L'esperimento della malattia nella testimonianza di un sacerdote

INCONTRO CON L'AMORE

 

Nell'ambito della tematica proposta sulla visione cristiana della malattia e della sofferenza umana, riportiamo questa testimonianza di un sacerdote, don Enrico Coccolo - attualmente parroco nella diocesi di Torino -, che molti lettori già conosceranno per altri interventi sulla nostra rivista. L'esperienza della malattia, accettata e vissuta cristianamente, diventa in positivo la via privilegiata d'incontro con l'Amore e la Vita.

di  Enrico Coccolo

 

« A lei lo posso dire: - sentenziò il dottore, dopo esami e visite accurate - l'infarto sovrasta la sua vita come una spada di Damocle. Lei sa ormai di che dovrà morire ».

A cinquant'anni, era la prima volta nella mia vita che provavo una vera insicurezza nella salute. Dopo un primo momento di turbamento, che mi richiamò qualcosa dell'angoscia di Gesù di fronte alla Sua agonia, nacque dentro di me un sereno abbandono a Dio: « La mia vita 2"i appartiene; fa di me quello che Tu vuoi ». Ed anche la parrocchia e i parrocchiani cominciai a sentirli meno "miei", e più di Dio...

La nuova situazione ridimensionò le mie scelte, e pose limiti ai miei desideri di fare apostolato, fino ad allora molto attivo e dinamico. Fu così che mi ritrovai più attento a vivere la volontà di Dio nel presente, e soprattutto ad essere nell'amore in quelle poche cose che mi erano concesse di fare. E mi sembrò che acquistassero un elemento di efficacia in più. « Sai che la tua vita è in pericolo, ma ti vediamo così sereno come se nulla fosse » - mi dicevano alcuni, stupiti; altri trovavano proprio in ciò motivo di conversione.

Anni prima, qualcuno mi aveva consegnato, quasi come « programma » di vita, le parole di Gesù: « Io sono la vite, voi i tralci ». E mi ero un po' spaventato: « I tralci devono essere potati - mi dicevo--; cosa vorranno dire per me queste parole di Gesù ? ». Ora cominciavo a capire qualcosa. Dio è Amore, e se ricorre alla potatura è perché si porti più frutto.

Nell'arco di cinque mesi fui ricoverato per tre volte in ospedale. L'ultima degenza fu la più lunga, trentacinque giorni. Una camera a otto letti, e una situazione in cui, come prete, non potevo e non dovevo esercitare, ma solo amare. Avevo preso con me un cartoncino, con su stampata una meditazione che iniziava così: « Ho un solo Sposo sulla terra, Gesù crocifisso e abbandonato »... E a Lui guardavo, offrendogli ogni mattina tutto me stesso, perché l'Amore con cui ci ha amati fosse presente attraverso me in quel reparto d'ospedale. Non potevo fare gran che, obbligato com'ero a stare a letto: ma ciò mi facilitava l'ascolto .di chi veniva a raccontarmi i propri problemi di salute, o di famiglia, di lavoro, di coscienza. Per lo più non avevo risposte o soluzioni e tanto meno - in quelle condizioni - aiuti da dare. L'unica cosa che potevo fare era offrirmi a Dio Padre come «prezzo», per ognuno di loro.

Intanto si diffondeva attorno un alone di simpatia. Il mio vicino di letto si dichiarava marxista, ma aveva sempre la delicatezza di escludermi dalle sue critiche. «Lei è diverso» - diceva; ed era felice di poter dividere con me le cose che sua moglie gli portava, e di presentarmi i parenti ed amici che venivano a trovarlo. C'era poi Massimo, un ragazzo di 17 anni che si diceva anarchico, degente in un'altra camera: ma ne scappava spesso, e veniva da me. Mi parlava dei suoi ideali, contento di trovare talora punti .di contatto col cristianesimo. Arrivava soprattutto la sera dopo cena, si sedeva sul mio letto, poi pian piano ne giungevano altri. E si restava lì finché la suora, pur contenta, doveva suo malgrado mandare tutti a letto.

Ogni mattina ricevevo Gesù Eucaristia. Dal momento in cui arrivava il cappellano si ~ faceva nella stanza il più profondo silenzio. Sembrava d'essere in Chiesa. Era come se tutti, facendosi uno con me in quel raccoglimento, vivessero della mia fede, del mio amore a Lui. E si restava in quel clima soprannaturale finché io per primo non rompevo il silenzio.

A1 momento di lasciare l'ospedale, la suora caposala mi ringraziò, nel salutarmi: «La sua presenza ha cancellato l'impressione negativa lasciata a malati e personale sanitario da una persona di Chiesa, ricoverata prima di lei in questa stessa stanza». Anche il cappellano aveva notato il clima di serenità e di simpatia verso la religione che s'era creato: « Hai fatto più tu con la tua presenza cristiana di malato che io col mio ministero attivo di sacerdote »...

 

In attesa dell'« appuntamento »...

 

Venivo dimesso con la chiara motivazione del primario: «Lei è un cardiopatico da sottoporre ad intervento chirurgico di by pass alla coronaria circonflessa». L'operazione comportava un intervento a cuore aperto con circolazione extracorporea e con tutti i rischi e gl'imprevisti connessi. A quel tempo, la cardiochirurgia dell'ospedale Molinette di Torino non era attrezzata per operazioni del genere, per cui mi orientarono all'ospedale cardiologico di Lione. Diedi subito il consenso. Lo stesso giorno era arrivata da Lione la notizia che il Vicario generale della diocesi di Alba, sottoposto al medesimo intervento, era deceduto sul tavolo operatorio.

Tornai in parrocchia per alcuni mesi, in attesa del giorno fissato per il ricovero. Fu una attesa serena, ma anche di purificazione. Ogni impegno di ministero poteva esser l'ultima volta che lo esercitavo. E così vivevo il mio sacerdozio come chi vede spezzarsi via via tutti i fili che lo legavano sulla terra. Il dolore dei tagli, quindi, ma anche la pace e la serenità del sentirsi sempre più solo di Dio... La settimana precedente il ricovero si svolgeva a Pescara il Congresso Eucaristico Nazionale; e ricordo che, non potendo intervenire, mi vennero in mente le parole di Paolo su Gesù che, «pur essendo di natura divina, annientò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte di croce». Questo potevo fare: offrire a Dio - per l'esaltazione di Gesù Eucaristia nel cuore di molti - il mio piccolo calvario che stava per iniziare.

Venne il giorno della partenza. Estrassi dal guardaroba quanto di meglio avevo per vestirmi; ma il soprabito era già un po' consunto. «Non è degno di uno che va a nozze» - disse don Vincenzo, che mi accompagnava. L'incontro col dolore, forse con la morte, era un andare all'appuntamento con lo Sposo... E, sfilandosi il suo soprabito quasi nuovo, me lo diede.

Poi scesi in chiesa per salutare Gesù. Lo ringraziai per tutto ciò che mi aveva dato nei miei cinquant'anni di vita, e gli riconsegnai tutto quanto mi aveva affidato, raccomandandogli quelle cose che avevo più a cuore. Non erano più mie. Andando alla stazione mi sentii leggero come mai, quasi che niente più mi legasse, neanche le cose più belle e buone. Era come ripetere con Gesù, non nel dolore, ma nella gioia, « adesso tutto è compiuto ». Dal finestrino del treno salutavo don Vincenzo e don Renato rimasti sotto la pensilina, con il pollice alzato, piccolo segno dell'unica realtà che rimaneva e ci legava, Gesù tra noi.

 

«Che bella casa Dio mi ha preparato»

            Mi accompagnava a Lione don Sergio Fedrigo. Alcuni giorni dopo ci raggiunse don Giovanni Gullino. E, a turno, uno di loro restava con me, per garantirmi sempre la realtà viva dell'amore scambievole.

Quando giunsi dinanzi all'imponente Hôpital Cardiologique di Lione, non mi trattenni dall'esclamare: «Che bella casa Dio ha preparato per me!»... I primi giorni trascorsero tra visite, esami ed analisi. Molti dottori s'interessavano al mio caso. L'amore di Gesù in me, che fioriva dalla sofferenza, sembrava esser luce ancor più qui, fra gente che non conoscevo e che parlava un'altra lingua. Il cardiologo a cui ero affidato mi disse un giorno, mentre lo ringraziavo della sua attenzione: «Vous étes un malade calme et agréable». Un'altra volta venne a trovarmi un giovane medico che non avevo mai visto; dopo la visita mi si pose dinnanzi, e cominciò a dirmi dei suoi problemi di fede.

Due giorni prima dell'operazione, il chirurgo mi chiamò nel suo studio: « A lei posso dire tutto quello che le farò ». E prese a spiegarmi le fasi dell'operazione, alternando le spiegazioni alle domande che io via via gli rivolgevo. Alla fine esclamò meravigliato, rivolto alla sua segretaria: «Che malato originale è questo prete! Ascolta e chiede come se andasse incontro alla cosa più semplice di questo mondo!». In realtà, dinanzi ai disagi presenti e a quelli maggiori che mi attendevano non sentivo più di parlare a me stesso o ad altri di « croce ». Mi sembrava di fare un torto a Dio, se pure la croce c'era. Ma preferivo parlare di Amore suo, poiché era quella l'esperienza che vivevo, la realtà che mi avvolgeva...

 

Amore e dolore, un « gioco » di predilezione

 

Ed arrivò il giorno dell'operazione. Feci meditazione, al mattino, con don Giovanni e Gérard (un focolarino di Lione); nel momento in cui mi avvicinavo al culmine di questa mia «avventura», non riuscivo a desiderar che una cosa soltanto: avere Gesù Abbandonato con me da amare, da prediligere, da serrare a me. Ricevetti poi Gesù Eucaristia, come sigillo al mio cuore.

All'infermiere che venne a prendermi in barella cercai il più possibile di facilitare il compito. Cercando di essere amore, mi accorgevo di scoprire ognuno, accanto, come strumento prezioso dell'Amore di Dio per me. Nell'anticamera .della sala operatoria s'avvicinò un medico. Mi chiese se ero tranquillo; poi mi disse: «Mi dia il braccio». Capii che si trattava dell'anestesia totale. La parola di vita in quel mese era « Dio ama chi dona con gioia »: me ne ricordai, e gli porsi il braccio sorridendo. Poteva esser quello il mio ultimo gesto cosciente; e se non fossi sopravvissuto all'operazione, la chiamata di Dio mi avrebbe colto in quest'ultimo piccolo atto d'amore e di fedeltà alla sua Parola. L'effetto dell'anestesia fu istantaneo. Non seppi mai com'era fatta la sala operatoria.

Quando mi svegliai, mi accorsi da un piccolo movimento del mento di esser già stato operato, e non sentivo dolore. Ne ringraziai Dio. Col diminuire dell'effetto dell'anestesia, prendevo coscienza di trovarmi in camera di rianimazione, e intanto il dolore andava sensibilmente aumentando. Ero immobilizzato con tubi e fili da ogni parte, collegati al monitor e al respiratore, il cui rumore non dava tregua né di giorno né di notte. Ma non capivo quando era giorno o notte; dietro il vetro che delimitava lo spazio del letto vagamente vedevo passare qualche camice verde. Il più piccolo movimento aumentava la sofferenza, mentre un abbondante sudore m'inondava tutto il corpo. Ad intervalli veniva un'infermiera ad asciugarmi il volto - un piccolo atto di amore che m'appariva enorme, in quelle condizioni. Anche il dottore talvolta si avvicinava al mio letto per gli interventi del caso, non sempre indolori...

Con l'esterno nessun rapporto. Finché non vedo accanto, a me un camice verde: era il cappellano dell'ospedale, che veniva per pochi secondi a darmi un saluto: «Il suo amico sacerdote mi ha detto di fare solo così», ed alza il pollice della mano. « Ho capito », gli dico con l'unico sorriso che mi riuscì di fare, nel tempo di permanenza in camera di rianimazione. Non ero solo...

Due giorni dopo mi ricondussero nel reparto, e fu come una liberazione. In camera trovai mio fratello, pure lui sacerdote e appena arrivato dall'Italia, che mi porge un biglietto: il card. Ballestrero, da pochi giorni arcivescovo di Torino, mi mandava i suoi auguri e la sua benedizione. Ne fui felicissimo, scorgendovi un segno della predilezione di quel Dio Padre a cui mi ero offerto.

Aver lasciato la camera di rianimazione non voleva dire esser fuori pericolo. Mi era giunta l'eco di tanti che, in quei giorni, pregavano per me; mio fratello mi aveva assicurato la preghiera anche dei suoi parrocchiani. E fu allora che mi accorsi di come, tutto intento a viver meglio possibile il mio stato di malato, non avessi mai chiesto il dono della guarigione, e me ne vergognai un po'. Provai anch'io a chiedere questa grazia, per essere unito agli altri in questa intenzione: ma lo feci solo poche volte. La compagnia di Gesù crocifisso e abbandonato, fattosi Sposo della mia vita, mi riempiva, mi appagava: in Lui trovavo tutto l'Amore di Dio.

 

II « santuario » d'un incontro indimenticabile

 

Ben presto potetti lasciare il letto e muovere i primi passi, con l'aiuto del fisioterapista; non molto tempo ancora, e fui nuovamente autonomo nei movimenti per il reparto. Nell'ospedale c'erano altri inalati venuti dall'Italia e, com'è comprensibile, l’amicizia con loro fu subito facile. E mi sentivo dire da molti «Venga a trovarmi più spesso, la sua compagnia mi solleva, quella dei parenti mi stanca». C'è stato anche chi ha voluto farsi accompagnare da me fin sulla soglia della sala operatoria, non da altri. E nei casi - abbastanza frequenti - in cui il malato si lascia prendere da crisi depressiva, il dottore o la caposala sapevano cosa fare: « Chiamate il prete italiano »...

Anche col personale sanitario s'instauravano, tra una cura e l'altra, rapporti profondi: l'infermiera separata dal marito, il medico iscritto alla massoneria, la ragazza diciannovenne con i suoi problemi col fidanzato... Tutte persone che da anni non avevano rapporto con la Chiesa. E così mi trovai a riscoprire in una nuova.dimensione - e con frutti nuovi – quell'« apostolato » che, causa malattia, avevo dovuto mettere da parte.

Dopo due mesi di permanenza fui dimesso dall'ospedale, e feci ritorno in Italia. Tre mesi di riposo, e riprendevo il mio posto in parrocchia.

Erano passate poche settimane. Una sera mi sento triste. Don Osvaldo, il sacerdote che vive con me, se ne accorge: « Qualcosa che non va? ». « No, no, va tutto bene - gli rispondo - ho solo un po' di... nostalgia d'ospedale! »...

Sono passati da allora quasi sette anni. Ogni anno torno in Francia dal mio cardiologo per una visita di controllo; e lui sempre mi conferma, finora, che i buoni risultati ottenuti con l'operazione si mantengono. A volte mi vien da pensare che potrei fare a meno di andare fin là, mentre anche a Torino ci sono bravi cardiologi: ma quella visita di controllo annuale a Lione è in realtà il pretesto per poter tornare. E ogni volta per prima cosa passo in cappella a ringraziare Gesù. Quell'ospedale è per me come il mio « santuario », dove Lui più intensamente e apertamente, nel dolore, mi si è manifestato gaudio, pace, libertà... mi si è manifestato Amore.

Enrico Coccolo