FAMIGLIA E SACERDOZIO/3
Continuiamo la serie d'interviste a famiglie
di cristiani impegnati, sulle loro attese, esperienze, suggerimenti nei
riguardi del sacerdote oggi e di coloro che si preparano a diventarlo. E' la
volta di Simonetta e Piergiorgio Colonnetti,
dirigenti nel settore delle famiglie del Movimento dei Focolari. Alla
conversazione ha partecipato anche il loro figlio Paolo, 15 anni.
Qual è la difficoltà più grossa che trovate nel rapporto
tra voi laici e i sacerdoti?
PIERGIORGIO. Un aspetto che mi fa sempre soffrire è il distacco cosi forte che c'è fra noi ed
i sacerdoti. Si sono fatti già tanti passi per superare questo
divario, però si sente ancora una distanza enorme. Pensavo in questi
giorni a quel sacerdote che ogni mattina presto dice la Messa per quelle 5 o 6 persone che si trovano in chiesa con
me. Se c'è una cosa per cui sempre ho provato
una profonda gratitudine verso i sacerdoti è, naturalmente,
l'Eucaristia. Solo che mi sembrerebbe inconcepibile andare ogni giorno a Messa
in maniera anonima, senza stabilire un rapporto con quel sacerdote. Se
l'eucaristia è espressione ed alimento dell'unità (« siamo
un solo corpo perché mangiamo lo stesso
pane »), io non posso parteciparvi in forma individualistica,
senza interessarmi di quelli che ho attorno. Altrimenti la Messa si trasforma
solo in un rito che soddisfa le mie esigenze religiose, ma allora
questo sacramento cristiano perde la sua originalità più
profonda. Dopotutto, anche i non cristiani hanno dei riti religiosi. Dove
sarebbe allora la novità del culto cristiano? Si dirà che la
novità sta nel fatto che li c'è
Gesù. E' vero. Però Gesù è venuto per portare
l'amore tra gli uomini prima ancora dei riti, e solo in quel contesto la
liturgia acquista il suo vero significato.
E' inevitabile che quando la comunità che partecipa alla Messa diventa troppo
grande ed è poi composta da persone di diversi livelli di
maturità cristiana, non si riesca sempre a conoscere tutti in
maniera personale e profonda. Ma possiamo dirci cristiani senza almeno
quest'esigenza interiore di condividere non solo una cerimonia ma tutta la
nostra vita? Noi ed i sacerdoti siamo profondamente
legati, siamo gli uni al servizio degli altri. Lui non è un
funzionario che celebra la Messa e poi ognuno va per conto suo. Questo devono
sentirlo i sacerdoti ma dobbiamo prenderne
coscienza anche noi, altrimenti si resta sempre in rapporti di paternalismo, di
dipendenza o di ignoranza reciproca senza superare la distanza che ci separa.
E' solo nella fraternità di stampo evangelico che ognuno trova il
proprio posto mantenendo la più profonda comunione.
Sì, credo che sia radicato questo non-rapporto fra i sacerdoti e
le altre persone. Lo vedo ad esempio a scuola. I ragazzi considerano il
prete come « di un mondo
diverso », di un'altra razza. Qualcuno che dice la Messa, che
ha un rapporto con Dio, ma diverso da noi, di fronte
al quale non ci si sente a proprio agio, con cui non si parla degli stessi temi
e con lo stesso linguaggio comuni agli altri uomini che incontro
nella giornata. Si parla con il sacerdote soprattutto se si hanno dei problemi
di coscienza, religiosi, ma non lo si vede anche come
una persona normale, con la quale si può stare assieme, si mangia,
si passeggia, ecc. Si sente ancora troppo il peso storico del prete come
«separato». Vedo che alcuni sacerdoti avvertono questo e ne soffrono tanto. Qualcuno tra di loro cerca di superare
questa situazione adattandosi sia negli atteggiamenti che nella maniera di
vestire o nel linguaggio. Personalmente però ho la impressione che
questi sacerdoti corrano due rischi molto concreti: il primo quello
dell'artificiosità, quando forzano le cose per apparire in modo
diverso da quello che sono o cercano di mostrare una spregiudicatezza
che non va, il secondo è quando per farsi « uomini con gli uomini » sembra che non
riescano più a far trovare Dio, mentre — soprattutto a noi
giovani — non ci basta il prete « amicone »,
ma vorremmo che ci mostrasse nella propria vita l'importanza di Dio e
la potenza del Vangelo.
Quale vi sembra la
caratteristica di cui più
avrebbero bisogno i sacerdoti oggi?
SIMONETTA: In tanto sacerdoti trovo una santità
e una virtù particolari, basti pensare
al fatto che da soli riescono ad andare avanti « contro corrente », spesso in
mezzo ad un contesto sociale indifferente o talvolta ostile, pagano,
secolarizzato. Ciononostante, anche in tanti sacerdoti dei più bravi,
credo che manchi una dimensione fondamentale per il momento che vive
l'umanità. Conosciamo personalmente ad esempio diversi gruppi di sacerdoti
gentili, semplici, disposti ad aiutare la gente in tutte le occasioni.
Avverti che sono persone che ce la mettono tutta, che fanno le cose per amore.
Nello stesso tempo però, si sente che sono persone brave
ma isolate. Mi sembra che manchi il timbro, la luce e la forza
particolari che dà l'unità. Sarebbe fondamentale che i sacerdoti
con noi, ma anche i sacerdoti fra loro,
trovassero una profonda comunione, riuscissero ad aiutarsi, a potersi
comunicare le proprie esperienze, a condividere come dice S. Paolo gioie e
dolori, a partecipare dei doni gli uni degli altri. Forse cosi tante cose
cambierebbero nella vita dei sacerdoti e di tutta la Chiesa.
Ricordate qualche esperienza concreta al
riguardo?
SIMONETTA Un'esperienza interessante l'abbiamo fatta a contatto con
un sacerdote di carattere chiuso, con delle idee che oggi sono considerate non
più al passo con i tempi.
Non era ben visto da tanta gente, ma avvicinandoci a lui cercando di lasciare
da parte i pregiudizi e di volergli bene, abbiamo scoperto che in
realtà era una carissima persona. Dietro alla sua rigidità, a quella « corteccia » brusca e severa che si era creata
esteriormente, abbiamo trovato una rettitudine ed un'unione con Dio
sorprendenti. Credo che se tanti sacerdoti sono
diventati severi, e talvolta mancanti di calore umano, è
proprio perché sono stati soli, hanno dovuto lottare per
rimanere in piedi loro e per sostenere gli altri a forza di tanta virtù
personale, ma non hanno potuto vivere in un clima di vero affetto, di
amore in senso evangelico. Per questo si sono chiusi, dimostrandosi a volte
aspri. Quando ci troviamo di fronte a queste persone cerchiamo di andare al di
là delle apparenze umane di vederli nella giusta luce, di apprezzare il
bene che c'è in loro, amandoli con quell'amore che dà senza
chiedere, e poi constatiamo come in questo clima respirano nuovamente
e possono ridiventare un vero dono per tanti.
Come vedete il rapporto fra sacerdozio e
famiglia?
PIERGIORGIO. Quando ero
giovane alcuni figure di sacerdoti sono state decisive
per me. Ricordo soprattutto uno che ha influito molto in un periodo della mia vita,
e la cosa che più ho apprezzato
in lui era che fosse sempre disponibile. Quello che più mi colpiva nel sacerdote è che potesse essere
una persona «tutta per me». E perché era tutto per me? perché era tutto di Dio, altrimenti non poteva
essere tutto per me. Per cui io capivo benissimo che il sacerdote non si
sposasse. Questo, secondo me, è uno dei punti fondamentali del celibato
sacerdotale: la piena disponibilità non solo di fronte a Dio ma
anche di fronte ai fratelli. Non mi sembra tanto una questione di tempo,
perché potrei disporre di molto tempo anche come apostolo laico sposato
se avessi i mezzi per vivere e potessi dedicarmi totalmente agli altri. La
piena disponibilità a cui mi riferisco è
soprattutto un fatto profondo, dell'anima. Quando ci si trova davanti
a una persona, si avverte se è una persona della quale possiamo
fidarci perché vive pienamente per noi.
Una cosa interessante è che il rapporto con coloro nei quali ho trovato
questa assoluta disponibilità, per me è stato determinante per capire
il matrimonio. In questo senso: che siccome vedevo in quelle persone dei
totalitari, e non attribuendo io al sacramento del matrimonio un valore inferiore a quello del sacerdozio, ho capito che
se mi sposavo dovevo essere un totalitario cosi come lo era chi si dava
totalmente a Dio per essere tutto disponibile agli uomini. Cosi io dovevo
sposare mia moglie mettendo Dio al primo posto ed aprendomi ad amare lei e
tutti gli uomini con lo stesso amore di Cristo. Quando oggi si discute se degli
sposati potrebbero essere ordinati diaconi o addirittura sacerdoti in
determinate circostanze, si pensa a tanti aspetti, ma forse non si sottolinea abbastanza l'esigenza di quella
scelta totalitaria, cosi fondamentale per chi deve consacrarsi a questo
servizio nella Chiesa. Alle volte si confonde verginità con disponibilità, mentre si
può trovare un vergine attaccato a delle cose che non sono Dio e quindi
non veramente totalitario, come viceversa uno sposato spiritualmente « verginizzato »
dall' amore e dalla dedizione agli altri.
Quello che conta, per gli uni e gli altri, è questa scelta profonda e
completa di Dio, alla base di tutto.
Come concepite il ruolo della famiglia nei
riguardi della vocazione dei figli?
PIERGIORGIO. Io penso che noi genitori
abbiamo una grande responsabilità. Infatti da una parte dobbiamo lasciare
liberi i figli perché non ci appartengono, ma appartengono a Dio.
D'altra parte più respirano in famiglia un'aria di autentico
cristianesimo, vedendo l'amore cristiano vissuto fra i genitori in maniera
totalitaria, più loro capiranno che la loro dev'essere una scelta
totalitaria. Noi non dobbiamo imporre niente, ma se in famiglia si è
fatta un'esperienza profonda di cristianesimo, questo sarà un elemento
decisivo per tutta la vita dei figli, specialmente per il momento in cui
dovranno decidere la propria strada. Dal momento in cui uno entra nell’ordine di idee che
la sua vita deve essere la vita di un totalitario, di uno che vive
completamente per gli altri, dopo può diventare sacerdote, può
sposarsi, o fare qualsiasi altra cosa, ma non sarà uno che fa le cose a
metà, bensì qualcuno che darà un contributo positivo
all'umanità. Un tale contesto è decisivo per l'eventuale
vocazione sacerdotale dei figli. L'importante è che ci sia quella impostazione
di fondo nella famiglia, che si cerchi di vivere sul serio le virtù
evangeliche. Prendiamo per esempio la povertà. Noi vediamo come
sotto certi aspetti il nostro Paolo abbia seriamente dentro il senso della povertà, certamente molto di più di
altri suoi compagni. E questo è importante in particolare nei confronti della società dei consumi in cui
viviamo. Son tutti elementi che possono contribuire alla formazione,
perché se un ragazzo si abitua ad avere tutto quel che vuole e si sente
in diritto di avere tutto dalla vita, a un certo punto una scelta come quella
sacerdotale che comporta anche rinuncia, facilmente resterà fuori
dall'orizzonte delle sue aspirazioni. Credo che noi genitori cristiani dobbiamo
da un lato chiedere a Dio che si faccia la sua volontà sui nostri figli,
ma dall'altro dobbiamo fare tutta la nostra parte perché se fossero
chiamati ad una vita di consacrazione non abbiano
a trovare in noi un ostacolo a causa del nostro cristianesimo troppo povero.
A cura di Enrique Cambón