Un confronto della situazione nei seminari nella

 

vita di comunione

a cura di Vincenzo Zani

 

Nelle settimane scorse ho incon­trato a Roma alcuni studenti di teologia di paesi diversi, —. alcuni alunni delle Università, altri di pas­saggio — per uno scambio di espe­rienze sulla vita comunitaria nei se­minari di oggi.

« Io non ho mai letto nessun li­bro sulla comunità — ci diceva Norio, dal Giappone —, ma posso dirvi che tutta la mia vita è stata un tentativo di stabilire un rappor­to autentico e profondo con tutti quelli che mi vivevano accanto. Mentre facevo filosofia in semina­rio, la vita comunitaria consisteva unicamente nell'osservare le regole dettate dai superiori, ma la mancan­za di libertà e di spontaneità gene­rava non la comunione, bensì l'uni­formità, che è un'altra cosa ».

Questa ci è sembrata una prima cosa chiara: la comunione tra per­sone non si costruisce con docu­menti « emanati dall'alto » né con strutture o regolamenti nuovi. Le condizioni esterne possono aiutarci solo se c'è l'impegno delle persone.

« Leggendo i Documenti del Con­cilio sulla formazione sacerdotale — continua Antonio, dalle Filip­pine — notavo il contrasto tra quanto la Chiesa indicava e la si­tuazione reale del mio collegio. Ho dovuto lottare non poco, con altri miei compagni, per riuscire a tra­sformare alcune norme che erano controproducenti per un'esperienza di vita fraterna. Uno degli obiettivi che siamo riusciti a raggiungere è stata la possibilità di distinguere la grande comunità in piccoli grup­pi. Questo almeno ha reso possi­bile approfondire la conoscenza dell'altro e rapporti più familiari. Quando il mio gruppo « funziona­va », avvertivo non solo che ripren­devo fiducia in me stesso, riuscendo a costruire nuovi rapporti con i su­periori e gli altri compagni, ma allo stesso tempo mi ridava il desiderio della preghiera e di un rapporto più profondo con Dio».

Uno sbaglio abbastanza normale che abbiamo notato nei seminali, è quello di basare i rapporti interper­sonali soprattutto sullo scambio di idee. Ma l'esperienza comune è che non basta il livello intellettuale per creare una comunione profon­da tra le persone. Ce lo confermava ad es. Christoph: « Il nostro semi­nario in Austria è caratterizzato da un forte pluralismo. Ci sono rap­presentate circa venti nazioni; per­ciò ti trovi dinanzi ad un campio­nario di mentalità. Ognuno segue la propria spiritualità. A volte l'uni­co modo per avere un contatto con un compagno, se non vuoi sentirti annullato in partenza, è di dimo­strare la tua concezione di Dio e saperla difendere. Si sono fatti, è vero, tanti tentativi per formare una comunità: sono stati organiz­zati week-end per parlare delle varie spiritualità, si cerca di formare gruppi intorno ad interessi comuni, pericolo più grande però è di re­stare nell'intellettualismo e di non sapere dopo come incarnare concretamente le belle cose che ci di­ciamo nella vita di ogni giorno. Mol­te volte mi sono domandato come posso vivere in questa comunità, ed ho capito che la cosa più importante è di cominciare io, senza aspettare a vivere "dopo" che la comunità sia fatta. Se nessuno in­comincia non si arriverà mai. Non potevo fare cose grandiose: piccoli favori, ascoltare fino in fondo quan­do uno mi parlava, dare senza aspet­tarmi ricambio, ecc. Ed ho potuto costatare che alcuni miei compagni vivono in una solitudine spaventosa. Alle volte fai loro una banale cortesia e ti ringraziano come se avessero ricevuto il dono più grande ».

Una difficoltà che si trova spesso nei piccoli gruppi in cui si dividono le comunità numerose, è che ci sono antipatie, mentalità diverse, idee ed interessi contrastanti, ecc. Allora si cerca di fare gruppi « spontanei » per superare queste difficoltà, basati sull'amicizia, sugli interessi, sullo studio comune. Però — ci si domandava — è questa la soluzione? Certo, si aggira l'osta­colo, ma si costruisce qualcosa di evangelico? Anche i pagani, gli atei possono fare gruppi di quel tipo. Dov'è allora l'originalità del cristia­nesimo?

« Costruire una vera comunità — è Claudio che parla — non può es­sere semplicemente raggruppare tan­ti egoismi che si appoggiano l'un l'altro per evadere alla solitudine, per trovare rifugio, per avere un quadro sociale di riferimento" dove trovo condivisi i miei punti di vi­sta. Tra noi c'è molta buona volon­tà, devo proprio dirlo: si fanno del­le liturgie molto belle, delle medi­tazioni comunitarie, anche da parte dei superiori c'è un atteggiamento molto semplice, amichevole, di ser­vizio. E nonostante, la pienezza non c'è. Non siamo contenti, manca qualcosa. Te ne accorgi ad esem­pio dal fatto che devi stare attento a come ti muovi, a cosa fai e cosa dici, perché è molto difficile essere stimati al di là di tutto, non essere giudicati, non ricevere delle battute che senza cattiva volontà ti fanno del male, perché ridicolizzano un tuo limite davanti a tutti. Devi te­nerti sempre su cose superficiali, ci si vergogna ad esempio di parlare naturalmente di Dio e delle tue esperienze più profonde. Devi es­sere quasi sulla difensiva, "attaccan­do prima", ed i meno brillanti re­stano un po' succubi o frustrati. Invece quando trovo vera unità in un gruppo me ne accorgo dal fatto che non ho paura di dire quello che sono, mi sento libero, e riparto cresciuto psicologicamente e più vi­cino a Dio ».

Ancora una constatazione comune: non basta nemmeno la libertà as­soluta, l'essere trattati da persone mature, l'indipendenza, il rispetto reciproco, per sviluppare la propria personalità e trovare rapporti veri con gli altri. Una volta si "conte­stava" per raggiungere queste cose. Però dopo averle conquistate con­tinuavamo ad essere insoddisfatti, e ci sentivamo mancare il suolo sot­to i piedi perché si capiva che non era quello che cercavamo. "Quando sono venuto al Collegio a Roma non dovevo lottare più per la libertà, perché potevo fare ciò che volevo — continua Antonio —. Però questo non basta per creare la comunità, perché il semplice stare assieme non crea niente. Non è facile spezzare quei rapporti standardizzati basati sui "luoghi comuni", sul "buon

giorno" e "buona sera". Bisogna avere il coraggio di mettere in co­mune la gioia, il dolore, le diffi­coltà ».

Lo si sa che una cosa è — per dirla con parole di Bonhoeffer — la comunione « spirituale » ed un'al­tra la comunione « psichica ». Il gruppo psicologico si trova per raggiungere assieme un fine che è al di fuori del gruppo, quindi ognu­no ne fa parte per ricavarne qual­che utilità. Invece nella comunione si pensa agli altri prima che a se stessi, ed il fine non è fuori ma den­tro il gruppo: ci si trova « ante omnia » per costruire l'unità tra i mem­bri del gruppo.

Ci è sembrato che una delle diffi­coltà più grosse che si trovano nei seminali per costruire la comunità proviene giustamente dal non tenere conto di questa differenza. « Nei due seminari della Germania dove sono stato — dice Otmar — ci si trovava solitamente per discutere i proble­mi, per vedere delle cose concrete sui programmi, sugli studi, sull'or­ganizzazione del seminario, ecc. In questi raduni si presupponeva sem­pre che la comunione tra noi esi­stesse già. Invece bisognerebbe tro­varsi prima di tutto per fare unità, e dichiararcelo, assicurarci che tra noi ci sia un vero rapporto di carità evangelica, perché la comunione è qualcosa da conquistare e da ri­fare sempre. Poi, quando questa è costruita, anche i programmi, le

realizzazioni concrete, le linee, ven­gono molto più, facilmente. E si dà il fenomeno che quanto più pro­ fonda è l'unità del gruppo — e quin­di la presenza di Gesù: « dove due o più... » — più luce c'è per trovare delle soluzioni che non solo soddi­sfano tutti, ma alla cui costruzione tutti sentono di aver contribuito ».

Se non so comunicare con gli al­tri, come posso comunicare con Dio? Questa è una delle domande fonda­mentali che ci poniamo. Ma poi c'è un altro problema non meno im­portante: tanti di noi sono andati in seminario perché volevano darsi agli altri. Ma come faremo domani a creare delle autentiche comunità se non ne facciamo l'esperienza già adesso? E' un'illusione credere che « domani » riusciremo a fare quello che non cominciamo a vivere oggi. Il giorno « dopo l'ordinazione » non cambierà niente e saremo pratica­mente gli stessi del giorno prima. A ben poco ci serviranno le teorie sulla comunità, sulla dinamica di gruppo e via dicendo, proprio per­ché a fare la comunione non si impara sui libri. Ci siamo trovati tutti d'accordo nel costatare che pri­ma della teologia della comunità, abbiamo bisogno di persone che ab­biano una profonda esperienza di vita di unità per aiutarci a fare un'autentica esperienza di Chiesa. Perché la Chiesa, se non la esperi­menti nella comunione, rimane sem­pre un concetto astratto.