro in un solo corpo, che costituisce la loro nuova famiglia, centuplo di quella che hanno lasciato (cf Mc 10, 29-30).

Ora, è impensabile una simile esperienza di comunione tra questi uomini della Galilea senza la presenza di Cristo. Ma anche oggi qualsiasi esperienza di vita di comunione tra sacerdoti, dalla forma più semplice degli incontri e della mensa comune a quella più impegnativa della coabitazione, non sortirà il suo effetto se non porrà alla base l'impegno comune di meritare questa mistica ma reale presenza del Cristo.

Gesù ci ha indicato anche un terzo modello: la Santissima Trinità. Altezze inaccessibili, dirà qualcuno, ma è lui stesso che ci immette nel cuore della Trinità. Basta rileggere, alla luce di quanto abbiamo detto fin qui, la preghiera sacerdotale (Gv 17), dove Gesù chiede: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 20-23).

Certamente un cammino lungo, paziente e perseverante attende oggi i presbiteri se vogliono dare al mondo una testimonianza evangelica di comunione.

 

Giuseppe Caffi