prima puntata di un dialogo sulla cultura oggi:
studio e
unità
Prendendo lo spunto dall'articolo che pubblichiamo
in 3* pagina, ci siamo scambiate alcune esperienze sulla situazione in cui si
trovano tanti studenti di fronte alla « cultura » cosi come viene oggi
impartita, e su alcune linee di soluzione che toccano la radice dei problemi. I
partecipanti: Pino Petrocchi, Tarcisio Benvenuti,
Zeno Sartori, Luigi Bonazzi, Roberto Girola (Italia), Enrique Cambón e Atilio Gimeno
(Argentina), Philippe Specken
e Otmar Scherrer
(Svizzera).
È
diventato un luogo comune dire è in crisi, che
« la cultura è in crisi », che « la scuola e
l'università non rispondono ai bisogni attuali », ecc. Il fatto
è che la scuola, così com'è oggi, non soddisfa un
numero sempre più grande di giovani.
Perché? Due dei motivi — e allo stesso tempo due spiragli di
soluzione — li trovo nell'articolo di don Foresi sulla « comunione
e conoscenza ».
Io credo che nella scuola e nell'università si trovano spesso un metodo, un linguaggio
e talvolta anche un contenuto, avulsi dalla
realtà, che non ci preparano per la vita con cui ogni giorno dobbiamo
confrontarci. La cultura sembra a tanti di noi come un mondo a sé,
perfetto in se stesso, ma estremamente carente di fronte alla
complessità dell'esistenza. Non è che « i ragazzi non hanno
più voglia di studiare » (anche se alle
volte ci può essere questo ed altro di «non pulito» nelle
loro esigenze). Ma credo che quello che i giovani vogliono in fondo, alle volte
inconsciamente, è un nuovo tipo di « pensare » e di «
cultura » nella linea di quello che don Foresi propone in questo ed in
altri articoli, (come ad es. quello su « una nuova scuola »
che abbiamo pubblicato a luglio), uno studio ed un pensare cioè che
investano tutta la persona, più consono con la realtà,
più identificato con la vita.
Il secondo aspetto che volevo
segnalare è quello che dice
l'articolo nei riguardi della intersoggettività: quando c'è
comunione tra le persone, anche chi deve dare una verità riesce ad
esprimerla meglio. E proprio a scuola ho fatto molte volte questa
esperienza. Nella misura in cui riuscivo a stabilire un rapporto vero e
profondo con i professori, a presentarmi davanti a loro senza schemi, senza
pregiudizi, ascoltandoli veramente, venivano fuori delle
verità molto forti. E penso che se questo sforzo fosse
reciproco, si creerebbe una comunione tale da permettere un maggior approfondimento
dei problemi trattati, e anche gli interventi che si facessero darebbero modo
al professore di capire meglio quali sono le esigenze vere degli alunni,
mentre magari c'è la paura reciproca, la preoccupazione di finire il
programma, di portarsi avanti, di non fare brutta figura, di passare
l'esame, ecc, tutte cose che non ci permettono di comunicare e che sono
dei veri e propri blocchi inibitoli di uno studio serio.
LUIGI: «
A me sembra che una verità sia da dirsi con forza, ed è che
non solo occorre un'aderenza degli studi alla vita, ma che sia la vita
stessa il primo luogo dello studio. Cioè la vita, se ci si decide a
viverla seriamente momento per momento, è il primo luogo per conoscere
se stessi, per conoscere gli altri e per conoscere Dio, e questo in fondo mi
sembra la sostanza dello studio. Forse tanti alibi che si creano nello studio verrebbero superati, se i rapporti interpersonali non
avvenissero più all'insegna di quell'aridità verbalistica di cui
tante volte sono intessuti. Per farmi capire con un esempio — fra
tanti che potrebbero essere riportati — ci capita spesse volte di
sentire qualche sacerdote che ci parla del suo superlavoro in parrocchia
ed altrove, e dei problemi che questo lavoro fa nascere dentro di lui. E
come conclusione ti senti fare
molto spesso
un'affermazione di questo tipo: «
Sento l'esigenza dello studio per tentare di risolvere le mie
difficoltà ». Ora io credo che un aggiornamento è anche
logico, giusto, ma sono sicuro che questa difficoltà sarebbe in parte
ridimensionata se con gli altri sacerdoti, con i quali si vive assieme, si avessero dei rapporti tali da creare una comunione
di vita. Questa comunione diventerebbe il primo luogo dove risolvere
anche i problemi.
Questo che tu dici fa capire a quale
profondità di comunione bisogna puntare. Quando si parla di
esperienza di comunità e di unità
nello studio, non significa soltanto studiare insieme, aiutarsi, mettere
in comune i frutti dei diversi sforzi, ecc. Questo è un aspetto
ancora superficiale. Ciò che conta soprattutto è vivere insieme
nel senso più profondo. Se tra coloro che compongono una
comunità non c'è comunione di persone, « rapporto
trinitario » — il che significa « amarsi l'un l'altro come Gesù ha amato noi » — non
si è più nell'ambito di una comunità cristiana che
ricerca, ma tutt'al più nell'ambito di un gruppo di ricercatori che
collaborano. Non c'è comunione ma gruppo, che
è diverso.
PINO- E' vero: l'importante è che chi studia senta di studiare
non come singolo, non come « io » isolato, ma come « noi
»; che sappia di fare un atto « collettivo » anche se
è da solo. Quello che occorre non è studiare la stessa materia
allo stesso tempo, ma che ognuno sia nell'amore e
nella volontà di Dio, perché è questo che ci fa
essere « una sola cosa ». Io ho fatto un'esperienza interessante a
questo riguardo l'anno scorso, mentre facevo la tesi
di filosofia. In pratica ho portato avanti lo studio e la tesi da solo,
perché non potevo pretendere che gli altri facessero le ricerche con me. Però sentivo che quella tesi non era soltanto
mia, ma « nostra », e il pronome personale che usavo scrivendo
era sempre « noi ». Questo non era uno stile letterario ma esprimeva una realtà, perché
avevo visto in unità con quelli con cui compartivo una esperienza
profonda di comunità, sia la decisione di dover fare la tesi, che il
tempo da studiare, le modalità di questo studio, ecc. Poi si erano messe
in comune anche le difficoltà, i risultati, le gioie e le sofferenze che
provavo nelle mie ricerche. E succedeva che io stavo alcune volte per una
giornata intera a studiare da solo, vedendomi con gli altri solo a pranzo, a
cena o in altri brevi momenti, però sapevo che quello che facevo non lo
facevo da solo, ma sentivo gli altri partecipi del mio lavoro.
Tra l'altro questo mi ha aiutato anche a
capire più profondamente l'autore che stavo
studiando. Il tema era sull'intersoggettività in G. Marcel. All'inizio il professore aveva temuto non
fosse un tema abbastanza « teoretico », che fosse un argomento
« di vita », e mi consigliava di prendere un altro tema a
carattere storico. Invece ho visto che studiando alla luce dell'esperienza
che stavo facendo riuscivo a cogliere tanti aspetti del pensiero dell'autore
sulla conoscenza intersoggettiva, — proprio perché li avevo
esperimentati—, che altri non erano
riusciti a rilevare. Il risultato è stato che andando a discuterla i professori mi hanno detto che era una delle migliori tesi che avevano visto, e di aver riscontrato una notevole « consistenza teoretica ».
ATTILIO :Tutto
questo che veniamo dicendo vale in maniera
speciale se ci riferiamo allo studio della teologia. Secondo me per lo studio
della teologia non basta una fede generica, ma si deve presupporre
un'esperienza personale e comunitaria di Dio. Cioè si deve partire da un'esperienza fatta insieme, fatta con
altri, di vita vissuta in Dio, condivisa e comunicata. E se nei seminari e
nelle facoltà teologiche molti studenti provano un profondo
disagio per lo studio della teologia, bisogna chiedersi, mi pare, se si
è cristiani prima di far teologia, se si ha una vita che faccia da
fondamento a questo studio, perché altrimenti stiamo ad imparare a memoria
solo delle verità che altri hanno concettualizzato e sistematizzato,
e continuiamo a fare una scuola di tipo enciclopedico e mnemonico dove si
apprendono soltanto delle nozioni che non hanno nessun aggancio con la
vita.
Penso che la teologia dovrebbe essere sempre
più un'esplicitazione di
un'esperienza che già si è fatta o si va facendo. Altrimenti
si può al più dire cose coerenti su Dio, studiare Dio, ma
non « conoscerlo », perché « chi non ama non
conosce Dio ». I grandi teologi come S. Agostino, S. Tommaso e molti
altri hanno fatto teologia proprio in questo senso e per questo sono
grandi. Ma oggi non basta più il singolo teologo: da soli non
riusciamo nemmeno a sperimentare il mondo cosi com'è adesso e tanto meno a cogliere tutti gli aspetti del cristianesimo. Forse ciò che dobbiamo fare nel
nostro tempo è concettualizzare un'esperienza vissuta
assieme, un'esperienza d'unità, di Chiesa. Questo perché
ciò che conta in definitiva è la realtà promessa da
Gesù: « Dove due o più... », poiché la
presenza di Gesù è Verità, Luce,
presenza di Dio. Quando Lui è presente riceviamo, si può
dire, un potenziamento della grazia che abbiamo normalmente. Se viviamo in
questa comunione cosi forte e cosi soprannaturale, è
chiaro che il nostro studio si arricchisce enormemente in quanto abbiamo
maggior luce per vedere.
Si,
ma quello che bi-è
che questo non vale soltanto da un punto di vista « religioso » (e
credo che sia precisamente una delle cose che don Foresi vuole dire nel
suo articolo): quando affermiamo che la «
comunione » ci dà nuova luce per capire i problemi, non
diciamo qualcosa di « miracolistico », di strano, roba da
setta gnostica o da « illuminati ». Quello che succede tra persone
che vivono la carità reciproca, è l'espressione più alta
di qualcosa che è già vero anche su un piano umano. E' una verità cioè che affonda le sue radici nel
più profondo della realtà, e che quindi è valida non
soltanto a livello di conoscenza di Dio, ma anche per la conoscenza
degli altri, per la ricerca scientifica, nell'arte, nella politica, ecc. Non
è detto che l'amore dia infallibilità, ma mette nelle migliori
condizioni per trovare le soluzioni giuste. Vediamo concretamente:
cosa dovrebbe succedere metodologicamente in un gruppo dove
c'è la carità evangelica? Che quelli che s'incontrano non
cerchino di sfruttarsi o appoggiarsi a vicenda, che ognuno cerchi di lasciare da parte il suo desiderio di prevalere, la
sua sete di potere, di prestigio, per godere con le scoperte giuste
dell'altro; devono essere persone, com'è stato detto, che capiscano che « il
dialogo vero non è tanto fatto da persone che s'incontrano per
chiacchierare, ma da persone che sanno tacere e dicono quello che sentono
di dover dire, al tempo giusto con le parole giuste »; e quindi ogni
contributo, ogni giudizio, sarà fatto non nel senso della critica
come viene comunemente concepita, ma cercando di dare con
semplicità e serenità il proprio punto di vista, per voler
costruire, non per distruggere. In un tale gruppo ci sarà l'uguaglianza,
nel senso che si saprà ascoltare coloro che sono competenti o che
hanno delle caratteristiche particolari, ma senza
fare di loro dei « mostri sacri » dai quali per principio
bisogna tutto accettare; e si ascolterà ognuno con lo stesso interesse,
senza sottovalutare in partenza quello che dice magari « l'ultimo
arrivato ». Queste e tante altre caratteristiche di una vera comunione,
non sono anche da un punto di vista scientifico le
migliori premesse per un lavoro serio e fruttuoso? Non si tratta di
ridurre gli effetti di Gesù presente nella
comunità alle leggi psicologiche di un gruppo che si trova in
maniera intelligente. E' un'altra cosa. Ma quello che si vuol dire è che
il soprannaturale, se vissuto bene, contiene in sé il meglio dell'umano. Se Gesù è « la
"Verità", la sua presenza tra coloro che si amano allo stile
del Vangelo, pronti a dare la vita l'uno per l'altro, sarà luce per tutti
i problemi. Gesù in mezzo è tutte le realtà che
studiamo perché è la Vita, l'Essere, è una Presenza
che ti spiega le cose. E perciò da una conoscenza di questo tipo verrà
fuori non soltanto una teologia rinnovata, ma anche una filosofia, un'arte, una
scienza, un'economia "nuove"... Sarà una vera e propria « rivoluzione culturale
»! Solo che bisogna avere pazienza, perché è un cammino nel
quale Dio dovrà distruggere parecchio: è troppo radicata in
noi una mentalità individualistica, astratta ed egoistica nel concepire
lo studio. Ci vorranno tante e tante persone che facciano
questa esperienza comunitaria — non che « pensino »
la comunità — per riuscire a costruire qualcosa di veramente
nuovo.