PUBBLICITÀ PER IL CRISTIANESIMO?

di Klaus Hemmerle

 

Oggi si fa pubblicità per tutto. Si cerca perfino di reclamizzare la propria opinione personale perché faccia presa sulla società.

Perché non fare la stessa cosa anche con il cristianesimo?

Per una benché minima questione si mettono sul tappeto argomenti dal­l'una parte e dall'altra, e si discute fino all'inverosimile. Ma è forse possibile che ci siano argomenti capaci di far arrivare alla fede? o che qualcuno possa essere convinto del cristianesimo con la discussione? Certo, a volte i cristiani hanno troppa soggezione, e capita spesso che confondano quella che deve essere l'apertura essenziale per tutte le domande e tutti i problemi con la paura compassionevole di « shockare » l'altro attraverso chiare provocazioni o una testimonianza di vita univoca. E' un po' come se avessero il timore di contrapporsi, di assumere una fisionomia precisa.

 

"L'impotenza" del Vangelo

Sarebbe però una conclusione troppo affrettata sostenere che tutta l'impo­tenza del Vangelo nella società di oggi sia dovuta a questo comportamento dei cristiani. Perché il Vangelo ha, per così dire, una « impotenza costituzionale ». Il Vangelo non può assolutamente far concorrenza a tutto ciò che, attraverso una pubblicità sfacciata e assordante, solletica i bisogni superficiali dell'uomo; il Vangelo non può rendersi appetibile come tante altre cose, che si offrono all'uomo come via automatica per la felicità; il Vangelo non può annidarsi nel cuore dell'uomo come tante altre cose che vi trovano posto soltanto perché eludono e rendono inefficace la decisione cosciente dell'uomo.

Nella lotta aperta delle ideologie — fatto acquisito della nostra società pluralistica — il vangelo ha quasi necessariamente la peggio. Anzi Dio stesso, che non può rimangiarsi la sua decisione di aver creato e voluto l'uomo come suo libero « partner », ha la peggio.

E con tutto ciò l'annuncio è necessario. E non nel vuoto, ma dove c'è l'uomo. Occorre dunque rivolgere l'annuncio non al possibile uomo che corrisponde al piano originario di Dio, ma all'uomo concreto.

Porre troppo presto la domanda del « come », sarebbe però fatale. Perché, proprio nel caso del Vangelo, metodo e contenuto non possono essere disgiunti. Per il momento perciò lasciamo da parte ogni domanda « strategica e tattica » su come il cristianesimo possa, oggi, incidere sull'uomo. Anche perché l'impo­tenza del Vangelo nel mondo può ancora indicarci qualcosa: l'impotenza della parola in genere, l'impotenza delle argomentazioni, e infine l'impotenza anche di quegli stimoli e di quelle impressioni che, potenti invece a livello di reclame, giocano un ruolo tanto decisivo quanto superficiale. La violenza esercitata sull'uomo attraverso una pioggia di immagini e di suoni, di luci e di rumori, di argomenti e di sentimenti diventa così macroscopica che l'uomo, da una parte non può più sottrarvisi e dall'altra non può neanche rispondervi rimanendo se stesso. Egli reagisce, sì, ma reagisce soltanto sul momento; reagisce, ma solo per liberarsi dalla tensione momentanea e da ciò che si pretende da lui volta per volta. E in realtà questo modo di reagire, questo continuo susse­guirsi di modi di consumo e di comportamento sempre nuovi, sono soltanto il vestito dell'indifferenza, della noia e dell'ottusità interiori. L'uomo non trova mai la pace e proprio questa è la sua stanchezza fondamentale. Ciò che consuma sazia il suo appetito, ma gli lascia là fame.

Ed è cosi che talvolta, attraverso l'emotività impetuosa della protesta contro tutto ciò che esiste o attraverso il disagio latente nei confronti della società e del mondo in genere, questa fame si fa strada già apertamente. Ma allora — e torniamo di nuovo a porci la questione sul « metodo » dell'an­nuncio — come può l'uomo arrivare alla parola attraverso la parola, alla luce attraverso la luce?

 

Alla ricerca di una identità

Rimandiamo questa domanda ancora una volta. Oggi sia la vita del singolo che i rapporti interpersonali sembrano diventare ugualmente e nella stessa misura un semplice fascio di funzioni. Niente, di ciò che sperimentiamo, sta a sé. Tutto è interdipendente. E ciò vale per tutti gli ambiti di vita pensabili. Non solo il lavoro, l'economia, le comunicazioni sociali, la tecnica e le scienze si sviluppano in un intreccio sempre più complicato, ma addirittura nell'am­bito cosiddetto privato — dalle vacanze, alla pastiglia per dormire, fino all'« in­dustria » della cultura, della malattia e della morte — io mi ritrovo pianificato attraverso l'imposizione di modelli di comportamento, senza la possibilità di determinarli, né di ritrovare me stesso in loro.

La funzione è tutto; ma tutte le funzioni di ciascun ambito sono interdi­pendenti. La convergenza dunque di questo fascio di funzioni, non è altro che un garbuglio di fili che collegano un ambito con l'altro, senza che nel tutto appaia un senso unico, una parola capace di interpretare tutto.

Sarebbe però anacronistico prodursi in lamentazioni critico-culturali deplo­rando un tale sviluppo, come pure sarebbe da irresponsabili lasciare che tale sviluppo proceda, senza pronunciarsi. Ciò che succede all'uomo, quando l'es­sere diventa funzione, non può venire ignorato, ma richiede uria interpreta­zione e una configurazione. Di fatto l'essere si è trasformato; quell'essere cioè che tutto significa per l'uomo e attraverso il quale l'uomo coglie tutto se stesso e la realtà che lo circonda. L'uomo non può più prescindere dalla domanda: a che cosa porta, a che cosa serve, questa trasformazione dell'essere?

Egli non può interpretare le cose in se stesse, ma solo come funzioni per.... Le cose e il mondo non sono alienati per il fatto che servono a qualcosa, né per il fatto che « servizio » sia una caratteristica fondamentale delle cose, anzi della società e dell'uomo stesso. L'essere diventa passaggio, rapporto. Eppure non è solo un problema della vecchia generazione cercare qualcosa in cui trovare una identità. Anche lo stare semplicemente qui, il considerare qual­cosa in sé, il tentativo di non lasciarsi spersonalizzare attraverso un atteggia­mento o di soggezione o di sfruttamento, fanno parte dell'essere. E se è vero che non pochi rivoluzionari veri o apparenti sognano una società in cui la vita semplice e immediata sia rivalorizzata e in cui il potere del mecca­nismo burocratico sia definitivamente superato, è facile vedere come, da questa aspirazione, traspaia la nostalgia di una nuova identità. Essere: funzione o identità? Questa tensione non è risolta, anzi bisogna chiedersi se è possibile risolverla. Una cosa almeno si può dire: in questa tensione si rende evidente la fame che è nascosta dietro tutto l'appetito o l'assenza di appetito dell'uomo.

 

Una proposta al di là delle tensioni

La « buona novella », il vangelo che Gesù ci porta, dice: « Identità e funzione sono la stessa cosa »; l'essere, l'essere-qui totale e pieno e l'essere-fuori servendo gli altri sono la stessa cosa. Questa è la risposta alla domanda insita nella fame dell'uomo. Ma è anche la risposta alla domanda sul come fare « pubblicità » al Vangelo. Perché quell'essere che è servizio, quel servizio che è « essere », identità, silenzio e « stare », non può essere annunciato se non tramite se stesso. Per dirla con il vocabolario tradizionale cristiano: il conte­nuto e il metodo dell'annuncio è l'amore. L'amore può essere testimoniato solo con l'amore. Anzi è proprio l'amore questa identità tra essere e funzione, silenzio e parola.

E' chiaro però che questa identità non sussiste in un amore che fosse soltanto una « bella qualità » e, come tale, un prodotto dell'uomo sia pure incentivato da un aiuto soprannaturale. L'amore, di cui tratta il vangelo, è una realtà che l'uomo non può mettere in atto con l'agire, ma soltanto con l'« essere » amore. L'uomo? E' chiaro che, prima di tutto, Dio stesso è Amore. Ma poiché egli, essendo Amore, si dona, il suo modo di donarsi è cosi radicale, così totale che noi, creati secondo la sua immagine, non possiamo soltanto avere l'amore, ma esserlo.

In questo senso la passione di Gesù, il suo semplice essere esposto alla volontà del Padre, la sua impotenza e incapacità, nelle quali Dio stesso s'iden­tifica con la nostra importanza e incapacità, sono l'espressione dell'attività massima. L'amore « è » semplicemente, non realizza nient'altro che se stesso. Per questo l'amore è inesauribile e non può rimanere deluso; esso rimane ed è potente proprio là dove è data per certa la sua sconfitta; esso rimane ed è potente proprio nella sua impotenza. L'amore non strappa niente, non manipola niente, non strumentalizza niente; in questo senso non è mai « sicuro » di raggiungere lo scopo, eppure proprio in questo modo riesce a penetrare nel­l'intimo dell'altro. L'amore sostiene l'altro che, in questo essere sostenuto, trova la sua identità. Non esiste per l'uomo nessun'altra identità se non quella di essere sostenuto dall'amore e, attraverso questa esperienza, di acquisire a sua volta la capacità di poter sostenere gli altri.

Il fatto che Dio, nella sua vita più intima, è Amore che si dona e che, per questo, rimane in se stesso; il fatto che, proprio per questa ragione, Dio, che si pone fuori di sé, comunicandosi al mondo e all'uomo, non è nient'altro che Amore che si dona, si trascende, ci sostiene e ci prende dentro di sé, tutto questo è praticamente il vangelo intero. Questo vangelo però colpisce l'uomo — soprattutto l'uomo di oggi — proprio nel centro del suo cuore, che è inquieto perché teso alla sua realizzazione e anche perché chiuso in se stesso, mentre il suo è un cuore fatto per gli altri.

Ma come mai il vangelo incide così difficilmente? In fondo ci sono due ragioni: la prima è che è tutt'altro che facile donare veramente il proprio cuore, e solo il cuore donato « capisce » il cuore di Dio. La seconda è che tutte le parole dette non possono esprimere la Parola. Soltanto là dove tutte le parole, tutta l'attività umana e i suoi effetti si ricompongono nell'identità silenziosa dell'essere-amore, l'amore diventa credibile e comprensibile.

Per questo nel silenzio di Maria la Parola è venuta a noi, sul suo sfondo la luce si è manifestata al mondo, attraverso il suo niente il Tutto, il Dio che si dona, si è comunicato a noi. Lei non ha fatto niente, era soltanto presente. Come pure le parole che Gesù aveva da dirci, i suoi, finché si limitava a par­lare con loro, non le hanno capite, benché egli le confermasse con segni. Di fatto essi hanno potuto capirlo soltanto dopo che egli si è pronunciato totalmente e comunicato fino in fondo, cioè fino all'ammutolimento del suo Amore nella morte di croce. Soltanto quando egli è stato innalzato, lo Spirito ha potuto effondersi. E solo lo Spirito può suggerire al cuore dei credenti che le Parole di Gesù non sono sue, ma del Padre che l'ha mandato.

E' chiaro perciò che non si può fare « pubblicità » per il Vangelo, ma solo essere « pubblicità viva », e questo solo a patto di essere amore. A consi­derarlo bene, ciò si trova già nel Vangelo. Poiché da questo tutti devono rico­noscerci come suoi discepoli: dal fatto cioè che noi ci amiamo come Lui ci ha amati (cfr. Gv. 13); e che Lui sia mandato dal Padre deve diventare credibile per il mondo, dal fatto che il mondo stesso ci vede uniti tra di noi come il Padre è uno con il Figlio (cfr. Gv. 17, 21).

 

Essere la Parola

Si tratta quindi di non far più baccano degli altri, ma meno; di non essere più attivisti degli altri, ma meno. Eppure questo « meno » è tutt'altro che quietismo, anzi è l'attività totale. E tuttavia questa attività non si pone come un supplemento dell'essere, ma come un essere presente, assoluto. Tutto questo non significa neppure una svalutazione della parola: le parole ci devono pur essere. Esse però non devono più esprimere argomenti, ma la Parola, l'unico argomento: l'Amore che si dona.

E' vero che la Chiesa ha ricevuto da Gesù il mandato di non tacere mai il suo annuncio e di non omettere niente di esso. E' vero che questo annun­cio rimane « valido », anche se noi non l'accettiamo, come la validità dei sacramenti non dipende dalla santità di chi li amministra. Ma le parole diventano efficaci soltanto se noi ne rivestiamo l'annuncio con la nostra vita, se noi stessi siamo la parola che diciamo.

Ciò riguarda certamente ciascun singolo; ma il singolo non basta. Dio stesso non è un « singolo »; egli « è » comunità, dono reciproco. Ciascuna delle persone divine ha il suo senso e il suo scopo nelle altre, ciascuna di esse — per esprimerlo in modo umano — « si ammutolisce » nelle altre.

Alla domanda perché Gesù abbia mandato i discepoli a due a due, risponde Gregorio Magno: perché fra meno di due l'amore non può essere vissuto.