Preti del 2000
tra solitudine e comunione

 

 

E' difficile o pressoché impossibile che una parola esprima compiutamente un'idea. E' altrettanto difficile che un'idea rifletta compiutamente il mondo soggettivo intellettuale-affettivo-culturale di colui che l'ha concepita. Occorrerebbe, in assoluto, vivere l'altro nella sua totalità per “comprenderlo” appieno.

La stessa cosa si può dire delle esperienze che stanno in genere all'origine delle idee: appunto perché l'esperienza è tipicamente soggettiva non è possibile che un altro la comprenda del tutto o la riproduca da riviverla in copia-conforme. Al punto che si può pensare quanto fosse problematico anche per un san Pietro capire perfettamente un san Paolo, e per ambedue capire un san Giovanni. E viceversa, ovviamente.

Ma l'esperienza ha questo, di particolare: che quando la si fa in molti, singolarmente o assieme, cercando di tradurre in vita una stessa idea, pur restando fondamentalmente soggettiva essa apre lo spazio a una reciproca comunicazione di vissuto, tale da rendere possibile una comunicazione autentica, impensabile quando ci si scambia soltanto idee.

Ma anche trasmettere un'esperienza particolare a chi non l'ha fatta non è facile: l'esperienza raccontata può essere uno stimolo per indurre l'altro a fare altrettanto, ma di per sé non ne dà la comprensione, soprattutto quando i quadri di riferimento individuali sono divergenti. Così che, ad esempio, chi ha avuto una formazione individualistica stenterà a farsi un'idea di cosa significhi una vita di comunione interpersonale; potrà forse vederla come una forma opzionale di attuazione esistenziale, ma se non entra nell'esperienza per impararne - per così dire - la tecnica, non riuscirà a cogliere nè il salto qualitativo che essa comporta nella maturazione psicologica e spirituale delle singole individualità, nè l'impatto rivoluzionario a livello sociale.

E' per questo che parole come chiesa-comunione, dialogo, unità, rischiano di suonare, per molti, vuote di significato, neologismi (eppure bimillenari) di moda, se non addirittura slogans democratico-demagogici. Chi ha (o pensa di avere) una forte individualità, inoltre, può anche ritenere patetiche, perché deboli e bisognose d'appoggio, le persone che vivono o cercano di vivere in comunione; non sapendo che per vivere quella “comunione trinitaria” che Gesù ha proposto ai suoi, occorre avere una individualità molto più temprata, poiché solo “possedendosi” ci si può dare, si può dialogare, fare unità.

C'è da dire, poi, che passare da una spiritualità individuale e - di conseguenza - da una pastorale direttiva a un'attuazione di vita e di pastorale comunitaria non è oggi una scelta puramente opzionale. Il contesto sociale moderno (o post-moderno che sia) non facilita certo al prete il vivere “separato” per essere l'unico leader di un popolo. Basti osservare quanto grave sia per molti il problema della solitudine, dovuto al fatto non solo di non avere un interlocutore col quale confrontarsi stabilmente, ma anche di non avere più un popolo passivamente in ascolto del nostro verbo.

E gli effetti della solitudine sono oggi, come sappiamo, devastanti.

 

S.C.