Parola di vita
«Usciamo dunque verso
di lui... poiché non abbiamo qui una città permanente, ma siamo
in cerca di quella futura»
(Ebr. 13,13-14)
L'autore della lettera agli Ebrei ci esorta
ad « uscire » verso Gesù.
Uscire dove e da dove? Uscire in quale senso e perché? Una prima
risposta a queste domande ce la danno i versetti precedenti, i quali sottolineano
il fatto che Gesù è morto fuori dalle
mura della città di Gerusalemme, in analogia con le vittime
d'espiazione del tempo dell'esodo, il cui sangue veniva sparso nel santissimo,
i cui corpi invece venivano bruciati fuori del campo.
Forse però
l'intenzione della lettera agli Ebrei non è soltanto quella di indicare,
con questo simbolismo, il nesso tra i sacrifici d'espiazione dell'antica
alleanza e l'olocausto perfetto di Gesù Cristo. Vi si
potrebbe scorgere un significato più profondo, più universale:
che cioè per incontrare Dio, per partecipare alla sua
realtà, bisogna uscire da tutto ciò che ci costruiamo, noi
uomini, di permanente e assoluto, o meglio: da tutto ciò che crediamo
sia permanente e assoluto. Bisogna uscire, in fondo, da noi stessi, dalle
nostre strutture, sia materiali che spirituali, sulle quali ci appoggiamo e
dalle quali spesso ci attendiamo la salvezza.
Questo testo ci rimanda al « Dio dei nomadi », se si può dire
così, all'epoca in cui gli uomini non avevano una dimora stabile ed
erano perciò meno tentati di racchiudervi anche Dio, di fissarlo su un
luogo — inteso nel senso spaziale ma anche in quello spirituale e
psicologico. Ci rimanda ad un Dio che si rivela e si dona a chi si espone per
Lui all'incertezza, al rischio, a chi « esce » e « parte
». E1 un tema che ritroviamo attraverso tutta la storia della
salvezza: pensiamo solo alla partenza di Abramo verso la terra sconosciuta che
Dio gli mostrerà, all'esodo del popolo d'Israele, alla chiamata di
Gesù di lasciare tutto per diventare suo discepolo.
Dio ci ha preparato « una patria migliore », ci promette una
« città nuova », la Gerusalemme celeste che scenderà
dal cielo (cfr. Ebr. 11, 16; Apoc.
21, 2). Ma proprio per questo è anche una sfida radicale per l'uomo: gli
mette in questione ogni cosa che questi si costruisce, mettendo in questione,
in fin dei conti, l'uomo stesso con la sua tendenza continua di appoggiarsi su
qualcosa che gli appare sicuro e definitivo. E invece « non abbiamo qui
una città permanente ».
Ci siamo, è
vero, già « avvicinati alla città del Dio vivente » (Ebr. 12, 22), vi abbiamo già diritto di cittadinanza
(Fil. 3, 20), ma, allo
stesso tempo, siamo ancora « in cerca di essa ». L'esodo non
è ancora terminato, ma sappiamo che Colui che l'ha iniziato e lo conduce
in testa è già arrivato nella terra promessa.
In questa prospettiva, e soltanto In essa, abbiamo anche la chiarezza e la libertà necessaria per le cose di questa vita e di
questa terra. E' proprio nella provvisorietà radicale della vita umana,
come Gesù ce l'ha svelata e alla quale non cessa
di richiamarci, che possono crearsi delle strutture che non fissano l'uomo
nelle catene di una situazione storica puntuale ma che restano sempre aperte al
futuro di una libertà sempre maggiore dell'uomo e lo aiutano a diventare
uomo nuovo.
«
Usciamo dunque verso di Lui ».
Felix Heinzer