Il convegno dei diaconi permanenti tenutosi a Rocca di Papa

DIACONATO: UNA VIA PER I NOSTRI TEMPI a cura di Mauro Bartolini

 

Dedichiamo il presente numero - con questo "reportage", e con la pubblicazione di una parte degli atti - al convegno che ha riunito al Centro Mariapoli di Rocca di Papa una quarantina di diaconi permanenti italiani ed europei: l'opportunità per uno sguardo approfondito sulla realtà "nuova" di questa vocazione ministeriale, tanto importante nella fisionomia della Chiesa postconciliare.

 

Arrivi, e già respiri un’umanità « piena », una solidità di vita che - diciamolo - non sempre è usuale in convegni o esercizi spirituali. Persone mature, alcune con più di qualche capello bianco, professionisti, operai, padri di famiglia, pensionati... Eppure, una schiettezza e semplicità di rapporti che ti fanno subito ritrovare in famiglia.

Siamo al primo convegno dei diaconi permanenti promosso dal Movimento sacerdotale dell'Opera di Maria, tenutosi dal 10 al 13 gennaio al Centro Mariapoli di Rocca di Papa. Una quarantina i partecipanti - tra diaconi ordinati e aspiranti - in gran parte italiani, provenienti dalle diocesi di Torino, Casale, Milano, Piacenza, Chiavari, Vicenza, Treviso, Belluno, Trento, Venezia, Cesena; e con un tedesco, un austriaco, uno svizzero e un belga a completare il quadro di una rappresentanza ristretta, ma ben consapevole della preziosità d'un tale ritrovarsi, e decisa a farne un punto di partenza per ulteriori tappe di « viaggio ». Atmosfera cordialmente festosa, dunque, ma... da grandi occasioni.

L'occasione è prima di tutto quella - alquanto rara - di poter vivere tra diaconi una esperienza di comunione, di scambio vitale che è certamente luce per chi s’è incamminato in una via vocazionale nuova e dunque giovane, ancora alla ricerca di una sua piena definizione. Già in qualche diocesi - come in duella di Torino - si va realizzando tra diaconi una esperienza di vita tipicamente comunitaria, con frutti notevoli di crescita spirituale e di vivacità vocazionale. E l’esigenza di poter formare un vero « corpo » diaconale è quanto mai avvertita dovunque.

 

Vivere un'unità « trinitaria »

 

Tuttavia - lo si è subito capito - l'identità del diacono non è tanto da ricercarsi in se stessa, ma nel dono di sé. « La soluzione dei problemi del diaconato (a cominciare dal suo ruolo tra sacerdozio e laicato fino alle difficoltà giuridico-amministrative del suo pieno inserimento nel presbiterio) è solo l'unità - avvertiva già nel presentare il convegno don Silvano Cola, che ha coordinato i vari momenti -; e senza l'unità nella comunità ecclesiale il diaconato perde di senso, non si comprende più nel suo vero significato».

A questa idea-chiave don Cola, schizzando le linee ispiratrici del programma, ha aggiunto subito un altro punto fondamentale: « L'importanza della presenza del diacono nel presbiterio non è funzionale, ma ha valore in sé, soprattutto in quanto presenza di sposati », che arricchisce in modo qualitativamente nuovo la comunione presbiteriale. Un punto, questo, col quale il Concilio ha dischiuso prospettive fortemente innovatrici, rimaste comunque in gran parte insondate.

Intanto, la singolare coincidenza con un convegno parallelo di sacerdoti, svoltosi anch'esso al Centro Mariapoli, è stata per i diaconi l'opportunità di vivere subito, nelle pause del programma e nei momenti comuni, la realtà di questo reciproco arricchimento. « Un rapporto nuovo, di vera condivisione tra fratelli », commentava qualcuno. Già, perché l'unità evangelica - che è la vita della Chiesa - non è sottomissione, e neppure l'uniformità dell'identico, ma quella comunione fra «distinti» che rende uguali e diversi - ed ha la sua radice nell'uni-trinità divina.

Questo, anche, il tema che don Cola ha svolto nella sua successiva relazione, « L'unità nel presbiterio » - che insieme alle altre di don Vincenzo Chiarle e don Enrico Pepe (rispettivamente su «L'ecclesiologia del Vaticano II e il diaconato » e « Il diacono costruttore di comunione », di cui diamo pubblicazione su queste pagine) ha dato il « tono » fondamentale all'incontro. « La comunione nel presbiterio non è in vista dell'apostolato, né di altre cose buone o anche sante: essa è di per sé "santa", perché è la vita cristiana stessa ». Nei riguardi del vescovo, « ognuno dovrebbe poter ripetere - con Gesù - « mio cibo è fare la volontà del Padre mio»... E non solo: «Gesù prega per tutti, quando chiede: "che siano uno come tu sei in me, Padre, ed io in te"... Allora, un rapporto non è veramente cristiano se non è, per così dire, "alla Trinità"; e tutto quello che non serve e non porta a questa unità - se guardiamo alla realtà delle cose - non vale, è tempo perso ».

Qui s'intravede il contributo vitale che una spiritualità come quella del Movimento dei Focolari, che sottolinea l'universale vocazione di ogni uomo alla comunione nell'unità, può offrire per una piena valorizzazione del ministero diaconale. Perché, se ogni cristiano sacerdote o laico - è chiamato ad essere la testimonianza viva di questa unità, tanto più lo è il diacono, che per la sua tipica vocazione si trova a vivere, in certo senso, su più « fronti »: nel presbiterio e nella famiglia, nella comunità cristiana con una responsabilità nuova, e nel mondo del lavoro - come un tramite che lega e permette una più profonda circolazione di vita.

Solo il consumarsi nell'unità su ognuno di questi « fronti », in una vera vita « a corpo mistico », può far sì che il diacono non sia un burocrate, diviso fra i diversi momenti della sua vita quotidiana, ma possa invece portare nel cuore del presbiterio tutta la realtà e la ricchezza del mondo « laico », fare della propria famiglia una vera « chiesa domestica, aiutare la comunità ecclesiale ad aprirsi alla vita e ai problemi della società umana. « Comunione piena col vescovo, allora, coi sacerdoti, con la moglie e i figli - questo è essere Chiesa, questa è la vita « trinitaria » a cui è chiamato il diacono. Occorre perciò dare la testimonianza di una comunione reale, a fatti... "Condividi ogni cosa con tuo fratello - diceva la Didaché a tutti i cristiani, quanto nei primi secoli non c'erano ancora gli ordini religiosi -. Se condividete infatti i beni che non muoiono, quanto più le cose che finiscono" (1) ».

 

II primato dell'amore

 

Essere dunque il « segno » vivo della famiglia dei figli di Dio, per contribuire - in ideale fedeltà alla tradizione della prima Chiesa - ad un rinnovamento delle comunità cristiane nell'unità. Questa la riscoperta (o forse « la strada finalmente intravista », come ci ha detto uno dei partecipanti) di ognuno, al convegno. « Perché diacono e non laico ? Perché sento che è questa la mia via - ci ha risposto un aspirante diacono -, il modo che mi è dato per animare per primo la comunione ecclesiale, per esser vicino ai sacerdoti spesso così isolati, per sgelare con l'amore le articolazioni più rigide della Chiesa particolare ». Qualcuno, invece, cita un'immagine: come l'olio in un motore, che non si vede ma lubrifica, in certo modo « lega » in uno tutti gli ingranaggi; così «giocare a scomparire, per servire in silenzio. Diaconia caritatis, come Maria »...

Ma l'orizzonte più ampio, e quanto mai attuale, lo spalancano le parole di Chiara Lubich, nel suo messaggio rivolto anche ai diaconi: « Sono essi che il Signore ha messo più a contatto col mondo e coi lontani; sono essi che meglio di altri possono attuare gli indirizzi del Vaticano II, che invita non a sfuggire il mondo ma, in certo modo, ad amarlo ». E' stata una consegna che ognuno ha sentito particolarmente « sua ». Parole che hanno colto nel segno, illuminando un aspetto «nuovo», anche se sempre vivo e presente, del carisma diaconale.

In un mondo che si laicizza, che sempre più sembra rifiutare le forme religiose istituzionali, lo Spirito va suscitando uomini che, vivendo la vita di tutti, ricordano ai cristiani l'urgenza di testimoniare con la vita quella « consacrazione » delle mille cose « laiche » di tutti i giorni che solo l'amore, in una piena donazione verso ogni uomo, può realizzare.

Così, quella del diacono è apparsa veramente come una via per i nostri tempi. Una via per far risplendere, nel mondo d'oggi, il « primato » dell'amore.

Mauro Bartolini

Note: (1) Didaché IV, 8

 

L'ecclesiologia del Vaticano II e il diaconato

A SERVIZIO DELLA COMUNIONE di Vincenzo Chiarle

 

Don Vincenzo Chiarle - incaricato a Torino della formazione dei diaconi permanenti - da anni anima quella che è una delle esperienze più avanzate, dal .punto di vista di un "corpo" diaconale diocesano. La sua relazione al convegno - che qui riportiamo - ha enucleato le linee principali del Magistero conciliare e postconciliare sul diaconato, alla luce della esperienza di comunione nella Chiesa-Popolo di Dio.

 

Il ripristino del diaconato « come proprio e permanente grado della gerarchia » (1) si pub capire nella sua portata di rinnovamento solo all'interno di quella visione « nuova » del Vaticano II di una Chiesa-comunione « sempre vivente e sempre giovane, che sente il ritmo del tempo e che in ciascun secolo si adorna di nuovo splendore, getta nuove luci e realizza nuove conquiste, pur restando identica a se stessa, fedele all'immagine divina impressa sul suo volto dal suo Sposo, il Cristo Gesù » (2) - come prefigurava Giovanni XXIII nell'indire il Concilio. « Sarà senza dubbio una nuova Pentecoste - aggiungeva ancora il Papa a chiusura della prima sessione dei lavori che arricchirà la Chiesa di forze interiori più abbondanti », perché « rifiorisca di un vigore nuovo e giovanile » (3).

Fra gli elementi volti a caratterizzare in senso nuovo quest'immagine della Chiesa vi sono la sua presentazione come il popolo ,di Dio, all'interno del quale l'autorità gerarchica viene proposta come servizio; la realtà della Chiesa come comunione, che qualifica in tal senso tutte le relazioni al suo interno; la dottrina, inoltre, per la quale tutti i membri del popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice « ufficio » di Cristo sacerdote, profeta e re. .

Nella linea del rinnovamento indicata dal Concilio - e in «ciò che costituisce la novità fondamentale del Vaticano II per quanto riguarda l'ecclesiologia » (4) - si colloca appunto anche il ripristino del diaconato permanente. Ed è la stessa fedeltà al Concilio che ci spinge a considerare il riemergere di tale vocazione nella Chiesa in un senso decisamente innovatore. Con ciò non si vuol certo disconoscere il carattere di continuità con la tradizione che tale passo conciliare ugualmente riveste: tuttavia esso implica, in radice, una scelta ecclesiale e pastorale di rinnovamento. Il diaconato infatti non va visto - come ci chiariscono i documenti di applicazione delle direttive conciliari - come sostegno quantitativo alle istituzioni ecclesiastiche, ma anzitutto come una forza di grazia (sacramentale!) destinata a «rendere più profonda la comunione ecclesiale», a promuovere «il senso comunitario dello spirito familiare del popolo di Dio», ad «accentuare la dimensione comunitaria e missionaria della Chiesa e della pastorale» (5).

 

Un arricchimento della comunione presbiterale

 

L'istituzione dei diaconi è attribuita da S. Clemente Romano agli stessi apostoli (6). Nella Didaché, essi sono menzionati dopo i vescovi; e in S. Ignazio d'Antiochia troviamo per la prima volta la distinzione chiara dei tre ordini: vescovi, presbiteri e diaconi (7). Tale distinzione è codificata nel terzo secolo, con delle precisazioni sul rito di ordinazione, dalla Traditio apostolica di Ippolito. Questi dati della tradizione più antica ci permettono di riconoscere come un fatto saldamente stabilito la appartenenza del diaconato alla struttura della Chiesa come un ministero che, al pari dell'episcopato e del presbiterato, ha il suo fondamento nel sacramento dell'Ordine. E col Concilio, dunque, tale vocazione è chiamata a riportare nella comunità ecclesiale una ricchezza nuova e insostituibile; giacché - è stato detto - « senza il diaconato la gerarchia ecclesiale è incompleta » (8).

Nel 1957 la costituzione Sacramentum ordinis di Pio XII ha riaffermato chiaramente la dottrina che sarà ripresa dalla costituzione dogmatica del Concilio sulla Chiesa: « Il ministero ecclesiastico divinamente istituito è esercitato in ordini diversi, da coloro che fin dall'antichità sono chiamati vescovi, preti, diaconi » (9). Nel paragrafo dedicato al ministero diaconale il Concilio, dopo aver menzionato l'imposizione delle mani, così prosegue: « Fortificati per la grazia del sacramento, (i diaconi) servono il popolo di Dio in comunione col Vescovo e il suo presbiterio, nella diaconia della liturgia, della Parola, della carità » (10).

Ed ecco come viene presentato il ministero diaconale dal Motu proprio Sacrum diaconatus ordinem, con cui Paolo VI dà attuazione alle decisioni del Concilio: « Fin dall'età degli apostoli la Chiesa cattolica ebbe in grande venerazione l'Ordine sacro del diaconato, come ne fa fede lo stesso S. Paolo, il quale espressamente porge il suo saluto oltre che ai vescovi anche ai diaconi, e a Timoteo insegna quali virtù e pregi siano ad essi indispensabili perché siano ritenuti degni del loro ministero. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel rispetto di tale antichissima tradizione... decretò che "in futuro si potesse ristabilire il diaconato quale proprio e permanente grado della gerarchia". Benché infatti usualmente vengano affidati ai laici non pochi uffici diaconali, "è bene che quanti esercitano davvero il ministero diaconale siano fortificati e più strettamente associati all'altare mediante l'imposizione delle mani, che è tradizione apostolica, affinché più efficacemente essi adempiano... il loro ministero" (11). In tal modo, sarà chiarita la natura propria di questo Ordine che non deve essere considerato come un puro e semplice grado di accesso al sacerdozio. Esso, insigne per l'indelebile carattere e la sua particolare grazia, di tanto si arricchisce, che coloro i quali vi sono chiamati possono dedicarsi in maniera stabile ai misteri di Cristo e della Chiesa» (12).

E nel Motu proprio Ad pascendum, Paolo VI specifica ulteriormente che il Vaticano II volle reintrodurre il diaconato permanente « come ordine intermedio tra i gradi superiori delle gerarchia ecclesiastica ed il resto del popolo di Dio, perché fosse in qualche modo interprete delle necessità e dei desideri delle comunità cristiane, animatore del servizio, ossia delle diaconia della Chiesa presso le comunità cristiane locali, segno e sacramento dello stesse Cristo Signore, il quale non venne per essere servito, ma per servire» (13).

 

Servire la Chiesa fedeli alla propria chiamata

 

Il diaconato è dunque tra quei ministeri dei quali si dice che sono nella « successione apostolica », continuatori del Ministero degli apostoli. Esso è al servizio, cioè, della apostolicità della Chiesa - che non è solo questione di integrità dottrinale e di fede, ma implica tutte uno stile di vita, di dedizione e di servizio, di apertura agli uomini e al mondo. E lo fa con una sua modalità, e con una pienezza tutta propria; con una particolarità che non è tanto - o solo - di funzioni, né è suggerita dalle necessità contingenti di un'epoca o di una situazione, ma nasce da un carisma ed una grazia sacramentale suscitati e confermati dalle Spirito nella Chiesa, in una visione pluralistica dei ministeri che è immagine della ricchezza inesauribile della comunione ecclesiale. Poi ché « se il diaconato è un dono - osservava al Concilio il card. Suenens - se è una grazia, e se i legittimi pastori stimano conveniente attingere a tale patrimonio di grazia, allora la instaurazione del diaconato non potrà in alcun modo ridurre, ma dovrà aumentare la misura della pienezza di Cristo nella comunità cristiana ». D'altra parte, essendo i sacramenti e i carismi donati per il bene di tutti i fedeli, « la comunità cristiana ha il diritto di fruire di tali doni che esistono nel patrimonio della Chiesa » (14).

Dopo il Concilio, la crisi che ha in parte colpito i sacerdoti - con la conseguente scarsità numerica e di vocazioni - ha di contro favorito ed accelerato la riscoperta del diaconato. Anzi, qualcuno l’ha vista come un rimedio alla scarsità dei preti. Non è affatto questa, tuttavia, la sua ragione più vera.

Dal momento che ciascuno di questi due ministeri, pur nella reciproca interdipendenza, ha una sua propria e specifica fisionomia, non si può pensare di compensare la scarsità dell'uno con l'abbondanza dell'altro. Si potrà piuttosto riconoscere che i preti per secoli - proprio per l'assenza dei diaconi e per la scarsa valorizzazione dei carismi dei laici - hanno dovuto esercitare ministeri che forse non sono loro specifici. Sicché il ritorno dei diaconi, mentre costituisce un aiuto prezioso ai sacerdoti per ritrovare la ragione peculiare del proprio ministero, potrà anche sempre più indicare ai laici le vie di una responsabile valorizzazione della grazia battesimale propria di ogni cristiano.

Come la presenza di un numero sufficiente di sacerdoti non sminuisce in alcun modo il dovere di apostolato dei laici, che è un'esigenza propria del loro essere cristiani, ugualmente il diaconato non perderebbe affatto la sua ragion d'essere qualora avesse termine la crisi delle vocazioni sacerdotali. Occorre però che il diacono sappia evitare il rischio di apparire come un prete di second'ordine, o un suo supplente. Egli ha un ministero che gli è proprio, ben distinto da quello sacerdotale - seppure in intima relazione con esso. Ed anche se il diacono dovrà svolgere delle mansioni che attualmente sono per lo più esercitate dal sacerdote (come responsabile di comunità, ad esempio) lo farà con una grazia sua propria, con una modalità ed uno stile che gli vengono particolarmente dalla sua tipica collocazione di ponte tra gerarchia e laicato.

Questo è un aspetto d'importanza decisiva. Perché, se dal punto di vista teologico ed ecclesiale è lui stesso gerarchia, dall'altro versante, quello dell'inserimento nella società, il diacono è posto nella normale condizione di tutti i laici: il più delle volte coniugato, impegnato nel mondo del lavoro, a stretto contatto coi problemi più vari della vita quotidiana. In tal modo, egli viene ad essere veramente per la gerarchia una finestra aperta sul mondo come pure, - dall'altra parte, per ogni « laico », la testimonianza di un impegno (non estemporaneo ma permanente, e stabilmente fortificato dalla grazia) a far della vita intera, in ogni suo aspetto e momento, un dono, un'offerta d'amore e di servizio, anche al di là dei confini usuali del « sacro », del culto religioso.

 

Una continua conversione alla comunione

 

Una vocazione attualissima, quindi, con un suo proprio timbro, ed aperta sui più vari campi dell'esistenza cristiana; nella quale ciò che conta di più non saranno tanto le « forme » del servizio che il diaconato potrà assumere, in quei campi già indicati dal Concilio - quelli « della liturgia, della Parola e della carità »: dove pure non si tratterà di copiare « forme » antiche, ma di esser sensibili ai segni dei tempi -, quanto piuttosto il contribuire a vivificare il Corpo Mistico di Cristo, il favorire la comunione più piena nel popolo di Dio - specie tra la gerarchia e il laicato.

Quando in questi anni del dopo-Concilio si parla del diaconato come « fattore ed espressione di un rinnovamento ecclesiale », non si pub dunque non far riferimento a questo suo esclusivo essere "per" la comunione nella comunità, presenza di solo servizio che non è mai - né può esserlo - fine a se stessa. « Ho talora l'impressione - diceva il teologo F. Ardusso ad un recente convegno sul diaconato - che nel periodo postconciliare si sia data a volte eccessiva importanza a queste realtà istituzionali, dimenticando che esse sono mezzi, solo mezzi in vista di un fine. Sono realtà che cesseranno di esistere quando "Dio sarà tutto in tutti". Anche la più bella teologia del diaconato e la sua realizzazione più efficiente - da sole - non salvano gli uomini... S. Paolo relativizzava tutti i carismi e tutti i ministeri, dice anzi che servono solo a far fracasso e trambusto, qualora non mirino alla carità» (15).

Nel diaconato, in realtà, abbiamo l'esempio più limpido di come un ministero sia vuoto, sia niente se non è carità. È questa d'altra parte la sua particolare bellezza che, se compresa, può aiutare ad evitarne ogni sopravvalutazione - non è certo il diaconato l'unica fonte di rinnovamento ecclesiale -, ogni senso anche minimo di autosufficienza. Piuttosto, l'impegno dovrà essere quello di una continua « conversione alla comunione », nell'apertura umile ed attenta ai doni di grazia e ai carismi più diversi che Dio suscita dove e come vuole nella sua Chiesa, per accoglierli e valorizzarli, al fine di edificare la piena unità dell'unico Corpo di Cristo.

Attualmente, il diaconato permanente appare nella Chiesa come una realtà in forte e costante sviluppo, dopo le difficoltà di definizione e di assestamento che ne avevano segnati i primi anni di vita. I diaconi permanenti nel mondo sono oltre 10.000, in costante incremento: anche se il quadro statistico ci mostra una realtà ancora molto ineguale da zona a zona. Per dare solo un dato indicativo, oltre la metà di essi si trova negli Stati Uniti, e circa un migliaio in Germania. In Italia l'esperienza del diaconato si va man mano allargando in molte diocesi. Negli ultimi anni in particolare si è avuto un vero moltiplicarsi delle ordinazioni, specie nel nord: ed al momento i diaconi in Italia sono più di 300. «Questa crescita sorprendente del diaconato in Italia e nel mondo - commentava qualche tempo fa « L'Osservatore Romano » è già di per se stessa un dato significativo... Le vocazioni vengono da Dio. Egli chiama chi vuole a farsi strumento per la trasmissione della Salvezza e la dilatazione del Suo Regno, nel modo e nella forma da Lui volute. Questa inattesa diffusione del ministero diaconale, pertanto, è indicativa di un disegno di Dio, cui le comunità cristiane sono chiamate ad adeguarsi » (16).

E' un segno dei tempi, dunque. Ma se il diacono vorrà far risplendere il volto « sempre nuovo » della Chiesa di Cristo, dovrà essere sempre più solo testimonianza di Lui, servo fedele del Padre e dell'umanità.                                                                                                                Vincenzo Chiarle

Note

 

(1) Lumen Gentium, 29, 2.

 (2) Humanae Salutis, discorso del 25-12-1961, n. 7.

 (3) Giovanni XXIII, Allocuzione al Concilio Vaticano II, 8 dicembre 1962.

 (4) Costituzione Apostolica Sacrae diaciplinae leges, 25 gennaio 1983,

 (5) cf. II Documento della CEI La restaurazione del Diaconato permanente In Italia, 15 febbraio 1972, art, 2, 8, 9, 16.

(6) cf. Lettera al Corinti, 42-44.

 (7) cf. Lettere al Tralliani, 3, 1.

 (8) Phillps, La Chiesa e II suo ministero, Jaca Book, Milano. 1967. p. 326.

 (9) Lumen Gentium, n. 28. 1.

 (10) Ibid. n. 29. 1.

 (11) Ad Gentes divinitus, n. 16.

 (12) Motu proprio Sacrum diaconatus ordinem, 18 giugno 1987.

 (13) Motu proprio Ad pascendum, 15 agosto 1972.

(14) cf. Acta Synodalia Concilii Oecumenici Vaticani II, Roma 1970-76, vol. II pars II, pp. 317-320.

15) F. Ardusso, conf. su Teologia del Diaconato, Torino, 26 settembre 1980.

(16) “L'Osservatore Romano” del 22 aprile 1983.

 

 

Un pensiero spirituale

AMARE ”ALLA TRINITÀ”

di Pasquale Foresi

 

«Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mc.12, 31).

«Come sé» certamente vuol dire che non dobbiamo fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Ma questo è solo l'aspetto negativo, evitare cioè di fare il male al prossimo. Gesù non ci dice solo questo; ci dice di amare il prossimo come sé. E amare vuole certamente indicare fare il bene che vorremmo fosse fatto a noi. Ma anche questo è solo un aspetto di quello che la frase di Gesù contiene; è l'aspetto della carità materiale, il servizio verso gli altri; il dare i propri denari, o la propria fatica, o il proprio tempo, perché gli altri ne ricevano un beneficio. È certamente compreso tutto questo nel comando di Gesù, ma egli vuole di più: vuole che noi agli altri doniamo quello che spiritualmente abbiamo, che amiamo gli altri come noi, facendo loro comprendere il valore della vita cristiana, portandoli a scoprire che Cristo è il Figlio di Dio e che noi siamo tutti fratelli nel regno dei cieli.

Amare il prossimo come , implica perciò anche e necessariamente una testimonianza cristiana viva, efficace, e non solo le opere materiali di misericordia. E occorre allora imparare da Gesù, mettersi alla sua scuola. Gesù è certamente il Maestro che ci ha mostrato con la vita come si fa a portare il cristianesimo agli altri. Amare gli altri spiritualmente come sé non significa soltanto predicare agli altri, non significa soltanto catechizzare gli altri. Queste sono opere di misericordia spirituale, importanti, necessarie, che ci indicano un aspetto di come possiamo amare il prossimo, ma se meditiamo sul motivo profondo dell'incarnazione, della vita cioè di Gesù, ci accorgiamo che egli è venuto per morire in croce, e darci così la sua vita.

Amare perciò come sé veramente, significa prendere a modello il Signore ed essere pronti a dare la vita per il prossimo. Dare la vita è l'estrema possibilità del più grande amore al prossimo, ma implica un atteggiamento totale del nostro esistere proiettato verso gli altri, implica cioè non tenere più a sé stessi, non preoccuparci più di noi, essere sempre rivolti al bene degli altri, avendo come unica ancora e come unica guida Ciò che ci dà la possibilità di amare gli altri.

Ci accorgeremo allora che l'amare come sé, implicando tutto il nostro essere, ci fa rivivere la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ci fa ripetere un po' il dono totale del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre; ci fa scoprire che sotto queste parole che si trovano già scritte nel Levitico centinaia e centinaia di anni prima della venuta di Gesù, è adombrata una vita che ci sarà poi detta da Cristo come la vita intima della Trinità. Noi dobbiamo amare gli altri come noi stessi perché Dio ama come sé, e in ciò sta il mistero della Trinità.

Queste parole si svelano allora in tutta la loro profondità misteriosa e ci preannunciano quanto Gesù dirà alla vigilia della Passione: « Padre Santo custodiscili nel tuo nome... affinché siano una sola cosa come noi» (Gv. 17, 11).

di Pasquale Foresi

(tratto da “Fede, speranza, carità nel Nuovo Testamento”, ed. Città Nuova, pg. 82-85)

 

 

L'esperienza del diacono come « costruttore di unità »

L'UOMO DELLA FRATELLANZA UNIVERSALE

di Enrico Pepe

 

Dopo anni di attività pastorale in Brasile, don Enrico Pepe è attualmente responsabile del Movimento Parrocchiale presso il Centro del Movimento dei Focolari. La vocazione e il ruolo dei diacono, sfaccettati nella varietà dei suoi diversi ambiti di presenza, sono il tema della presente, apprezzata relazione, che manteniamo nell'immediatezza del linguaggio parlato.

 

Prima di entrare nello specifico argomento della nostra conversazione - che riguarda la vita del diacono come «costruttore di unità» - vorrei fare una breve premessa. Ognuno di noi, in qualche misura, ha «scoperto» Gesù nella sua vita, e lo ha amato. Ma ad un certo punto - inaspettato, forse - Egli s'è avvicinato e gli ha rivolto, come un giorno agli apostoli, lo stesso invito: «Vieni e seguimi».

Per molti sarà stata una sorpresa. Forse mai prima aveva pensato di diventare diacono, vocazione che anzi neppure esisteva nell'orizzonte della nostra formazione e della nostra esistenza cristiana. Ognuno aveva costruito la sua famiglia cristiana, aveva organizzato la sua attività professionale, aveva cercato di far del bene attorno a sé, aveva seguito gli insegnamenti della Chiesa e forse mai aveva potuto immaginare che Dio avesse altri piani su di lui... Ma ecco questo invito: «vieni e seguimi» che si è concretizzato nella chiamata del Vescovo e nell'ordinazione diaconale.

Per qualcuno tale chiamata sarà stata legata ad un fatto, ad un momento particolare; più in genere forse ad una continuità dell'esperienza cristiana ed ecclesiale che si è via via approfondita; ma in ogni caso è sopravvenuto qualcosa di nuovo. E' nato cioè un legame nuovo con Cristo, in uno scambio d'amore e in una scelta di particolare predilezione. Questo fatto è basilare, importantissimo: perché tutto il servizio diaconale nasce dalla fonte di quest'amore che lega il diacono a Gesù e Gesù al diacono. Si ha a che fare con Cristo, cioè, in una maniera nuova, e si è «famiglia di Dio» in modo tutto particolare: come membri del suo « popolo », innanzitutto, ma anche come parte di quella stessa « famiglia » degli apostoli di Gesù. Ecco il timbro, il marchio che segna tutta la vita del diacono.

Ogni vocazione, sia «laicale» che di speciale consacrazione, sacerdotale o religiosa, ha un solo scopo: portare Dio, stabilire la vita di Dio tra gli uomini - che vuol dire costruire la Chiesa, edificare la comunità dei figli di Dio, tutti fratelli tra di loro. Ognuno, nella sua specifica vocazione e in unità con tutti gli altri, è strumento di questo piano di Dio: deve essere costruttore di comunione.

La vocazione del diacono allora - parliamo ora di questa - è un servizio per la comunione. Non certo un privilegio, o un premio ché Dio dà a chi magari è migliore, per metterlo in vista davanti agli altri cristiani; non è una posizione di autorità nella comunità. Gesù investe colui che ha scelto di una missione, lo fa diacono, cioè servo degli uomini. Ed egli è una persona sacramentalmente ordinata per servire, dalla quale tutti hanno il diritto di essere serviti. E tale servizio è finalizzato alla comunione, a costruire cioè la famiglia, la comunità tra gli uomini.

 

La famiglia edificare la chiesa domestica

 

Ma dove, in quali campi il diacono è chiamato ad edificare la « famiglia » di Dio ? A tale proposito, una caratteristica importante della vocazione diaconale è quella di aver ricevuto questa chiamata nell'età adulta, quando in genere si è già maturata una lunga esperienza umana e cristiana nella propria vita familiare, nell'esercizio di un qualche lavoro e all'interno della comunità ecclesiale.

Questi, appunto, sono anche i campi specifici nei quali il diacono continua a vivere anche dopo esser stato ordinato; ed è lì prima di tutto, che egli - col prezioso bagaglio della sua esperienza - deve essere un costruttore di comunione, per esplicito mandato della Chiesa.

La famiglia è per il diacono coniugato la prima « palestra » di vita. L'ordine ricevuto infatti non solo non gli permette alcun disimpegno, nessuna « fuga » dalla famiglia, ma lo impegna in una dedizione ed un servizio ancora più profondi: egli è diacono innanzitutto in casa, cioè « servo » della moglie e dei figli. E la sua diaconia deve poter fare della famiglia una vera chiesa domestica. Così nella pastorale familiare - che rappresenta un campo d'attività naturale per il diacono, quanto mai in consonanza con la sua tipica presenza nella comunità - egli potrà donare quel Vangelo che già avrà vissuto insieme alla moglie e ai figli. Potrà ripetere con S. Paolo: « Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo ».

Ed i frutti di un autentico servizio diaconale allargato e comunicato all'intera famiglia del diacono possono essere inimmaginabili: tutta la famiglia con la sua vita diventa un germe di comunione già attuata, diventa un punto di riferimento luminoso per le altre famiglie e per coloro che si preparano al matrimonio.

Essendo vissuto per lungo tempo in Brasile, ho soprattutto presente la viva esperienza diaconale che ho conosciuto in diverse comunità ecclesiali di quel paese. E ricordo in particolare di un diacono, coniugato con tre figli, la cui famiglia era tutta coinvolta nella sua attività ministeriale: una famiglia contadina, semplice ma con un'esperienza cristiana molto profonda. La moglie stessa raccontava che durante l'ordinazione, mentre suo marito era disteso in terra e si cantavano le litanie, aveva sentito come se Dio le dicesse: « Ecco, ora tu lo dai a me ». Fatto questo passo spirituale, s'era presa, come « sua parte », la comunità. Ora marito e moglie, con i loro figli, « servono » insieme come responsabili di una comunità locale. E' questo un esempio di come il sacramento diaconale possa far fermentare dal di dentro la vita della famiglia, fino a farla essa stessa tutta servizio, tutta « dono ».

Qui qualcuno forse si chiederà: ma se la famiglia, se i figli ad esempio, non sono affatto d'accordo, e - come può accadere - neppure vogliono vivere una vita cristiana? Qui si deve avere davvero la sapienza cristiana, che è quella del più puro amore. Tu non puoi costringere nessuno, neanche la moglie e i figli, a vivere il cristianesimo; devi però esigere da te questa vita, che è avere un solo diritto: quello di amare e di servire tutti. Si farà la propria parte fino in fondo, senza perdere la pace, rispettando la libertà di ognuno e lasciando a Dio di raccogliere i frutti che, come e quando Lui vorrà, certamente arriveranno. Ricordo a questo proposito l'esperienza di due ragazze, figlie di un diacono brasiliano, che avevano lasciato la Chiesa in modo molto duro. I genitori, pur soffrendo per tale rifiuto, non cercarono mai di forzare la loro libertà. Dopo diverso tempo, ebbi a distanza di pochi mesi l'una dall'altra la visita di entrambe: avevano capito. « Non ho più il coraggio di entrare in casa - mi diceva la minore - perché mio padre e mia madre mi hanno tanto amato, specie in questo periodo, che non ho più la forza di vivere in casa senza essere anch'io come loro. Voglio confessarmi e cominciare una nuova vita ». Delle due, la prima è ora consacrata a Dio, l'altra ha una splendida famiglia cristiana.

 

Nel mondo del lavoro per « incarnare » il Vangelo

 

Il mondo del lavoro costituisce in altro capitolo importantissimo della vita di un diacono: perché egli non si stacca da esso, ma continua a viverci dentro ed anzi, come « uomo del servizio » , cercherà di conservare e di curare al meglio tutti i rapporti e contatti.

In questo campo però non sarà mai come chi «parla» delle cose di Chiesa, a proposito o meno: sarà invece una persona che incarna il Vangelo nel suo ambiente di lavoro, lo mette in pratica a fatti con la sua serietà professionale, con la sua apertura e disponibilità verso tutti, col suo essere elemento di unità tra i colleghi. E il Vangelo passerà pian piano attraverso i fatti della vita quotidiana.

Insomma, non si è diacono solo in Chiesa, ma dovunque si vive, a tempo pieno, nella misura in cui a casa, sul tram, in ufficio, al bar si è servizio d'amore agli uomini. Allora la vita tutta del diacono sarà l'annuncio continuo dell'amore di Dio. Certo, ci sarà anche il servizio in Chiesa: ma se durante tutta le settimana si è vissuto come l'uomo del servizio verso ognuno, poi la domenica sarà tutta questa vita ad esser portata sull'altare; ed allora quella liturgia, quell'annuncio, quella presenza saranno luce, perché espressione della vita.

 

Nella Chiesa locale a servizio dell'unità

 

Ancora, il diacono con la sua ordinazione è « chiesa » in un modo nuovo, è immesso nel cuore della comunità ecclesiale; viene dal mondo dei laici e, rimanendovi, entra in più piena comunione col Vescovo e col presbiterio, in quella che si dice la gerarchia ecclesiale.

Qual è allora la sua parte, la sua funzione nella comunità cristiana? Non è un « vice » del prete - o un quasi-prete -, tanto meno un sagrestano... E' - potremmo usare questa espressione - come un ponte che unisce, che garantisce un'osmosi e una comunione più piena tra il mondo dei laici e la gerarchia. E' quindi una realtà nuova che, rinata col Concilio, sta ancora muovendo i primi passi. Ogni diocesi deve cercare e sviluppare le sue linee di concretizzazione, pur tenendo fermo il fatto essenziale che tali « forme » saranno sempre in sé relative: ciò che conta sarà 1'« anima » del servizio diaconale - questo suo essere per la comunione. In una diocesi del Nordest del Brasile, per fare un esempio, un diacono funge da coordinatore di tutta la pastorale diocesana. Altri, ancora, coordinano la pastorale familiare, o le attività di catechesi... Queste sono, a mio avviso, modalità di servizio a livello diocesano tipicamente diaconali. In un dato settore - come per la pastorale - i sacerdoti possono anche far riferimento ad un diacono; ma il suo ruolo non sarà mai quello dell'autorità: piuttosto egli, com'è proprio della sua vocazione, servirà da tramite, sarà colui che lega... Non è neppure un servizio burocratico, né semplicemente il servizio di un esperto; è qualcosa di più profondo. In quel settore - nel quale dovrà certamente aver pure della competenza - il diacono dà però il suo contributo perché la parrocchia o la diocesi cresca come la famiglia di Dio.

 

Accanto ad ognuno come l'uomo del servizio

 

Esiste però un altro campo, oggi particolarmente importante, nel quale il diacono è chiamato a « servire »: è il mondo dei lontani, di coloro che, pur fuori della Chiesa istituzionale visibile, sono però anch'essi particolarmente amati da Dio, e da Lui chiamati a formare il Corpo mistico di Cristo, la famiglia dei figli di Dio. Se così è, il mio servizio non può certo limitarsi a chi viene in Chiesa, e neanche ai battezzati: la mia diaconia è per ogni uomo che trovo sul mio cammino; io devo servirlo, e Dio mi ha chiamato per servirlo. In particolare poi il diacono, nei confronti di coloro che esplicitamente rifiutano Dio e che dovrebbero essere i suoi « amici » preferiti perché senza Dio, e quindi più poveri di chiunque altro - ha il vantaggio di appartenere, nella vita di ogni giorno, al loro stesso mondo « laico », di essere padre di famiglia come loro, lavoratore come loro, di apparire non come una «casta » separata, ma come persona che condivide la loro stessa vita. E' a loro innanzitutto che bisogna rivolgersi. Ma come? Qui non vale nessuna pastorale, nessun discorso persuasivo: qui vale solo amare. Occorre rispettare fino in fondo ognuno così com'è, e soprattutto sfuggire la tentazione di volerlo a tutti i costi convertire. Sarebbe come voler cogliere subito un frutto il cui tempo di maturazione non ci appartiene; ed è inutile volerlo far maturare presto con i nostri mezzi. Ci si deve invece accostare alla pianta per vedere se ha bisogno di acqua, per esporla meglio al sole, per concimarla e smuoverle delicatamente la terra attorno... E' questo il vero servizio, quello che solo porta frutto; ed è quest'amore di servizio che il diacono può - e deve - testimoniare oggi al mondo, più di chiunque altro.

Voluto da Dio nella sua Chiesa come uomo accanto agli uomini, il diacono rappresenta così nel nostro tempo quell'iniezione di vita e d'amore soprannaturale che penetra ogni rapporto, ogni incontro quotidiano, e lo solleva a formare la famiglia, a plasmare la comunione. E' veramente - possiamo dirlo - il « fratello », il « prossimo » di ognuno: l'uomo della fratellanza universale.

Enrico Pepe

 

 

Parola di vita (marzo 1984)

UN CIBO CHE DÀ LA VITA

di Chiara Lubich

 

«Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera » (Gv 4, 34).

Ecco una meravigliosa parola di Gesù che ogni cristiano può, in certo modo, ripetere per se stesso e che, se praticata. è in grado di condurlo assai lontano nel Santo Viaggio della vita.

Gesù, seduto presso il pozzo di Giacobbe, in Samaria, sta concludendo il suo colloquio con la samaritana. I discepoli, tornati dalla vicina città, dove sono andati a fare provviste, si meravigliano che il Maestro stia parlando con una donna, ma nessuno gli chiede perché lo faccia e, partita la samaritana, lo sollecitano a mangiare. Gesù intuisce i loro pensieri, e spiega loro ciò che lo muove, rispondendo: Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ».

I discepoli non capiscono: pensano al cibo materiale e si domandano l'un l'altro se qualcuno, durante la loro assenza, ne abbia portato al Maestro. Gesù allora dice apertamente:

« Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera ».

Di cibo si ha bisogno ogni giorno per mantenersi in vita. Gesù non lo nega. E qui parla proprio di cibo, quindi della sua naturale necessità, ma lo fa per affermare l'esistenza e l'esigenza di un altro cibo, di un cibo più importante, di cui Egli non può fare a meno.

« Mio cibo è fare la volontà di Colui che ml ha mandato e compiere la sua opera »

Gesù è disceso dal Cielo per fare la volontà di Colui che lo ha mandato e compiere la sua opera. Non ha pensieri e progetti suoi ma quelli del Padre suo, le parole che dice e le opere che compie sono quelle del Padre; non fa la propria volontà ma quella dl Colui che lo ha mandato. Questa è la vita di Gesù. Attuare ciò sazia la sua fame. Così facendo, si nutre.

La piena adesione alla volontà del Padre caratterizza tutta la sua vita, fino alla morte di croce, dove porterà veramente a termine l'opera che il Padre gli ha affidato.

« Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera ».

Gesù considera suo cibo fare la volontà del Padre, perché, attuandola, « assimilandola », «mangiandola», identificandosi con essa, da essa riceve la Vita.

E qual è la volontà del Padre, l'opera sua, che Gesù deve portare a compimento ?

E' dare all'uomo la salvezza, dargli la Vita che non muore.

E un germe di questa Vita Gesù, poco prima, coi suo colloquio e col suo amore, l'ha comunicato alla Samaritana. Presto. infatti, i discepoli vedranno questa Vita germogliare ed estendersi perché la Samaritana comunicherà la ricchezza scoperta e ricevuta ad altri samaritani: «Venite a vedere un uomo... che sia il Messia?» (Gv 4. 29).

E Gesù, parlando alla Samaritana svela il piano di Dio che è Padre: che tutti gli uomini ricevano il dono della sua Vita. E' questa l'opera che a Gesù urge di compiere, per affidarla poi ai suoi discepoli, alla Chiesa.

«Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera».

Possiamo vivere anche noi questa Parola così tipica di Gesù, sì da riflettere in modo tutto particolare il suo essere, la sua missione, il suo zelo ?

Certamente ! Occorrerà vivere anche noi il nostro essere figli del Padre per la Vita che Cristo ci ha comunicato, e nutrire così anche noi la nostra vita della sua volontà.

Lo possiamo fare adempiendo momento per momento ciò che Lui vuole da noi; compiendolo in modo perfetto, come non avessimo altro da fare. E' quanto si era proposto Papa Giovanni XXIII. Dio, infatti, non vuole di più.

Cibiamoci allora di ciò che Dio vuole da noi attimo dopo attimo e sperimenteremo che fare in questo modo ci sazia: ci dà pace, gioia, felicità, ci dà un anticipo - non è esagerato dirlo - di beatitudine.

Concorreremo con Gesù così anche noi, giorno per giorno, a compiere l'opera del Padre, che è la salvezza nostra e di molti.

Chiara Lubich

 

Panoramica su un tema emergente nella teologia contemporanea

LA DIMENSIONE TRINITARIA DELLA CROCE

a cura di Piero Coda

 

La traduzione italiana del non più recentissimo Jesu ureigener Tod. Exegetische Besinnungen und Ausblick (1) del noto esegeta di Erfurt Heinz Schürmann si rivelerà certamente un notevole contributo all'approfondimento, in Italia, del tema della « sofferenza di Dio » o - con maggiore precisione - della « dimensione trinitaria della Croce ».

Lo studio di Schürmann, infatti, ha già suscitato una vasta e positiva eco soprattutto nell'area culturale tedesca, inserendosi con originalità e profondità, sia sotto il profilo esegetico (i primi tre saggi di cui si compone) sia sotto il profilo dogmatico (la « meditazione teologica » conclusiva), in un dibattito più che mai vivo ed attuale, e che sembra anzi voler rifondare ermeneuticamente l'orizzonte stesso del mistero cristiano nei suoi ultimi presupposti: quello, appunto, che verte intorno al significato della sofferenza e della morte di Cristo come rivelative e partecipative della più profonda « natura » del Dio cristiano, l'Amore trinitario. Un tema di tale attualità e rilevanza che la Commissione teologica internazionale vi ha dedicato ampio spazio nei suoi due recenti e importanti documenti concernenti la cristologia. Vorrei qui, dopo aver dato alcuni spunti sulla genesi di questa problematica teologica e sul suo emergere nelle differenti aree culturali e confessionali, soffermarmi in breve sul contributo finora dato dalla teologia italiana.

 

L'esperienza del dolore nella coscienza di un'epoca

 

Quanto alla genesi, bisogna subito notare che 1a spinta a una concentrazione dell'attenzione teologica sul tema della « sofferenza di Dio » è venuta innanzi tutto dall'esperienza della coscienza collettiva dell'uomo contemporaneo maturata nei lager nazisti e nei gulag d'oltrecortina: basti ricordare, fra tutte, la testimonianza di D. Bonhoeffer; e, più alla radice ancora, in quel clima socioculturale di « assenza-di-Dio » che ha i suoi rappresentanti certamente più noti in Jean Paul, Hegel e Nietzsche, Sartre ed Altizer, ma nel quale è immerso come in una « notte oscura epocale e collettiva» (sono parole di Giovanni Paolo II), tutto il nostro mondo occidentale. Dall'altro lato, la svolta antropologica, la riscoperta della storia come luogo vitale della sintesi teologica, l'esigenza di attualizzare e rendere parlante nell'oggi la classica questione umanistica della teodicea (perché la sofferenza se c'è Dio? e tanto più se Egli è - come crediamo Amore?), ed anche di mostrare il Dio cristiano come Colui che non solo vince la sofferenza, ma « supera » anche dal di dentro, nel Cristo crocifisso e abbandonato sulla croce, ogni situazione di assenza-di-Dio, sono le direttrici fondamentali imboccate dalla teologia per dare una risposta all'inedita temperie storico-culturale dell'epoca contemporanea.

 

Una convergenza sotto il segno del Cristo crocifisso

 

E' sintomatico notare - per rendersi conto della vastità di questo fenomeno - che forse la prima grande opera che abbia affrontato questo tema sia di un giapponese, l'ormai notissimo K. Kitamori nel suo Teologia della sofferenza di Dio: un fecondo incontro fra la peculiarità culturale giapponese, l'orizzonte epocale contemporaneo e la proposta di fede. Ma non mancano, anzi stanno moltiplicandosi, i primi tentativi di realizzare un incontro del genere con l'universo religioso del buddismo, del taoismo e dell'induismo. Se poi dal mondo asiatico ci spostiamo nell'area latino-americana, non sarà difficile costatare come la teologia della liberazione abbia in questa prospettiva la sua scaturigine più profonda e più autentica (cf. L. Boff). Sono proprio la sofferenza e l'oppressione patite da interi popoli - un « Giobbe collettivo » li ha definiti qualcuno - che ha fatto dire a Puebla: « Cristo sa molto bene quello che oggi si tace in America latina: che si deve liberare il dolore attraverso il dolore, cioè assumendo la Croce e convertendola in fonte di vita pasquale » (n. 178). Nel mondo anglosassone, infine, oltre alla precedente tradizione kenotica della teologia anglicana, è oggi soprattutto la filosofia del processo di A.N. Whitehead che esercita un forte influsso nella direzione di una revisione critica dei tradizionali concetti metafisici dell'immutabilità e dell'impassibilità di Dio (è la cosiddetta Process-Theology).

 

Nelle aree confessionali e nella mistica

 

Dalle aree geografiche alle aree confessionali. I1 tema della dimensione trinitaria della Croce attraversa oggi in profondità il tessuto teologico non solo della teologia luterana, alla quale è certamente più congeniale, ma anche di quella ortodossa e di quella cattolica. La theologia crucis di Lutero, Kierkegaard e Barth da un lato, Hegel (cf. il noto studio di H. Kiing sul suo pensiero teologico) e Schelling (cf. l'interpretazione datane da W. Kasper) dall'altro sono all'origine, in Germania, de Il Dio crocifisso di J. Moltmann e del fondamentale Dio Mistero del mondo di E. Jiingel, per non fare che i due nomi principali. Nella teologia orientale, riemergono oggi con incisività, nella visione di un D. Staniloae o di un O. Clément, gli spunti che in questa prospettiva avevano già dato teologi del calibro di P. Florenskij, V. Soloviev, S. Bulgakov e più recentemente P. Evdokimov e V. Losskij. In campo cattolico, la teologia tedesca è stata anche qui la prima: col tema della « mutabilità di Dio » in Rahner e quello della memoria crucis di Metz da un lato, col Mysterium paschale di von Balthasar e il Kreuz und Trinitat di Hoffmann dall'altro. Subito dopo è venuta la Francia: innanzi tutto le intuizioni filosofiche di J. Maritain in uno dei suoi ultimi articoli, e poi C. Duquoc in campo cristologico, G. Lafont in quello trinitario, e J.L. Marion con un originale approfondimento teologico-filosofico dichiaratamente antimetafisico(cf. il suo ultimo Dieu sans l'étre). Per una sintetica messa a punto dell'attuale status quaestionis saranno da consultare i recentissimi G. Rossé, Jésus abandonné. Approches du mystère per 1'esegesi, e H. Riedlinger, Vom Schmerz Gottes per la dogmatica (2).

Per concludere questa sintetica panoramica mi pare importante sottolineare che oggi, soprattutto in campo cattolico, accanto alle classiche spiritualità della Croce (S. Giovanni della Croce, S. Paolo della Croce, S. Ignazio, lo stesso S. Francesco, che in San Bonaventura ha suscitato forse la prima theologia crucis in chiave trinitaria, ecc.) a ispirare gli approfondimenti teologici su questo tema sono delle spiritualità nate proprio in questo tempo - quella di Charles de Foucauld, o di Adrienne von Speyer, o di Chiara Lubich, ad es. - che sono tipicamente centrate, anche se in modi diversi, su Cristo crocifisso e sull'Amore trinitario. Un importante « segno dei tempi » che, in linea anche con la « concentrazione » del Vaticano II sul mistero di Cristo redentore dell'uomo e rivelatore del Dio Unitrino, costituisce oggi un privilegiato locus theologicus.

 

Le tematiche del negativo e del «non essere»

 

Ed eccoci alla presenza di questo tema nella teologia italiana, e ai maggiori contributi che essa ha finora offerto. Senza aver suscitato quell'eco che abbiamo constatato in altre aree culturali, il tema della sofferenza di Dio, e soprattutto quello della dimensione trinitaria della Croce, è tutt'altro che assente presso alcuni fra i pensatori più attenti del nostro panorama teologico e filosofico: anzi, mostra già, in alcuni casi, i frutti di un positivo processo di decantazione e chiarificazione. Oltre alla iniziativa del Congresso romano su « La Sapienza della Croce oggi » (Atti pubblicati in 3 voll. dalla L.D.C., Torino 1976) , e alla nascita della « Scuola superiore di teologia della Croce » sorta per iniziativa dei Passionisti italiani come frutto permanente del medesimo congresso (3), nonché ad alcuni contributi specifici comparsi su varie riviste (4) , mi soffermo qui su quelle che mi sembrano due linee prevalenti nella produzione italiana.

Innanzi tutto, si nota un positivo confronto con la cultura moderna e un approfondimento di carattere più tipicamente filosofico di tematiche come il « negativo », l'angoscia, il rapporto fra essere e « non-essere ». In questa prospettiva si distinguono I. Mancini, coi suoi ormai numerosi lavori, di cui ha recentemente proposto una visione sintetica G. Rognini, nel suo Metafisica e sofferenza (5), G. Penzo con le sue approfondite riletture heideggeriane e nietzscheane e la recente postfazione all'edizione italiana de La luce del Nulla di B. Welte (6), nonché G. Mura col suo prezioso Angoscia ed esistenza. Da Kierkegaard a Moltmann Giobbe e la «sofferenza di Dio» (7). Approfondimenti tutti di primo piano, condotti sul filo di un dialogo aperto e sicuro con il pensiero ideologico ed ermeneutico contemporaneo, con attenzione alla dimensione ontologica del problema, in continuità con la tradizione filosofica del pensiero occidentale.

 

Sofferenza e teologia trinitaria

 

L'altro filone è più tipicamente teologico, e registra anche esso alcuni notevoli contributi. Dalla puntuale disamina storico-speculativa di B. Gherardini dell'Università Lateranense nell'ormai classica Theologia crucis. L'eredità di Lutero nell'evoluzione teologica della Riforma (8), al «trattato» di teologia della croce offerto da FlickAlszeghy dell'Università Gregoriana (9), che si ispirano al noto La sofferenza di Dio di J. Galot (10) e alla visione dinamico-evolutiva di Teilhard de Chardin; dalla notevole sintesi cristologica di B. Forte (11) che - come ha notato giustamente W. Kasper - coniuga le conquiste del pensiero teologico moderno con la peculiarità storico-culturale italiana, al più prudente trattato di M. Bordoni (12), che si raccomanda per l'equilibrata apertura della cristologia al problema dell'immagine di Dio rivelata in Cristo, con sicuro e aggiornato fondamento ermeneutico e biblico. Da ricordare, infine, il contributo della Facoltà di teologia dell'Italia settentrionale ne Il significato cristiano della sofferenza (13) e soprattutto il recente decimo congresso dell'Associazione Teologica Italiana su « L'ingresso della coscienza storica nella teologia trinitaria » (12-16 settembre 1983) nella linea di una elaborazione della teologia trinitaria a partire dall'affermazione della « passione e compassione » di Dio, o meglio a partire dall'evento pasquale, vi si sono distinti A. Milano e C. Nigro (14).

 

Disegnare un'ontologia pasquale-trinitaria

 

Un contributo ricco e diversificato, dunque, quello della teologia italiana, che si caratterizza però per due direttrici fondamentali, come hanno avuto occasione di notare anche G. Bof e P.A. Sequeri: 1) l'esigenza di pensare storicamente la Trinità e trinitariamente la storia, centrando l'approfondimento in particolare nell'evento pasquale e 2) quella di costruire autonomamente un'ontologia disegnata nella prospettiva del mistero pasquale-trinitario. Resta però evidente una certa insufficienza nell'approfondimento a livello di esegesi e di teologia biblica del medesimo tema: in ciò si palesa ancora una volta una delle carenze maggiori dell'attuale teologia italiana. Per questo, dicevamo, il volume di Schürmann, con la sua originale impostazione metodologica che vuol programmaticamente superare le insufficienze dell'esegesi storico-critica rivisitando la «causa» di Gesù nella sua integralità, grazie alla nozione della « pro-esistenza » (traduzione storica, culminante nella Pasqua, dell'estasi d'amore intratrinitaria), fa sperare in un rinnovato stimolo a una maggiore attenzione a questa costitutiva dimensione della riflessione teologica a proposito del nostro tema.

Piero Coda

Note

(1) H. Schürmann. Gesù dl fronte alla propria morte. Riflessioni esegetiche e prospettive, Morcelliana, Brescia 1983.

(2) Rispettivamente: Nouvelle Cité. Paris 1983, e Herder, Freiburg 1983. In entrambi gli studi è accessibile una bibliografia delle opere sopra citate. Rimando inoltre, a proposito dei nostro tema, a due miei articoli, Gesù crocifisso e abbandonato e la Trinità - I. Un nuovo capitolo della storia della teologia? e II. Creazione, Croce, Trinità: una premessa sull'analogia, rispettivamente in « Nuova Umanità » n. 21 (1982), pp. 6-30, e n. 24-25 (1982-83), pp. 25-68. Riguardo allo studio di Rossé, di cui è in corso di pubblicazione un'edizione italiana, ci proponiamo di riprendere prossimamente l'argomento su Gen's.

(3) Tra i primi frutti di tale Scuola cf. AA.VV., Sofferenza e salvezza, Ed. Rogate, Roma 1981, e A. Lippi, Teologia della gloria e teologia della croce, L.D.C., Torino 1982.

 (4) cf. ad es. « Studia Patavina » (1977, n. 2 su Kitamori), « La Scuola cattolica » con contributi di Sequeri e Porro, «Asprenas» con articoli di Pifano e Milano, « Rassegna di Teologia », e specifici ricorrenti contributi su « Nuova Umanità » (cf.. in particolare, i temi sviluppati da G.M. Zanghl).

 (5) Un Itinerario critico con Italo Mancini, Mazziana, Verona 1983.

 (6) « Giornale di teologia » 142, Queriniana, Brescia 1983 (con bibliografia su Penzo).

 (7) Città Nuova, Roma 1982. Del medesimo cf. anche Emmanuel Lévinas. Ermeneutica e «separazione», Città Nuova, Roma 1983.

 (8) Ed. Paoline, Roma 1978.

 (9) II mistero della Croce, Queriniana, Brescia 1978.

 (10) Ed. it., Cittadella Ed., Assisi 1975.

 (11) Gesù di Nazeret, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma 1981 (cf. in particolare « Una storia di finitudine », pp. 260-286).

 (12) Gesù dl Nazaret Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica: 1. Problemi di metodo, e 2. Gesù a fondamento della cristologia, Herder, Roma 1982.

 (13) Ed. La Scuola. Brescia 1982.

 (14) In attesa degli Atti, cf. G. Bof, Trinità e storia: il dinamismo della fede, In « II Regno - Attualità » 28 (1983), pp. 417-419. Di Milano, cf. la voce Trinità nel NDT. Ed. Paoline; di Nigro, Dio più grande del nostro cuore, Città Nuova. Roma 1974.