maturità umana e dono di sé

intervista della redazione al prof. Giuseppe Zanghì

 

Spesso si pensa che per crescere umanamente occorra affer­mare la propria personalità, diventare qualcuno. Si dice che « bisogna gridare più alto degli altri per essere ascoltati », ecc. Qual'è la concezione cristiana delle personalità e della maturità umana?

Di per sé, la parola greca che esprime il concetto di persona significa « maschera », la « persona » era la maschera che l'attore tragico usava per recitare sulla scena. Questo è importante, perché vuol dire che nella conce­zione greca la persona è un mistero che viene mascherato in un modo o nell'altro dal ruolo o dalla parte che io gioco nella vita. Già questo nome è un dato, un fatto misterioso: quello che io so è soltanto che sto giocando una parte, quello che io sono non lo so. Non per niente l'oracolo di Delfo racco­mandava tanto di conoscere se stessi: sembrerebbe una frase ovvia e scontata, se non ci fosse sotto invece molto più profonda la sensazione, la percezione che per l'uomo conoscere se stesso è una cosa molto difficile, è un mistero.

Quello che noi cristiani dovremmo predicare sopra i tetti è che il Verbo incarnandosi non ha lasciato le cose come stavano; Gesù non è stato un fran­cobollo che l'eterno Padre ha messo sulla lettera che si chiama uomo per farla arrivare a destinazione. Gesù ha rivoluzionato completamente i nostri concetti perché ha rivoluzionato completamente la struttura stessa di quello che noi chiamiamo essere uomo.

C'è una frase molto bella di s. Gregorio di Nissa: « L'uomo è un essere creato da Dio per diventare persona ». Ora il mistero della persona ci è stato svelato nella rivelazione di Gesù. E' li che dobbiamo sprofondare il nostro sguardo per cogliere cosa vuol dire per l'uomo essere persona. Qui pos­siamo soltanto accennarlo.

Cosa sia la persona, Gesù ce l'ha fatto capire già quella volta famosa in cui ha buttato per terra Paolo sulla via di Damasco. Gli dice: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? ». E' curiosa questa identificazione che Cristo fa di sé con i cristiani. « Qualunque cosa avete fatta al minimo l'avete fatta a me ». Paolo dice: « Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me ». « Noi siamo il corpo di Cristo », ecc. Cosa significa? Significa che noi dobbiamo scavalcare un certo concetto della persona in cui persona era uguale a indi­viduo. Questo comportava un sacco di problemi: come mettere d'accordo l'in­dividualità con la socialità? Come mettere d'accordo l'affermazione di me con quella degli altri? Tutti problemi che, secondo me, si chiudevano la strada alla soluzione perché erano posti male in partenza, confondendo tra personalità e individualità, mentre la persona è proprio il rapporto stesso fra me e gli altri. Sembrerà strano questo a delle persone non abituate a vedere le cose in questa prospettiva, ma è cosi. Se entrasse qualcuno in un posto dove sono radunato con altri, e mi chiedesse: « tu chi sei? ». Se ho ben capito quello che Nostro Signore ci ha insegnato, — il Corpo mistico del quale parliamo così spesso —, dovrei rispondere: « io sono noi ». E con questo non farei un gioco di parole ma direi una cosa vera. Questa è la mia persona, cioè la mia persona non è altro che il rapporto che io riesco a stabilire in ogni attimo con tutti quelli che mi passano accanto. Io mi personifico in questo rapporto, io sono questo rapporto che, logicamente, dopo è vissuto in una certa maniera da me — ecco allora che la persona diventa individuo — e in una certa maniera da ciascuno degli altri. Ma allora l'individualità non è altro che il modo in cui ciascuno di noi vive il suo « esser persona ».

La persona è un fatto eminentemente comunitario. Io non posso posse­dere da solo il mio esser persona: è contro la definizione stessa di persona. Se guardo alla Trinità, quello che io devo possedere in maniera unica e in un certo senso incomunicabile è il mio modo di possedere, diverso da quello degli altri.

Allora cosa vuol dire per noi diventare persona? Significa stabilire dei rapporti comunitari sempre più profondi fra noi, cioè d'amore, di carità, sapendo che è soltanto in questi rapporti che io riesco a personificarmi. Poi — o nello stesso tempo — bisogna che io questi rapporti li prenda e li viva nel mio modo.

Quindi c'è una differenza fra il piano della persona che si potrebbe chiamare spirituale, e il piano dell'individuo che si potrebbe dire psicologico. Bisogna essere attenti a non confondere questi due piani. La persona è eminen­temente amore, poiché Dio è tripersona e Dio è Amore, e l'amore vuol dire rapporto, vuol dire dono, è l'opposto della chiusura in sé. Dunque persona vuol dire compimento nell'apertura reciproca: io sono gli altri, gli altri sono me. Questa apertura è vissuta da ciascuno di noi in una maniera particolare ed irripetibile, che ha una sua bellezza, ma è il mio modo di vivere qualcosa che non posso possedere da solo. Quindi il momento in cui io mi sgancio, mi stacco da questo rapporto, che è la carità fra noi, nello stesso momento io mi condanno a non essere più neppure individuo, perché raggelo, chiudo, blocco la mia individualità alzando intorno a me dei muri, trasformando la mia individualità, da modo mio di vivere l'unico amore che circola fra di noi, in una condanna a non poter più comunicare con gli altri. E' allora che « gli altri sono la negazione di me », « gli altri sono il nemico », « gli altri sono l'inferno » come dice Sartre. Mentre nella visione cristiana noi dovremmo dire: gli altri sono me, gli altri sono quelli che mi fanno « me », dunque gli altri sono il Paradiso, se è vero che il paradiso vuol dire la mia identità finalmente raggiunta. La persona è un punto d'arrivo, una promessa che sta nelle mani di Cristo, qualcosa che Cristo mi darà compiutamente alla fine, perché noi sappiamo che soltanto alla fine noi riusciremo ad essere del tutto amore. Adesso ne abbiamo già però la caparra, come dice S. Paolo, perché lo Spirito Santo che è Amore, già ci personifica, proiettandoci, buttandoci gli uni verso gli altri.

Dunque io trovo me stesso non nella solitudine, ma nel rapporto con l'altro. Chi ama trova se stesso nell'apertura d'amore con gli altri. Diventare persona significa scendere incontro agli altri e stabilire con loro un dialogo che mi consenta di avere una comunione all'interno della quale soltanto io riesco ad essere persona, all'interno della quale riesco a vivere nel mio modo questo nostro comune esser persona.

 

Come si combina questa visione della personalità che ci hai dato, con la necessità di usare la nostra intelligenza, di proget­tare il nostro futuro?

Per rispondere a questa domanda, bisogna fare una precisazione, seppur breve, sulla « teologia della speranza » che oggi è diventata cosi attuale. L'attuale riflessione teologica sulla speranza, si oppone a una teologia prece­dente (che mette cioè dietro l'optimum e il perfetto), nel nome d'un futuro. Praticamente però, senza accorgersene, si fa uno spostamento di mentalità: si proietta in avanti quello che prima si portava indietro, per cui questa posi­zione diventa una novità relativa. Invece a mio avviso dobbiamo essere molto più radicali nella concezione del futuro. Se il futuro è quello di Dio, non è un futuro temporale: è il futuro della libertà di Dio. Quello che io devo capire bene è l'attimo presente, l'adesso: « l'aujourd'hui de Dieu », come dicono a Taizè, « l'oggi » come dice l'autore della lettera agli Ebrei, l'attimo presente di Dio: in quello io devo progettarmi. Con questo, ovviamente, non si vuol dire che non devo pensare al futuro. Ma ci sono due tipi di futuro molto diversi: un futuro che non è altro che il prolungamento dell'attimo presente, cioè l'attimo presente che io prolungo nel tempo — e qui io ho il dovere di progettarmi —; l'altro tipo di futuro è un'altra cosa, è la realtà del mio compimento che io lascio aperta a Dio perché Dio faccia di me quello che Lui sa, quello che Lui vuol fare. Lì io non posso progettarmi, perché la mia progettazione in quel caso, essendo mia, non so se coincide con quella di Dio. Allora bisogna dire: il futuro è di Dio, e questo Lui deve farlo; quello che io ho e che è mio, è l'attimo presente: in questo io devo progettarmi.

Se qualcuno dicesse: « io decido di farmi sacerdote, e questa non è una decisione che investe solo l'attimo presente, essa la investe anche il futuro », in un certo senso sbaglierebbe. Diventare sacerdote è una decisione che investe l'attimo presente, perché posso morire oggi stesso, o capire che devo cambiare strada; quindi la mia progettazione è sempre relativa. « Voglio diventare sacer­dote » significa credere che nel momento presente Dio vuole questo da me, nel prossimo attimo presente posso capire un'altra cosa.

Quando i discepoli hanno chiesto a Gesù: « Maestro, vogliamo venire con te », cosa gli ha risposto Gesù? « Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli dell'aria hanno i loro nidi, il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». Ciò vuol dire che il Figlio dell'uomo non ha un futuro: il Figlio dell'uomo ha soltanto un presente, l'amore per Dio adesso. Alle volte noi interpre­tiamo le “parole” di Gesù in un senso unico, per cui questo passo lo capiamo nel senso della Chiesa dei poveri, che io non devo avere una stanza per me, ecc. Gesù è molto più radicale: è la Chiesa dei poveri nel senso pieno della parola, poveri nello spirito, poveri di testa, poveri di volontà. Questo non vuol dire che non dobbiamo fare le cose bene. Vuol dire che io progetto e faccio tutto quello che devo fare nell'attimo presente, pronto a spostare tutto, se Dio me lo chiedesse, in qualunque momento. Altrimenti ci facciamo dei programmi che diventano fissazioni e che pretendiamo di portare avanti anche quando fossero diventati contro il volere di Dio. Il futuro è di Dio. E' il presente che Lui ha dato a me. Generalmente noi impoveriamo tanto il nostro presente, perché lo spendiamo per il 50 per cento per pensare ai fatti del passato o per progettare i fatti del futuro. Noi abbiamo scelto Dio solo, per questo dobbiamo acquistare l'estrema libertà, pronti sempre a spostare tutto per seguire quello che Dio ci chiede.

 

Come conoscere la volontà di Dio per poter adattare la nostra vita, la nostra personalità, tutte le nostre azioni a quello che lui ci chiede?

Ci sono tanti « segni » per capire la volontà di Dio. Qui possiamo solo accennarli brevemente.

La prima cosa è di essere molto semplici: « Ti ringrazio, Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti e ai prudenti e le hai rivelate ai pic­coli». Alle volte noi ripetiamo il Vangelo senza viverlo pienamente. Diventare semplici, diventare bambini, significa che in fondo, per capire la volontà di Dio, io non devo averne una mia. Può sembrare duro questo, ma è vero, perché se io ho già una mia volontà, un mio volere delle cose, nel momento in cui Dio mi parla, siccome Dio è amore e rispetta all'estremo la mia libertà, poiché fra la comprensione della volontà di Dio e Dio che si manifesta c'è di mezzo la mia volontà, sicuramente non potrò capire. Questa è la prima condizione, la scelta di Dio-Amore, nel quale ho fiducia assoluta e di fronte al quale sposto tutto.

Poi ci sono ad esempio le circostanze della mia vita, che sicura­mente sono un invito. Alle volte può essere una cosa che io sento dentro, la capisco dentro di me con una chiarezza enorme. C'è un punto però: nessuno mai è l'interprete di se stesso. L'unico interprete autorizzato della volontà di Dio è lo Spirito Santo: « Adesso voi non potete capire tutto, ma quando io me ne andrò vi manderò lo Spirito Santo, che vi farà capire quello che adesso non potete capire ». Lo Spirito Santo è l'erme­neuta e l'interprete.

Per capire quello che Dio vuole da me, non ho tanto da ripiegarmi in un'analisi continua e logorante di me, quanto di mettermi ad amare. « A chi mi ama mi manifesterò », dice Gesù. Amare significa lasciare esprimersi lo Spirito d'Amore il quale è l'interprete di Dio per me. Nel­l'amore possiamo avere molti incontri con Dio: può essere una lettura, può essere una persona che mi vuol bene in Dio e mi dice una verità, può essere una capacità che ho (o che non ho) per seguire una certa strada, può essere una difficoltà perché anche attraverso il dolore Dio si manifesta.

Poi abbiamo le Parole della Scrittura dove Dio ci parla in maniera specialissima. E le indicazioni dei superiori, di quelle persone che hanno una grazia per aiutarci a trovare i disegni di Dio su di noi; ovviamente, queste persone « vedranno di più » se stabiliamo con loro un rapporto di amore, di carità autentica.

Dio si manifesta attraverso tante strade e circostanze, se trova una persona che è semplice come un bambino ed è costantemente aperto ad amare gli altri. Quanto più ci si « allena » a vivere con questa apertura e con questo amore, tanto più si diventa sensibili a cogliere i segni della volontà di Dio su persone ed avvenimenti. I segni dell'Amore di Dio diventano più intelligibili quanto più amiamo e cerchiamo di metterli in pratica, pronti a cambiare tutto se Dio lo chiede. Questa non è incostanza, ma la libertà dei figli di Dio.

Questo è il punto in cui o noi accettiamo di seguire Cristo sulla croce, o ci facciamo un cristianesimo come pare a noi, destinato dopo ad essere messo in scacco dal mondo che ci circonda. Questo è il punto fondamen­tale: o Cristo o noi.