comunione e conoscenza
Pasquale Foresi
Vorremmo fare alcune riflessioni su un
problema di enorme importanza per il pensiero e la vita dell'uomo. La
domanda che ci poniamo è questa: la
conoscenza è qualcosa d'individuale o è anche allo stesso tempo
qualcosa di collettivo, d'intersoggettivo? In altre parole, che influenza ha
nella mia conoscenza l'intersoggettività, il collettivo, il mio rapporto
con gli altri uomini? Quando noi diciamo « l'uomo è naturalmente sociale », quali conseguenze implica questa
verità per la conoscenza umana?
Uomo e socialità
Una prima constatazione è che non si può mai parlare di conoscenza
individuale in senso assoluto, perché in realtà io non esisto mai
da solo. Se non altro per il fatto stesso che sono stato generato da genitori.
Anche se non avessi mai visto nessuno in vita mia, avrei comunque ricevuto
già un contributo per quel tanto che sono stato a contatto con i miei
genitori (si sa quanto la psicanalisi abbia contribuito a rilevare l'importanza
di questo fatto).
Comunque questo sarebbe ancora troppo poco:
una tale persona avrebbe soltanto una conoscenza poco più che animale. Se qualcuno dovesse conoscere
il mondo da solo non arriverebbe ad avere una cultura, ma resterebbe una
persona incivile, un primitivo nel senso più pieno.
D'altronde, per capire quanto la nostra
conoscenza dipenda dal contesto sociale in cui viviamo, basti pensare ad
esempio a una persona nata in mezzo ai neri e ad un'altra nata in mezzo ai
bianchi: hanno una cultura, delle concezioni, un modo di affrontare la realtà, completamente diversi. Tant'è
vero che trasportandoli in un altro ambiente possono cambiare completamente
mentalità.
Ma questo costituisce solo un primo
approccio, poiché nessuno negherebbe
l'importanza del contributo degli altri nella propria conoscenza. La domanda di
fondo, piuttosto, è la seguente: questo contributo degli altri, si
aggiunge come qualcosa di occasionale, di estrinseco alla nostra conoscenza,
oppure è intrinseco all'atto del conoscere?
La parola
Quello che vorremmo affermare è precisamente che la presenza degli altri
è qualcosa d'intrinseco nell'atto stesso del conoscere, una
componente necessaria della conoscenza. L'essènza dell'atto di
conoscere, come conoscenza razionale, implica di natura sua l'altro.
Un fenomeno tipicamente umano che ci aiuta a
capire questo è la parola.
Quand'è
che io veramente conosco? Quando passo da una percezione oscura ad un'altra
più chiara, cioè quando riesco a dare
un'espressione verbale alla mia percezione, quando esprimo con
chiarezza una parola.
Ora, ogni parola nella quale io esprimo la
mia conoscenza è espressione
della mia persona, delle mie esperienze, della mia conoscenza, ma allo stesso
tempo l'ho anche ricevuta dagli altri, perché ripeto quello che ho
imparato a formulare con loro.
Non solo l'uomo « dice » la parola, ma la parola è
anche « anteriore » all'uomo (lo strutturalismo attuale l'ha
rilevato chiaramente, anche se dopo ha esagerato questo aspetto).
Io esprimo le mie conoscenze con quel
linguaggio che ho ricevuto nei rapporti
con gli altri persino quando « creo » delle parole e delle espressioni
nuove, perché anche queste devo concepirle con gli elementi, i presupposti,
le « regole di gioco » linguistiche imparate assieme agli altri
uomini. Se creassi qualcosa di completamente nuovo e diverso, renderei
incomprensibile agli altri ciò che dico.
Questo significa che ogni parola e quindi
ogni conoscenza implicano il dialogo
con gli altri. Infatti, se è solo
l'uomo a possedere la parola è proprio per la sua intelligenza e per la
sua socialità, cioè per il suo bisogno di comunicare: ogni parola
implica una persona con la quale io parlo, implica l'altro.
In qualunque istante io faccia
un atto di conoscenza, è come se parlassi
ad un altro. Anche quando credo di parlare con me stesso in realtà
è con gli altri che parlo, perché se parlassi veramente a me, non
parlerei, starei zitto e percepirei l'essere.
La conoscenza nasce sempre nel colloquio.
Ogni conoscenza è un parlarecon-gli-altri-rivolgendomi-a-me-stesso.
O più precisamente è un colloquio con me stesso nel quale sono
presenti profondamente gli altri. Saranno presenti in maniera confusa,
imperfetta, ma ci sono. Io non conosco mai solipsisticamente,
anche quando conosco « da solo ».
Quindi, cosa succede quando
io dono agli altri una mia conoscenza? Se le parole che formulo per esprimere e
per trasmettere quell'essere che ho percepito, non sono solo mie
ma provengono simultaneamente da me e dagli altri, ciò significa che quando porgo quello che ho
conosciuto, coloro che mi ascoltano sono già inseriti nelle espressioni
che ne vengono fuori.
Nel dire agli altri quelle mie
parole-conoscenza, loro sono inseriti completamente, anche se
inconsapevolmente, in quello che sto dicendo, proprio perché hanno contribuito al mio conoscere, me l'hanno
dato e costruito in una certa misura. Quelle conoscenze sono già frutto
di una certa comunione con loro.
La verità
In realtà
non è per niente strano che la mia conoscenza sia sempre conoscenza con
gli altri, colloquio esplicito o silenzioso. E' qualcosa che corrisponde al
nostro stesso essere: io sono in esistenza con gli altri prima ancora che
questo essere in esistenza con gli altri mi si riveli a me come conoscenza
personale o intersoggettiva.
Se il mio conoscere è intrinsecamente legato all'esistenza altrui,
è perché noi prima ancora di conoscerci e di costruire
coscientemente una conoscenza intersoggettiva, siamo conoscenza
intersoggettiva, perché siamo un'esistenza intersoggettiva nell'essere
stesso nostro. La relazione agli altri è
intrinseca alla condizione umana.
Questo è
il motivo profondo per cui io non devo mai dare agli
altri una verità pretendendo d'imporla. Questo sarebbe ignorare la parte
che gli altri hanno avuto in questa mia conoscenza, e quel
che è peggio, impedirgli d'inserirsi più pienamente nella
verità che ho scoperto e sto dando.
Io posso solo porgere, donare la mia verità, per lasciarmi completare dalla verità
loro. Quando io dico una verità sto porgendo una fiammella che illumina
una stanza buia. Non posso pretendere di dare solo la fiammella,
perché non darei niente. Sarebbe prendere un pezzo di verità e
dire: questa è la verità. Quello che io devo offrire invece
è la fiammella con la luce che dà e con il buio che rimane.
Cioè nel porgere la verità devo farlo nell'apertura al mistero.
E' solo donando quella mia verità che io consento agli altri di riempire il
mistero, di completare con la loro esistenza, con la loro presenza, con la loro
parola, la verità che ho scoperto, allargandola ed aprendola su un
orizzonte grandioso.
Conoscenza e comunione
Quindi quando noi diciamo: « si conosce di più quanto più si
è spiritualmente unito agli altri »,
esplichiamo una verità insita nella costituzione stessa del nostro
essere e della nostra conoscenza.
E' appunto nel rapporto fra l'essere in
esistenza con gli altri e l'autoconoscersi dell'essere in esistenza con
gli altri, che si trova la verità
dell'essere. Se la conoscenza nella
comunità può diventare e diventa una vera conoscenza del reale e
non una conoscenza di un astratto, è precisamente perché noi
siamo inscindibilmente uniti, anche senza accorgercene, perché questo
è il nostro essere, l'esistenza nostra.
Il fatto che io possa lasciar completare
dagli altri la mia verità, non è
altro che un'esperienza fenomenologica di quello che
essenzialmente avviene in qualsiasi caso, in qualunque momento, anche se gli
altri non parlano, proprio perché sono sempre presenti con la loro
esistenza.
E' per questo che io conosco di più quanto più la mia esistenza è
esistenza con gli altri, dono-agli-altri.
Conosco di più quanto più sono esistenzialmente unito agli
altri, perché conosco di più quanto più sono
umanità.
La conoscenza intersoggettiva è un dato innato ed allo stesso tempo una
conquista: quanto più la nostra conoscenza si basa esplicitamente sulla
comunione, più diventa vera conoscenza. Ci mettiamo cioè nelle
migliori condizioni per attingere la realtà e conoscerla così
com'è.
Noi non potremmo conoscere da soli nemmeno se
ce lo proponessimo. Ma quando pretendiamo di farlo,
conosciamo male, perché ci tagliamo dalla
realtà, dalla verità, dall'essere.
Conosciamo meglio ed esprimiamo meglio la
nostra conoscenza quanto più c'è
colloquio vero, comunione, rapporto d'amore con altre persone. Ed in questo
caso è una conoscenza che ci riempie, che ci dà la gioia, proprio
perché abbiamo messo dinamicamente il nostro essere in un atteggiamento
che corrisponde all'essere reale, giacché noi siamo uniti e distinti in
virtù del nostro stesso essere. L'angoscia invece proviene dallo strazio
fra l'essere naturalmente unito con gli altri ed il tagliarci con la nostra
vita e con la nostra conoscenza dagli altri. In altre parole, è
l'angoscia di non essere quello che siamo, mentre la gioia è la
corrispondenza del nostro essere a quello che siamo.
Un nuovo stadio dell'umanità
La storia dell'umanità, dal punto di vista della conoscenza, si
potrebbe dividere a grandi linee in tre grandi periodi.
In un primo stadio l'uomo era rimasto nella
conoscenza mitica, cioè l'umanità
conosceva l'essere attraverso miti, favole, fantasia.
Non che non ci fosse sotto quei miti anche il reale,
perché quelle forme erano già espressione di una certa percezione
dell'essere, esprimevano tante verità sebbene ancora in forma primitiva.
Era un ragionare per immagini, un po' come i bambini che hanno
bisogno di esprimersi in immagini per dire quello che sentono e quello che
provano.
Con i primi filosofi invece, che
identificavano l'essere con l'acqua, con l'aria, con il fuoco, con il numero,
ecc, si arriva a un primo tentativo di comprensione razionale: si è passati allo stadio della conoscenza razionale.
Una caratteristica però di questa tappa è che la conoscenza
razionale si è sviluppata come individuale. E per tanto tempo si
è andati avanti concependo la ragione solo come ragione individuale,
fino all'esaltazione della conoscenza razionale nell'hegelismo
e nell'individualismo razionalista, e fino quasi al crollo della ragione in
quel arazionalismo razionale che è stato
l'esistenzialismo.
Naturalmente, la socialità della conoscenza c'era anche sempre,
perché è connaturale all'uomo, ma la differenza con i nostri
tempi è che adesso stiamo andando incontro ad una terza fase
dell'umanità: quella cioè dell'approfondimento
a tutti i livelli della conoscenza collettiva. Si entra in un nuovo tipo di
storia del pensiero, che è quello della conoscenza intersoggettiva.
Questa scoperta del collettivo non deve
trarre in inganno, perché significa allo
stesso tempo una scoperta dell'individuale. E' una delle sue novità.
Infatti, mentre si sta scoprendo la relazione
con gli altri come intrinseca alla conoscenza, all'atto conoscitivo,
simultaneamente si sta approfondendo, a partire da Freud, l'esistenza di
una preconoscenza alla conoscenza stessa, di una
conoscenza inconscia che è condizionante dei
nostri atti come se fosse conosciuta e percepita.
Questo è
il mistero, che assieme a questa nuova coscienza della conoscenza
intersoggettiva si è approfondita in noi la conoscenza stessa dell'individuo,
dell'introspezione soggettiva, proprio perché
è una legge dell'umanità che quanto più si prende
coscienza del nostro essere collettivo più ci si personalizza.
Ma il fatto rilevante che qui vorremmo
sottolineare, è che in questi
ultimi cinquant'anni stiamo entrando in una nuova
epoca, dove l'umanità prende più profonda coscienza della
dimensione sociale della conoscenza e la sviluppa. Quella conoscenza
intersoggettiva che attraverso la storia è già stata scoperta sotto
varie forme, adesso viene scoperta come
profondità metafisica, come coincidente con l'essere stesso.
Per questo sta nascendo una nuova tappa della
storia: come ha avuto una propria storia il periodo presocratico,
il periodo socratico, ecc, così avrà una sua
storia il periodo dopo il collettivo, dopo la scoperta vitale ed in
profondità del pensiero intersoggettivo.