La chiesa nel mondo

La piena maturità
dei movimenti ecclesiali

Mons. Ennio Antonelli, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, ha fatto un importante intervento al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini nello scorso agosto. Ne riportiamo la parte riguardante i movimenti ecclesiali.

"La fede cristiana – come diceva Giovanni Paolo II nell’incontro di Pentecoste con i movimenti ecclesiali in piazza San Pietro – non è un discorso astratto né un vago sentimento religioso, ma è vita nuova in Cristo suscitata dallo Spirito Santo".

I vescovi italiani, nel documento dopo Palermo, Con il dono della carità dentro la storia, l’hanno presentata come un dialogo con le Persone divine, che si prolunga nel dialogo tra gli uomini, in tutte le relazioni, attività, ambienti, situazioni: "A partire dalla preghiera, la carità assume, purifica ed eleva tutte le realtà dell’esperienza personale di ogni giorno: le relazioni familiari, sociali, ecclesiali, le attività professionali, culturali, ricreative. La carità congiunge la preghiera con l’impegno in modo da rendere contemplativi nell’azione e memori del mondo davanti a Dio. Genera una spiritualità che guarda oltre la storia, ma è sostanziata di storia. Ama appassionatamente Dio, ma vede Dio in tutti e ama tutti appassionatamente come Dio li ama. Né uno spiritualismo intimista, né un attivismo; ma una sintesi vitale, capace di redimere l’esistenza vuota e frammentata, di dare unità, significato e speranza" (DCS 11). (…)

Il posto e l’attuazione dei movimenti

La Pentecoste del ’98 penso sia stata una data storica. Il Santo Padre ha convocato tutti insieme in piazza San Pietro i nuovi movimenti e le nuove comunità ecclesiali e li ha presentati ufficialmente alla chiesa intera, indirizzando loro due documenti: un messaggio e un discorso. Li ha presentati come un dono dello Spirito Santo per il nostro tempo, un’espressione importante della dimensione carismatica della chiesa che è "coessenziale" a quella istituzionale, perché lo Spirito non costruisce la chiesa come una organizzazione efficientista, ma "come flusso di vita nuova che scorre entro la storia degli uomini". Li ha presentati come una risposta provvidenziale ai "modelli di vita senza Dio" fomentati e reclamizzati dalla cultura secolarizzata di oggi.

La Pentecoste ’98 dovrebbe aprire una seconda fase nella vita dei nuovi movimenti e delle nuove comunità, quella della piena "maturità ecclesiale". Da una parte i Pastori e tutti i fedeli dovrebbero guardare ad essi come a doni destinati a tutto il Popolo di Dio, non marginali, ma importanti per la vita e la missione della chiesa e quindi da accogliere in atteggiamento di docilità e obbedienza allo Spirito, facendo spazio anche nella pastorale a questa "novità che attende ancora di essere adeguatamente accolta e valorizzata". D’altra parte i nuovi movimenti e le nuove comunità dovrebbero inserire più concretamente "le loro esperienze nelle Chiese locali e nelle parrocchie", per dare un contributo prezioso a "un nuovo slancio apostolico dell’intera compagine ecclesiale", "alla dinamica vitale dell’unica chiesa, fondata su Pietro, nelle diverse situazioni locali".

L’avvenimento della Pentecoste ’98 tende dunque ad aprire una fase più matura, caratterizzata da "unità nella pluriformità": l’unità che non scade a "piatta omogeneità, negazione delle diversità"; pluriformità che non degenera in "particolarismo o dispersione". Mi ha molto colpito l’interpretazione che ne ha dato don Giussani nella sua Lettera alla Fraternità del 3 giugno: "È stato il grido che Dio ha dato a noi come testimonianza dell’unità, dell’unità di tutta la chiesa. Almeno io l’ho avvertito così: siamo una cosa sola. L’ho detto anche a Chiara e a Kiko che avevo di fianco in Piazza San Pietro... E poi ho percepito per la prima volta così intensamente il fatto che noi siamo per la chiesa, siamo fattore che costruisce la chiesa... La nostra responsabilità è per l’unità, fino a una valorizzazione anche della minima cosa buona che c’è nell’altro".

I vescovi italiani, nell’assemblea generale di maggio, una settimana prima del congresso mondiale dei movimenti, facendo discernimento sui segni de "La presenza dello Spirito Santo nella vita delle nostre chiese", hanno costatato nelle nuove realtà ecclesiali frutti abbondanti di conversione e santificazione, di intensa comunione fraterna al loro interno, di coraggiosa e generosa evangelizzazione, di serio impegno civile, professionale, culturale, sociale, politico, di splendide vocazioni al matrimonio e alla famiglia, alla vita consacrata, al ministero pastorale, alla missione universale. Però hanno anche avvertito l’esigenza che i rapporti di comunione si intensifichino tra tutte le componenti ecclesiali e hanno auspicato, come già avevano fatto nel documento dopo Palermo, che cresca "una cultura della reciprocità" e venga coltivata una comunicazione cordiale e assidua (DCS 20).

Considerando che il Concilio Vaticano II ha accentuato con forza la comune vocazione alla santità di tutti i cristiani e la comune vocazione missionaria di tutto il Popolo di Dio, mi viene da pensare che la fioritura delle aggregazioni ecclesiali in questa stagione postconciliare sia destinata dalla Provvidenza a far crescere una santità di popolo, una coscienza missionaria diffusa, un impegno civile più largamente partecipato e più coerente con il Vangelo. Ma, alla luce dell’ecclesiologia di comunione che pure caratterizza lo stesso Concilio, mi sembra indispensabile che i cristiani impegnati e le loro aggregazioni coltivino la passione dell’unità ecclesiale, concretamente vissuta e manifestata. Tutti insieme siamo chiamati a edificare comunità vive ed evangelizzanti, dove si respira un clima di fraternità, stima e carità reciproca, dove si partecipa secondo la propria vocazione a una pastorale adatta al tempo presente e quindi fondata su una ferma coscienza di verità, dinamica e creativa, capace di educare e di fare cultura, di intercettare i problemi vitali della gente e di raggiungere gli ambienti dove essa vive, lavora e soffre, di incontrare gli indifferenti e i non credenti. Siamo chiamati a edificare comunità che siano nella storia segno tangibile e trasparente di Cristo, Salvatore di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. Insieme possiamo testimoniare in modo credibile che la presenza del Signore Gesù in mezzo a noi non è un "sogno" e che quindi neppure le cose della vita sono un "sogno": non si consumano, non finiscono nel nulla; ma rimangono trasfigurate nell’eternità.

Mons. Ennio Antonelli

 

Insieme per costruire
la collegialità

Su invito del Consiglio delle conferenze episcopali europee e della Congregazione dei vescovi si è tenuto a Roma dall’8 al 13 marzo scorso il terzo incontro dei vescovi europei nominati negli ultimi cinque anni. All’invito hanno risposto in 120. Il tema trattato: "Essere vescovi oggi in Europa".

L’impressione generale è che sia stato un evento particolare. Si è progressivamente creata un’atmosfera dove la collegialità effettiva e affettiva "europea" erano tangibili. I vescovi partecipanti hanno apprezzato la possibilità di conoscersi, pregare, pensare, insieme senza la preoccupazione di dover stendere un documento o risolvere subito situazioni problematiche. Alcuni hanno affermato che vivere questa dimensione continentale, sentire l’esperienza degli altri, è utile perché, restando chiusi nel proprio Paese, c’è pericolo di sopravvalutare la propria visione o i propri problemi.

Per questo sono stati molto utili i lavori di gruppo, che hanno reso possibile uno scambio aperto, e i molti dialoghi realizzati con vescovi di particolare esperienza ed autorevolezza, come i cardinali Gantin, Vlk, Martini, Ratzinger, Silvestrini, e i vescovi Karlic, Henrici, Trelle, Lehmann, e altri.

Il dialogo Est-Ovest ha fatto un ulteriore passo in avanti e, a questo scopo, è stata particolarmente importante la presenza dei vescovi della chiesa greco-cattolica. È stata anche l’occasione per approfondire la consapevolezza di essere pastori di tutta la chiesa europea e mondiale e non solo della propria diocesi.

Un gesto simbolico, che ha espresso in profondità la realtà vissuta in quei giorni, è stata la decisione spontanea di realizzare una comunione dei beni tra i vescovi presenti come condivisione con i confratelli che venivano da Paesi in particolari difficoltà economiche. Questo ha contribuito a pagare viaggi e soggiorni di diversi vescovi. L’udienza con il Papa, proprio alla conclusione del congresso, è stata il compimento "naturale" e simbolico dell’incontro. Si è realizzata in un’atmosfera di famiglia ed anche per Giovanni Paolo II è stato un momento di gioia.

Nei cinque giorni sono state affrontate, attraverso relazioni, incontri di gruppi e dibattiti in plenaria, alcune tematiche basilari, come la guida di una diocesi, il rapporto con i mass-media e la cultura, questioni teologiche, la vita spirituale personale e comunionale, la collegialità tra i vescovi e i compiti sovradiocesani. Momenti particolari sono stati dedicati all’ecumenismo in Europa, alle chiese orientali ed al sinodo per l’Europa del ’99.

L’arcivescovo di Praga e presidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee, il card. Miloslav Vlk, affrontando l’ultimo tema del congresso, collegialità tra i vescovi e compiti sovradiocesani, ha notato come i giorni anteriori erano stati già un’esperienza della collegialità e della dimensione sovradiocesana del servizio episcopale. Quindi – alla luce della dottrina della chiesa, soprattutto dell’ultimo Concilio e della personale esperienza in un paese dell’Est, per lunghi decenni sotto il dominio comunista – ha messo in rilievo che la collegialità è una dimensione centrale nel Vaticano II. Se essa viene a mancare, si raccolgono frutti amari.

Ma come si costruisce la collegialità? Il cardinale ricordava che la via maestra è la pratica concreta del comandamento nuovo dato dal Signore prima di tutto ai suoi apostoli: "Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato". È l’amore reciproco che genera l’unità e la comunione, perché rende possibile la presenza del Risorto tra i suoi. Questa presenza è la grande novità e la chance che la chiesa ed il mondo attendono.

Il segreto poi perché la comunione si tenga viva e si rinnovi continuamente sta nella scelta personale del Cristo crocifisso che grida il suo abbandono, nel saper riconoscere, cioè, il suo volto in tutte le divisioni che i vescovi sono chiamati ad affrontare.

La comunione affonda le sue radici nella croce e non ci possiamo accontentare con un po’ di democrazia. Nella chiesa non c’é posto per imprenditori privati. Tutto deve nascere dalla comunione tra i vescovi di una diocesi, con il presbiterio, con i consigli pastorali e presbiterali, con i laici. Anche per l’evangelizzazione in Europa, il luogo dove l’unico Maestro può riparlare al nostro continente è la comunione.

"Lo Spirito Santo – ha detto loro il Papa nell’udienza che ha concluso l’incontro – saprà rendere fecondi i vostri sforzi anche là dove essi potrebbero apparire umanamente destinati al fallimento… Sostenuti da questa certezza, approfondite la vostra comunione".

 

E. P.