Spunti di meditazione

LA MITEZZA CRISTIANA

Proponiamo ai lettori come tema di meditazione, in questo numero doppio che esce in corrispondenza dei mesi estivi, un breve studio sulla virtù della mitezza cristiana. Don Antonio Petrilli - assistente ecclesiastico del Movimento dei Focolari -, attraverso un'essenziale scelta di passi scritturistici e testi da opere di Santi, ci dà alcuni incisivi spunti su come vivere questa "beatitudine", più che mai attuale nel nostro tempo inquieto e spesso segnato da intolleranze e sopraffazioni.

di Antonio Petrilli

 

Il posto di rilievo che la spiritualità cristiana assegna alla mitezza è quello indicato da Gesù stesso, quando annunciò le beatitudini - « Beati i miti, perché erediteranno la terra » (Mt 5, 5) - e quando disse: « imparate da me, che sono mite ed umile di cuore » (Mt 11, 29).

Queste frasi di Gesù erano strettamente connesse con la fede di Israele, ricordavano espressioni simili contenute nei Salmi e avevano anche riferimento con le profezie. Gesù infatti, proclamandosi mite, attribuiva a sé una caratteristica che secondo la tradizione ebraica era una prerogativa del Messia.

E' quindi utile, per poter discernere in modo più chiaro le qualità specifiche della mitezza, precisare in primo luogo il significato che aveva il termine nei testi biblici.

La parola « mitezza » corrisponde al vocabolo greco praytes che traduce il termine ebraico 'anâwâh. Nei testi biblici, con l'aggettivo 'anâwim vengono designati i poveri di Israele.

Il « povero » ('ânâw), nel senso religioso che l'Antico Testamento e le Beatitudini danno a tale termine, è un essere senza difesa di fronte all'arroganza dei malvagi. Egli soffre la povertà e chiede umilmente soccorso a Dio, ma al tempo stesso si sottomette docile alla sua volontà, confidando in lui e sopportando.il peso della propria situazione senza ribellarsi.

Il vocabolo 'ânâw, quindi, ha un significato che si riferisce non solo alla povertà ma anche alla mitezza. Secondo diversi esegeti, fu per esplicitare questo duplice atteggiamento, caratteristico dei poveri di Israele, che l'evangelista Matteo intese introdurre nella prima beatitudine la specificazione « poveri in spirito » e aggiunse la beatitudine dei « miti ».

La traduzione in lingua greca con l'uso dei vocaboli tapeinós (povero, umile) e prays (mite), è riuscita ad esprimere la densità di contenuto racchiusa nel termine ebraico 'ânâw.

 

La mitezza nell'Antico Testamento

 

In diversi libri dell'Antico Testamento si trovano degli accenni alla mitezza; ma prima di confrontare tali testi conviene leggere un Salmo che, attraverso la celebrazione degli attributi di Dio, sembra contemplare in essi la radice di luce delle varie virtù. E' il Salmo 145, « Lode al Signore re » (vv. 3-9).

« Grande è il Signore e degno di ogni lode,

la sua grandezza non si può misurare.

Una generazione narra all'altra le tue opere,

annunzia le tue meraviglie...

Diffondono il ricordo della tua bontà immensa,

acclamano la tua giustizia.

Paziente e misericordioso è il Signore,

lento all'ira e ricco di grazia.

Buono è il Signore verso tutti,

la sua tenerezza si espande su tutte le creature ».

Ecco apparire tra gli altri attributi la mitezza di Dio.

Altri Salmi celebrano la « dolcezza » della sua bontà: « Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l'uomo che in lui si rifugia » (Sal 34, 9). « Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca » (Sal 119, 103).

La mitezza di Dio è rivelata specialmente da alcune profezie messianiche, nelle quali la maestà regale del Messia si presenta rivestita di mansuetudine:

«Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina» (Mt 21, 5; Zc 9, 9).

« Ecco il mio servo che io ho scelto;

il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto.

Porrò il mio spirito sopra di lui        

Non contenderà, né griderà,

né si udrà sulle piazze la sua voce.

La canna infranta non spezzerà,

non spegnerà il lucignolo fumigante

nel suo nome spereranno le genti ». (Mt 12, 18-21; Is 42, 1-4)

Nel libro del Siracide la mansuetudine è messa in relazione col timore di Dio: « I1 timore del Signore... si compiace della fiducia e della mansuetudine » (1, 24).

« Coloro che temono il Signore non disubbidiscono alle sue parole... cercano di piacergli... tengono pronti i loro cuori e umiliano l'anima davanti a lui» (Sir 2, 18-21).

« Voi che temete il Signore, confidate in lui... sperate i suoi benefici, la felicità eterna e la misericordia » (Sir 2, 8-9).

L'insieme di tali insegnamenti aiuta a delineare la figura dell'uomo mite, che non deve distinguersi soltanto per la serenità e la sua dolcezza verso tutti, ma dev'essere anche umile, raccolto e confidente in Dio, paziente e perseverante nelle tribolazioni, temperante e forte, perché deve saper dominarsi.

L'Antico Testamento offre un esempio vivo dell'uomo mite nella figura di Mosè.

« (Dio) fece sorgere un uomo di pietà,

che riscosse una stima universale

e fu amato da Dio e dagli uomini:

Mosè, il cui ricordo è benedizione...

Lo santificò nella fedeltà e nella mansuetudine;

lo scelse fra tutti i viventi » (Sir 45, 1-4).

Mosè era sensibile alle sofferenze degli oppressi e non sopportava le violenze e i soprusi. Alcuni episodi dell'Esodo ci mostrano in lui una natura impulsiva (cf. Es 2, 11-17); la sua mansuetudine fu l'effetto dell'unione con Dio.

Dal momento in cui il Signore gli si manifestò e gli parlò, rivelandogli il disegno che aveva su di lui, tutta la vita di Mosè poggiò sulla fiducia incrollabile in quelle parole di Dio (« Io sarò con te »; Es 3, 12). Quando gli Israeliti atterriti dall'inseguimento del faraone si ribellarono a lui sulle sponde del Mare Rosso, egli seppe infondere loro la sua certezza: «Non abbiate paura ! Siate forti e vedrete la salvezza... I1 Signore combatterà per voi! » (Es 14, 13-14).

« Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra » - così è scritto nel libro dei Numeri (12, 3) - e per questa virtù egli fu premiato dal Signore. Infatti quando Aronne e Maria parlarono contro di lui egli non volle difendersi, ma fu Dio stesso che intervenne dicendo loro: « egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi... Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè ? » (Nm 12, 7-8).

Nel viaggio attraverso il deserto, il comportamento di Mosè sempre mite e sereno, di fronte ai pericoli e alle avversità, precorre l'insegnamento che daranno le parole di Isaia: « Nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza » (Is 30, 15). Col suo esempio, appare figura di Cristo: guidando gli Israeliti li conferma nella fede, li richiama alla speranza e ricorre anche a miracoli per trasformarli da paurosi, intolleranti, ribelli, in un popolo mansueto che segue docile Dio e crede alla sua promessa.

 

La mitezza nel Nuovo Testamento

 

La parola « mitezza » non compare nei vangeli, ma Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, ricorre spesso ad immagini che esprimono la mitezza.

Egli dice: « Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno » (Lc 12, 32). Predilige questa immagine del « gregge » che dà di per sé l'idea della mansuetudine. Le figure che sceglie per designare quelli che lo seguono sono gli « agnelli », le «pecore», per insegnare che alla violenza e alla rapacità del mondo, essi dovranno contrapporre la loro mitezza: « Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi » (Le 10, 3).

Con la stessa immagine, che richiama alla mente l'offerta sacrificale, Giovanni Battista presenta Gesù nel vangelo: « Ecco l'agnello di Dio » (Gv 1, 29). Lo vede subito come vittima, come la Vittima che Dio si è scelta (1).

L'agnello immacolato che si sacrifica per amore, in riscatto per tutti, raffigura la bontà, la mitezza di Cristo, il suo abbandonarsi fiducioso al Padre.

Un'altra immagine di Gesù è quella del « buon pastore » (Gv 10, 11-14).

La figura del « buon pastore » non è solo d'essere guida, ma anche modello del gregge. I suoi discepoli trovano in lui la loro via e anche la forma del loro essere. Seguendolo, imparano a diventare anch'essi agnelli di Dio: si preparano ad immolarsi come lui, per condividere lo stesso suo destino (cf Mt 16, 24 e par.; Gv 15, 20).

Pur non essendo nominata nei vangeli, la mitezza è però citata spesso negli altri testi del Nuovo Testamento.

Nei primi tempi della Chiesa, essa ha un posto importante, ma di solito è collegata con altre virtù, come un atteggiamento dello spirito che fa parte di un insieme. Nelle prime cristianità di lingua greca è messa in relazione specialmente con l'umiltà e la pazienza, virtù che secondo san Paolo aiutano a stabilire la carità reciproca.

« Come eletti da Dio santi e beneamati, rivestitevi... di tenera compassione, di bontà, di umiltà, di mitezza, di pazienza... perdonandovi scambievolmente » (Col 3, 12).

« Io vi esorto... a condurre una vita degna della chiamata che avete ricevuto, in tutta umiltà e mitezza, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con la carità » (Ef 4, 2).

Nell'espressione in tutta umiltà e mitezza le due virtù sembrano costituire quasi una realtà unica. Il comportamento che S. Paolo raccomanda ai cristiani mostra come si fosse conservata ancora viva l'originaria tradizione ebraica nella quale l'umiltà autentica conteneva necessariamente in sé la mitezza e la vera mitezza aveva la sua radice nell'umiltà. Permangono cioè gli aspetti inseparabili della disposizione di spirito espressa dal termine ebraico 'ânâw.

E' frequente anche l'accostamento della mitezza alla pazienza.

S. Paolo scrive agli Efesini: «il sole non tramonti sulla vostra ira » (Ef 4, 26) e dice a Timoteo: « tendi... alla pazienza, alla mitezza», « un servo del Signore non deve apparire litigioso, ma mite... paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere » (1 Tm 6, 11; 2 Tm 2, 24).

Anche San Giacomo raccomanda la mitezza, che rifugge dalle liti e rende pazienti verso il prossimo: «Che ciascuno sia pronto ad ascoltare, lento al parlare, lento alla collera». «Chi è saggio e accorto tra voi ? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza. Ma se avete nel cuore gelosia e spirito di disputa... questa saggezza non viene dall'alto... Dov'è gelosia e contesa, là v'è disordine e ogni sorta di cattive azioni » (Gc 1, 19; 3, 13-16).

Per il suo legame con la pazienza e per il suo opporsi ad ogni forma di aggressività, la mitezza si accosta anche alla «benignità» (la quale, secondo l'Antico Testamento, è un attributo di Dio). Paolo invita i cristiani a «non essere aggressivi, ma benigni, mostrando una totale mitezza riguardo a tutti gli uomini» (T t 3, 2).

Per. dare forza ai suoi insegnamenti, l'Apostolo si richiama all'esempio di Gesù: « io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo » (2 Cor 10, 1) ed afferma che tale virtù è un dono dello Spirito Santo (Gal 5, 22).

 

Il significato di « mite » nel vangelo di Matteo

 

Mentre il sostantivo praytes (mitezza) lo si trova in diverse « Lettere », l'aggettivo prays (mite) appare nel Nuovo Testamento soltanto quattro volte: nella 1 Pt 3, 4 e in tre passi del vangelo di Matteo.

Il termine « mite » perciò si può considerare caratteristico del primo vangelo; per comprenderne pienamente il senso, occorre confrontare i significati che esso assume in ciascuno dei passi. Questi tre testi di Matteo si riferiscono: alla beatitudine dei miti, all'ingresso di Gesú in Gerusalemme ed a quando egli si proclama maestro « mite e umile di cuore ».

1. La beatitudine dei miti.

Le parole della beatitudine - Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5, 5) - ricordano l'espressione analoga del Salmo 37, 11: « I miti possederanno la terra e godranno di una grande pace».

Quel salmo mirava a rassicurare quanti avrebbero potuto turbarsi vedendo che spesso i malvagi sono nella prosperità, a differenza dei giusti. Li invitava a non irritarsi, perché tale prosperità non durerà ed i giusti attingeranno invece una felicità perenne. Dunque i « miti » di cui parlava il salmo erano coloro che nelle avversità non si ribellavano, ma confidavano in Dio.

Nella beatitudine, Gesù si riferisce alla promessa fatta da Dio ad Abramo (Gen 12, 7; 13, 14-17).

L'espressione « ereditare la terra » secondo la tradizione ebraica non indica solo il suo possesso, ma anche tutti i vantaggi che ne derivano: è simbolo di pienezza di felicità. In realtà, il regno dei cieli non viene presentato nel vangelo come un regno celeste, ma come il regno di Dio che deve venire sulla terra e trovare qui il suo compimento. Per cui, osserva la gran parte degli esegeti, i «miti » dovrebbero attingere la felicità promessa su questa terra: anche se sarà una terra in condizioni totalmente nuove, perché l'avvento escatologico del regno di Dio opererà un rinnovamento totale del mondo (2).

Resta da approfondire chi siano i « miti » di cui parla Gesù nella beatitudine. Per comprendere il significato che Matteo ha inteso dare a questa parola, occorre aver presente gli altri due passi in cui egli ha usato tale termine.

2. La mitezza del Messia

La mitezza viene presentata da Matteo come speciale caratteristica del Messia.

L'evangelista, nell'episodio dell'entrata di Gesù in Gerusalemme, cita la profezia che è nel libro di Zaccaria (9, 9): « Esulta grandemente figlia di Sion... Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina ».

La citazione che Matteo fa di questo testo di Zaccaria (Mt 21, 5) mostra però un cambiamento importante: « Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina con un puledro figlio di bestia da soma ».

Non sono riportate le parole « Egli è giusto e vittorioso ». Il risultato di questa omissione è che l'evangelista concentra l'attenzione sull'unico attributo: il re che arriva è mite. Questo aggettivo dà il senso all'intera scena.

Le Scritture avevano profetizzato la regalità del Messia, perciò Gesù non rigettò le lodi e le acclamazioni che gli vennero tributate al suo trionfale ingresso nella città santa. Ai farisei, che lo sollecitavano in tal senso, egli rispose: « Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre » (Lc. 19, 39-40.

Gesù però volle dare lui stesso le disposizioni circa le formalità del suo ingresso. Sarebbe entrato a Gerusalemme seduto su un'asina, cioè su una cavalcatura pacifica, in contrasto con le cavalcature di guerra dei re che entravano trionfalmente nelle città.

Con questo gesto, Gesù volle dare un'immagine che aiutasse a comprendere il Messia nella giusta luce, come un re mansueto che rifiuta la violenza e la guerra.

Egli infatti, pur avendo in sé la potenza di Dio, non avrebbe fatto ricorso a mezzi straordinari o a prodigi per compiere la sua missione.

È nel racconto della Passione, specialmente in quello di San Giovanni, che la mitezza viene in rilievo come caratteristica della regalità del Messia. A Pilato che gli chiedeva se fosse il re dei giudei, Gesù spiegò: « I1 mio regno non è di questo mondo... Allora Pilato gli disse: Dunque tu. sei re ? Rispose Gesù: « Tu lo dici; io sono re » (Gv l8, 36-37).

Furono i soldati, provocandolo coi loro scherni, a mettere in risalto che tale regalità si ammantava di mansuetudine. Dopo averlo flagellato, « intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora » (19, 2).

Così lo mostrò Pilato alla folla: « Ecco l'uomo! » (19, 5). Non sapeva di presentare il Messia nella sua vera immagine, annunciata dalle profezie: « Era come un agnello mansueto che viene portato al macello » (Ger 11, 19), « era come pecora muta di fronte ai tosatori, e non aprì la sua bocca » (Is 53, 7).

Infatti, in mezzo alle urla che chiedevano la sua condanna a morte ed anche poi, quando l'ebbero crocifisso, Gesù taceva; mentre si levavano attorno a lui gli insulti e le derisioni: « Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso » (Lc 23, 37). « Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo » (Mc 15, 32), « Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene » (Mt 27, 43).

Chiedevano un prodigio: per rivelare la sua potenza, il Messia amò servirsi della mitezza.

Rifiutando la violenza, Cristo diventò « segno di contraddizione ». Si avverò la profezia che aveva fatto Simeone, quando il Messia bambino era stato presentato al tempio (Lc 2, 34).

Non poteva essere altrimenti. Per coloro che vogliono conquistare il mondo coi mezzi delle armi, dell'odio, della distruzione del nemico, la mitezza è sinonimo di debolezza, è foriera di disfatta. Per cui, restano incomprensibili certe parole di Gesù, come: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti » (Mt 5, 43-45); « io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra » (Mt 5, 39). E' un linguaggio che appare paradossale anche oggi, per una mentalità materialista che cerca invece il proprio benessere, la comodità in tutti i sensi, il non soffrire.

Ma egli viene dall'alto e come dice Giovanni Battista di lui: « Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito » (Gv 3, 31-32).

Gesù insegna a vivere come si vive in cielo, spiega il discorso delle beatitudini col suo esempio: facendosi povero, umile, mite, puro, pacifico, misericordioso, capovolge i valori e conferisce significati e contenuti nuovi a ciò che il mondo rigetta e disprezza.

Mentre nel discorso della montagna Gesù annuncia la dottrina della vera giustizia, altre volte smaschera e condanna la falsa giustizia degli scribi e dei farisei, apostrofandoli con violenza inaudita: ,« Guai a voi, scribi e farisei ipocriti... guide cieche... sepolcri imbiancati... serpenti, razza di vipere... » (M t 23). E nel tempio lo vediamo compiere un gesto di forza, rovesciando i banchi dei cambiavalute e cacciando i mercanti che profanavano la casa di Dio, che è casa di preghiera: « Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri ! » (Mc 11, 17).

E' proprio questo comportamento deciso e forte di Gesù che offre spunti per una comprensione più profonda della mitezza. Questi episodi fanno capire che la mitezza cristiana non è la debolezza degli imbelli, l'acquiescenza, il conformismo, la tolleranza tacita e supina del male, per paura delle conseguenze che possono derivare dalla sua denuncia, ma è la franchezza e il coraggio del comportamento e del linguaggio dei martiri, che non temono di testimoniare la verità e il loro amore a Dio, ma affrontano i rischi che questa testimonianza comporta.

Non sempre è facile per il cristiano vivere la mitezza nella linea evangelica che Gesù ha tracciato col suo esempio, cioè saper discernere nel comportamento verso il prossimo, ciò che è doverosa denuncia del male, proclamazione o difesa della verità, da ciò che può essere invece sfogo dei propri istinti, mancanza di controllo, di padronanza di sé. I « Guai ! » che Gesù non ha risparmiato ai farisei e agli scribi, la violenza con cui ha scacciato i mercanti dal tempio, possono trarre in inganno e cancellare nel nostro cuore quella mitezza e quell'umiltà che mai venivano meno in Gesù e davano ai suoi gesti e alle sue parole la forza e l'efficacia del vero amore a Dio.

II cristiano può riuscire a comportarsi come tale, solo se è un « altro Cristo », se è unito intimamente a Dio e quindi riesce a cogliere dentro di sé la voce e le mozioni dello Spirito Santo e si lascia guidare soltanto da Lui.

3. Imparate da me

L'altra citazione che Matteo fa della parola « mite » è contenuta nella frase di Gesù: imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29).

E' una frase che colpisce. Viene infatti da chiedersi perché Gesù, fra tutte le virtù che avrebbe potuto nominare e attribuire a sé, ha preferito qui scegliere proprio queste due - la mitezza e l'umiltà - e ha voluto quasi riassumere in esse l'insegnamento del suo esempio.

Conviene perciò soffermarsi sul significato di questa frase, esaminandola nell'intero contesto dell'espressione pronunciata da Gesù (Mt 11, 28-30)

« Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero ».

Questo testo è di solito interpretato mettendolo in relazione con quei passi del vangelo in cui Gesù condanna il comportamento dei farisei, perché nell'applicare la Legge ponevano sulle spalle degli Israeliti pesanti fardelli, imponendo loro un giogo insopportabile (Mt 23, 4; Lc 11, 46). Qui egli dichiara che il giogo suo, quello della nuova legge, è invece leggero e anche dolce, perché lo si porta con gioia.

Pur mantenendo al testo tale significato, è però anche possibile supporre una prospettiva più universale: Gesù certamente intendeva rivolgersi ai presenti, ma forse nelle loro sofferenze egli vedeva riflettersi quelle di tutti gli uomini, di ogni tempo.

Inoltre, dopo l'evento della Passione, queste parole di Gesù - « Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi... » - sembrano esprimere anche un altro significato: richiamano alla nostra niente l'immagine della Croce che gravò sulle sue spalle.

Possiamo chiederci, allora: ma le sofferenze degli uomini non saranno state anche per Gesù un richiamo a quel mistero sempre presente al suo spirito, che egli chiamava l'« ora sua » (cf ad es. Gv 12, 23-27; 13, l; 17, 1)?

In questa chiave di lettura, le sue parole sembrano oggi suonare come un invito, rivolto a tutti gli affaticati e oppressi, a scoprire nel loro dolore la somiglianza col « suo » dolore e a soggiogarsi alla loro croce, per condividere il peso della Croce che fu il « suo giogo » (cf. Mt 10, 38 e par.).

E' a questo punto che Gesù aggiunge: « ...e imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime ».

Non basta prendere su di sé la propria croce per amore di Cristo, ma bisogna imparare a portarla come l'ha portata lui, con la sua « mansuetudine » e con la sua « umiltà ».

« II mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

II giogo della legge nuova non è il carico pesante e insopportabile che i farisei imponevano, ma è un giogo d'amore. E' amare Gesù, farsi uno con lui, per amare col suo stesso amore. L'ombra del dolore sparisce in questa luce e resta solo la gioia dell'unione con Dio.

Dall'esame dei passi nei quali la parola « mite » è applicata da Matteo alla persona di Gesù, si può concludere che i miti a cui si fa accenno nella beatitudine sono coloro che si oppongono ai malvagi non con la violenza dell'odio, ma debellando il male e conquistandoli con la forza dell'amore che Gesù ha rivelato con l'esempio della sua vita e specialmente con quello della sua morte.

 

Fecondità della mitezza

 

Nella descrizione che San Luca dà della crocifissione si legge che c'erano, assieme a Gesù, due ladri condannati allo stesso supplizio.

« Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo ? Salva te stesso e anche noi ! ". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena ? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gli rispose: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso" » (Lc 23, 39-43).

La conversione del ladrone sarebbe avvenuta proprio sulla croce e in essa, quindi, ebbe un valore determinante l'atteggiamento di Gesù durante il suo supplizio.

Fu l'esempio di mansuetudine che Gesù dava, non reagendo agli insulti ma perdonando i suoi crocifissori, che lo spinse a rimproverare l'altro, lo rese umile, mansueto, confidente solo in Dio.

In questo episodio si trova, inoltre, la prima testimonianza che l'uomo mite riceve il premio promesso. Testimonianza inconfutabile, perché confermata da Gesù stesso: "oggi sarai con me nel paradiso".

 

La mitezza nell'insegnamento dei santi

 

I Padri della Chiesa, nei loro commenti all'Antico e al Nuovo Testamento, danno vari insegnamenti sulla mitezza.

Essa viene presentata come docilità a Dio, fatta di abbandono filiale alla sua volontà, e sul piano morale è definita come dominio e moderazione degli istinti di aggressività, per una serena padronanza di sé.

Fondamentalmente, nel pensiero dei Padri, la mansuetudine appare come conformazione a Cristo: non esprime debolezza, ma è un amore forte, esigente, che si fonda sul rinnegamento di sé.

In un suo commento alle Beatitudini, così scrive Sant'Agostino: « Ecco che cos'è essere mite: non resistere al tuo Dio; nel bene che tu fai compiacerti di lui, non di te stesso; nei mali che ti sono giustamente inflitti, dispiacerti di te stesso, non di lui » (3).

S. Agostino dà anche quest'altra definizione dei miti: « I miti sono coloro che accettano le avversità e con il loro non-resistere, con il bene vincono il male » (4).

Citazioni sulla mitezza si trovano particola mente in San Giovanni Crisostomo:

« Dio stesso, creatore dell'universo, pur potendo lanciare la sua folgore contro chi lo offende e lo bestemmia, fa sorgere il sole, manda la pioggia e continua a ricolmare tutti i mille altri doni. Dobbiamo quindi imitare anche noi Dio, consigliando, esortando,. correggendo con mansuetudine coloro che ci offendono, senza farci mai trascinare dall'ira... La mansuetudine è infatti più forte ed efficace c qualsiasi violenza » (5).

« Chi perdona le offese giova all'anima propria e a quella di colui che è stato perdonato in tal modo infatti egli lo rende più mite. Vendicandoci non riusciamo a ferire l'anima di chi ci ha offeso tanto, quanto perdonandogli. Rispondendo alle offese con la mitezza annulliamo la sua ira » (6).

L'intima connessione che la mitezza ha con le altre virtù la troviamo affermata anche negli scritti che esprimono l'esperienza mistica dei santi.

San Giovanni della Croce nel « Cantico Spirituale » descrive questa intima unione delle virtù fra loro, immaginandole tutte intrecciate da un crine d'amore dell'anima, che l'aura dello Spirito Santo fa ondeggiare movendo le virtù all'esercizio dell'amor divino. Egli spiega che esse stanno intrecciate nel crine dell'amore « con tale ordine che, quando se ne rompesse una, subito cadrebbero tutte le altre, poiché come dove si trova una si trovano tutte, coi pure dove ne manca una, mancano tutte » (7).

Anche per Santa Caterina di Siena 1'armoni che lega insieme le virtù ha il suo fondamenti nell'amore. Nel « Dialogo della Divina Provvidenza » dice: « La carità dà vita a ogni virtù... elle sono tutte legate insieme nell'affetto della carità » (8).

Caterina riporta tra l'altro questa spiegazione, che in dialogo le dà il Signore, di come l'uomo, amando il prossimo, prova e fortifica le proprie virtù attraverso i loro contrari: « ...ti dico che nel prossimo (l'uomo) pruova in sé medesimo la virtù della pazienza nel tempo della ingiuria che riceve da lui... La benignità e mansuetudine del tempo dell'ira si manifestano con la dolce pazienza... Anco ti dico non tanto che si pruovi la virtù in coloro che rendono bene per male, ma... che spesse volte getterà carboni accesi di fuoco di carità, il quale dissolve l'odio e il rancore del cuore e della mente de l'iracondo, e, da odio torna spesse volte, a benevolenzia » (9).

Il beato Giovanni Ruysbroek dà questa definizione della mitezza: « sopportare con calma ». Con tale virtù, l'uomo riesce a sopportare ogni genere di minacce restando sempre nella pace; e questa pace, afferma Ruysbroek, è il segno della presenza di Dio nell'anima: « Lo Spirito di Dio infatti riposa nell'uomo umile e mite » (10).

Fonti di notevoli insegnamenti sulla mitezza sono le opere del grande maestro di spiritualità San Francesco di Sales. Egli vede questa virtù come il « fiore della carità ».

Nell'« Introduzione alla vita devota » spiega che, mentre l'umiltà perfeziona davanti a Dio, la mitezza aiuta a perfezionarci specialmente nei riguardi del prossimo. Afferma che il suo ruolo è fondamentale per reprimere la collera - « Niente vince l'elefante infuriato quanto la vista di un agnello » - e consiglia di praticare questa virtù in modo particolare verso se stessi, poiché la mitezza libera il cuore dall'orgoglio e dall'amor proprio: « Non indispettiamoci mai per le nostre imperfezioni » (11).

Ma forse la spiegazione più profonda di questa importanza data alla mitezza è che la spiritualità di S. Francesco di Sales è fondata sull'amore. Egli diceva: « Bisogna far tutto non per forza, ma per amore » (12).

Nelle esperienze dei santi possiamo cogliere innumerevoli riflessi della mitezza di Gesù: le sue parole « imparate da me, che sono mite e umile di cuore » hanno suscitato esempi di sublime imitazione.

Basta ricordare quello di San Francesco di Assisi. Contemplando Cristo, egli lo imita al punto da diventarne, a detta di molti, l'immagine più fedele: spogliandosi di sé, si riveste della sua povertà, umiltà e mansuetudine.

Col suo esempio, suscita attorno a lui una schiera di discepoli e li vuole poveri, umili, mansueti, semplici, come i «piccoli» del vangelo, onde annunciare con la loro vita le Beatitudini.

La dolcezza e la tenerezza del suo amore si espandono in un abbraccio universale all'intero creato, conquistano migliaia di cuori: i potenti si inchinano davanti a lui, i violenti sono disarmati dalla forza irresistibile della sua mansuetudine.

 

La mitezza di Maria

 

In Maria Santissima, che la Chiesa indica come modello di perfezione (13), risplende in modo eminente la virtù della carità. In lei le altre virtù sono così compenetrate, così armonicamente unite dall'amore, che quasi non si distinguono nello splendore della carità.

Ma ci fu, nella vita di Maria, un momento in cui la sua carità raggiunse un vertice. Fu nella sua desolazione, ai piedi della Croce: in quel culmine la luce della carità sembrò rifrangersi - per così dire - e moltiplicarsi nei vari fulgori di tutte le virtù.

Chiara Lubich, in un suo scritto su Maria Desolata, così si esprime:

« Maria Santissima ai piedi della croce, nello straziante "stabat" che fa di Lei un mare amaro di angoscia, è l'espressione più alta, in umana creatura, dell'eroicità di ogni virtù. Ella è la mansueta per eccellenza, la mite, la povera fino alla perdita del suo Figlio che è Dio, la giusta che non si lamenta d'esser privata di ciò che le appartiene per pura elezione, la pura nel distacco affettivo a tutta prova dal suo Figlio Dio... In Maria Desolata è il trionfo delle virtù della fede e della speranza per la carità che l'accese durante tutta la vita e qui l'infiammò nella partecipazione così viva alla Redenzione.

Maria Santissima ci insegna nella sua desolazione, che l'ammanta di ogni virtù, a coprirci di umiltà e di pazienza, di prudenza e di perseveranza, di semplicità e di silenzio perché nella notte di noi, dell'umano che è in noi, brilli per il mondo la luce di Dio che abita in noi. Maria addolorata è la Santa per eccellenza, un monumento di santità cui tutti gli uomini che sono e saranno possono guardare per imparare a rivestirsi di quella mortificazione che la Chiesa da secoli insegna e che i santi, con note diverse, hanno in tutti i tempi riecheggiato » (14).

Nella sua desolazione, Maria è modello di perfetta mitezza per ogni cristiano. Nessuno ha vissuto, come lei, le parole di Gesù: « Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore ».

Nel suo strazio impotente, appare crocifissa con Cristo: all'umiltà dell'Uomo Dio "annichilito" sulla croce, fa da eco l'annientamento della Madre.

Ella sta davanti a Lui: mite, si lascia trapassare dalla lama che Simeone aveva profetato: docile, accoglie il taglio più atroce che poteva esserle inferto e offrendo quel vuoto incolmabile, dimentica di sé, si fa uno col Figlio, condividendo fino all'ultimo il suo martirio.

La testimonianza di Maria rappresenta il vertice della mitezza espresso in una creatura.

Antonio Petrilli

 

Note

(1)             Così commenta Chiara Lubich nei suoi Scritti spirituali, vol. II. Saper perdere

(2)             cf. J. Dupont, Les Béatitudes, III. Paris 1979, Ch. VII.

(3)             Sermo 53, 2, PL 38, 365.

(4) De sermone Domini in monte, I, 2, 4, PL 34, 1232.

(5) Om. 1 Ts 10, 3.

(6) Om. Ef 16, 2-3.

(7) Cantico spirituale, Strofa XXXI, 4.

(8) Dialogo della Divina Provvidenza, cap. VII.

(9) Ibid

(10) L'ornamento delle nozze spirituali, cap. XVI.

(11) Introduzione alla vita devota, Parte III, cap. VIII, IX.

(12) cf Dictionnaire de Spiritualité, Tome III, col. 1683.

(13) cf Lumen Gentium, n. 65.

(14) C. Lubich, Frammenti, Città Nuova, Roma 1963, p. 188.