alcune
esperienze di impegno cristiano
Iracema è, morta in famiglia
«Un
fatto di particolare rilievo è stata la morte di Iracema, una parroccbiana di Joaquin Nabuco, diventata
famosa nella parrocchia per via del porcellino — unico suo sostegno — che aveva
venduto per partecipare ad un raduno parrocchiale.
ha sua malattia è stata l'occasione perché nella
comunità si concretizzasse il legame della famiglia. Poiché
Iracema viveva di elemosina e non aveva nessun parente, i parrocchiani si sono
mossi per assisterla a casa e in ospedale. Qui riceveva tante visite. Una
signora che era nello stesso reparto un giorno ha esclamato: «Ma
cosa è questa faccenda? Questa donna
è sola al mondo, è poverissima, e nel frattempo riceve visite
continuamente. Invece io che ho parenti e figli non ho nessuno che si
interessa di me ».
Sembrava che Iracema
migliorasse. Ad un certo punto inaspettatamente è spirata, mentre le erano vicini Padre
Norbert e altre persone della comunità che non avevano previsto una
fine così immediata. L'accompagnamento funebre si è svolto
in un clima soprannaturale. E' stato uno dei più solenni a Joaquin
Nabuco, per la testimonianza di fede data dai parrocchiani davanti a tutta
la città e perché si è potuto verificare come i cristiani
si amano al di là di ogni condizione sociale.
I membri della comunità e altre persone di Joaquin Nabuco sono
rimasti impressionati da Iracema. Uno di loro:
«Una cosa che mi ha fatto un bene immenso è stato vedere come
Iracema accettava la sofferenza. La parola che ripeteva spesso era: sia fatta
la volontà di Dio. Rimanevo colpita dalle sue parole piene di sapienza ».
Per il contributo che tutti
i parrocchiani sono stati pronti a dare ci sembra di poter dire che
Iracema è morta in famiglia,
tra persone che l'hanno amata fino alla fine, nonostante sia vissuta
sola e senza una famiglia naturale ».
dal Brasile
Nessuno veniva a trovarlo
Come un infermiera
cerca di essere carità per gli altri sul
lavoro, continuando questo impegno che sto vivendo con tutta la
parrocchia: «Era arrivato nel reparto dove lavoravo come infermiera
un degente ex-protettore ed ex-carcerato ritenuto, da chi si
sente di poter giudicare, un rudere della società e perciò
messo al bando.
Si trattava di un soggetto difficile da
avvicinare, scostante, con un linguaggio volgare che usava con tutti
indistintamente a tal punto che tutti cercavano di sfuggirlo. Rifiutava il
cibo; nessuno veniva a trovarlo ed era sempre solo.
Un giorno, dopo alcuni tentativi negativi,
mi sono detta: «Tu non ami
abbastanza. Questo è il momento di vivere fino in fondo il tuo cristianesimo ». E cosi quando, al mattino, gli portano la colazione ed egli la rifiuta,
faccio finta di niente, entro tutta serena e dò il buongiorno a tutti,
ma mi avvicino e saluto lui. Con premura gli rivolgo mille domande: se ha
fatto colazione, se ha riposato, se ha dolori, se c'è qualcosa che
non va, se vuole qualche altra cosa da mangiare. Mi risponde: «No, no, va
bene cosi! ».
Allora ho capito che dovevo dimostrargli
di volergli bene concretamente: cioè fargli sentire che luì era più importante degli
altri, aiutandolo a ritrovare la fiducia nelle persone. Ho cercato di fargli
capire che non era la sua vita passata che ci interessava, ma che era ammalato
e che, per questo, cercavamo di ridargli la salute con tutti i mezzi a
nostra disposizione.
Da quel momento è cambiato. Solo che, quando io avevo il turno di
riposo, lui, come prima, si rifiutava di mangiare. Un giorno gli ho
chiesto il perché, e lui mi fà: «Vengono, ti
mettono il vassoio e vanno
via! » Cosi, per tutto il tempo che è
rimasto ricoverato, io gli portavo il cibo, e quando ero libera, lo
pregavo dì comportarsi bene anche con gli altri.
Forse perché si è sentito amato, ha iniziato a
raccontarmi della sua situazione familiare,
dicendomi che erano anni che non vedeva le sue bambine. Per questo mi
è sembrato logico, quando dopo la sua dimissione arrivò in
ospedale una lettera a lui indirizzata, pregare il postino di recapitargliela personalmente più presto poteva.
Dopo alcune settimane me lo ritrovo davanti a farmi gli auguri e a ringraziarmi
della lettera. «Sa, — mi dice —,
erano dei disegni delle mie bambine, grazie, non lo dimenticherò
».
Adesso viene ogni tanto a salutarmi, è venuto anche alcuni giorni fa, e mi sembra che
una cosa vada capendo: che non importa tanto quello che ha fatto, ma
quello che ora, ogni giorno, può fare».
da Zambana
- Trento
Mi ero infilato "sottocoperta"
Racconta Renzo della comunità di S. Giovanna d'Arco, in Torino: «Eravamo
tornati da Vallo da poco e mi riprendeva il mal di testa che già mi
aveva angustiato nel pomeriggio.
Ester mi ha preparato una cena frugale
che abbiamo consumato con i bambini. Poi mi sono disteso ad ascoltare
alcune notizie alla televisione.
Ma la stanchezza in queste
circostanze mi vien fuori ed il sonno trionfa; cosi mi sono
infilato sottocoperta..., lasciando Ester appisolata sulla poltroncina.
Sto per assopirmi quando,
ancora con un occhio aperto che guarda al Crocifisso sul comò, mi sento un po' turbato. Mi accorgo che penso
d'essere un emerito egoista. Di là in cucina, un po' in
disordine, c'è la pila dei piatti e stoviglie accumulati da mezzogiorno
che ammiccano golosi di detersivo.
Mi dico: come è possibile dire di amare se sono qui a dormire e
non cerco di aiutare anche nel poco il mio più prossimo? Ecco la parola
di vita, appena sentita, far capolino insidiosa: « Ama Gesù
nella tua debolezza perché in essa
è la tua forza».
E' stata una staffilata. Le coperte sono
volate via ed in pigiama sono andato a rigovernare cercando di farlo con
distacco e col minimo rumore. Avevo appena finito che spunta Ester insonnolita
e mi guarda con due occhi cosi!
Era tanta la gioia in me che il mal di testa quasi
era scomparso come pure il sonno. Non solo, ma abbiamo anche potuto scambiarci
le nostre impressioni — i bimbi ormai
dormivano sodo — sulla giornata trascorsa, facendo, come di
consueto, l'ora piccola.
Da Torino