È la vita che fa capire. Per questo occorre

 

una nuova scuola di pensiero

Pasquale Foresi

 

Il tema che vorrei sviluppare brevemente è il seguente: bisogna arrivare a far si che l'insegnamento sia vita, cioè che la vita sia espressione dell'inse­gnamento e l'insegnamento espressione della vita.

Dov'è l'importanza di questo tema? Nel fatto che normalmente a un inse­gnamento nozionistico si risponde con un apprendimento di nozioni. Infatti in genere si va a scuola per ricevere « informazioni utili ». Mentre, se da una parte l'informazione serve ad aprire nuovi orizzonti, non è ancora però la vera scuola. L'insegnamento, lo studio, la scuola, non può consistere nel formare la ragione, ma deve formare l'uomo. Bisognerebbe cercare di superare l'attuale frattura tra cultura e vita.

Vorrei fare qualche riflessione su questo problema, attorno ai seguenti binomi: verità-bene, intelligenza-volontà, lavoro-studio, comunità-conoscenza.

 

La verità che è il bene

Gli studi non vanno sottovalutati. Quando si affronta un argomento, biso­gna conoscere tutti gli sforzi, i valori, anche gli sbagli che si sono fatti attra­verso la storia per arrivare a una soluzione. Se si vuol dire qualcosa che abbia valore, bisogna anche studiare, documentarsi, non lo si può fare in genere con la semplice intuizione.

Quello però che qui si vorrebbe rilevare, è il fatto che non bastano erudizione, conoscenza delle lingue, biblioteche attrezzate dal punto di vista scientifico, ecc. Ci sono infatti persone che con grande fatica si sono formate una vasta cultura a riguardo di un dato problema, senza tuttavia essere arri­vate a cogliere il senso più profondo del problema stesso, e quindi senza riuscire a dire nulla di valido o di nuovo. L'erudizione conta, ma solo secondariamente. La scienza è utile ma non basta. Perché?

Uno dei motivi si trova nella costituzione stessa della realtà. Nel fatto cioè che verità e bene coincidono ontologicamente. Non c'è una verità che non sia al tempo stesso bene. Drammatico è stato, nella storia del pensiero, aver creduto che per capire la verità soprannaturale ci vuole la bontà, la virtù, mentre per quella naturale no. In realtà, sia nell'uomo che nella realtà cosi come sono state presentate ad esempio da Platone e Aristotele, ma soprattutto dalla rivelazione, verità e bontà coincidono: ciò vuol dire che l'uomo può capire veramente in quanto è buono e virtuoso. E questo non è un principio religioso o pietistico, ma una verità profondissima che coinvolge tutto l'essere e la conoscenza umana.

 

L'uomo uno

Se poi guardiamo l'uomo in sé stesso, vediamo che è dotato di sensi-intelletto-volontà, ma allo stesso tempo constatiamo che colui che conosce è l'uomo attraverso quelle sue capacità, l'uomo-uno prima ancora d'essere diviso.

Questo è un altro motivo per cui non si può più concepire un tipo di cultura che implichi solo il raziocinio e l'intelligenza nel senso classico della parola. E' l'uomo nella sua globalità che deve venire implicato, l'uomo anima-corpo.

Per rendere possibile questo è necessario un nuovo stile di studio. Bisogna studiare vivendo, e non studiare soltanto studiando, altrimenti le « lezioni » disturbano dal vero conoscere.

Si dovrebbe studiare studiando solo quel tanto che aiuta lo svolgersi ed il chiarirsi di quello che si vive. Questo è lo studio. Ma è qualcosa che deve implicare l'intelligenza e la volontà simultaneamente, anzi quasi più la volontà che l'intelligenza; dev'essere più l'amore che spinge all'intelligenza che non l'intelligenza che spinge l'amore. E questo non per sminuire il valore dell'intel­ligenza, bensì per dare ad essa il suo posto e permetterle cosi di assolvere il massimo della sua funzione e delle sue possibilità.

Con uno studio così concepito si dovrebbe diventare uomini, non solo persone istruite. Essere persone colte solo in senso cerebralistico significa in realtà essere persone ignoranti. Uno studio insomma che è vita dovrebbe formare uomini che sanno vivere e che sanno affrontare tutti i problemi del pensare umano come problemi personalmente vissuti, non come problemi di studio.

 

Lavoro come scuola di vita

Il lavorare, in questa prospettiva degli studi, non è una perdita di tempo, poiché il lavoro è anche un mezzo di conoscenza. Voglio dire che non è soltanto un mezzo per vivere, ma è qualcosa d'inerente al nostro essere uomini, e quindi anche un mezzo per conoscere la realtà, per capire la vita: è struménto di formazione umana reale ed effettiva. Se ho una difficoltà in un lavoro che eseguo, o se devo aumentare la produzione perché altrimenti l'azienda non si regge, questi sono problemi che devo risolvere concretamente, non in maniera astratta o solo spiritualmente. Quando si studia soltanto, uno può anche inventarsi una filosofia e dire che va bene, che è giusta, ma quando si deve far funzionare una macchina, non si può inventare una filosofia; si deve far funzionare quella macchina, dove si scoprono delle leggi intrinseche che sono quelle che sono, ma alle quali ci si deve adattare, perché sono leggi di Dio.

Il lavoro ci dà il senso del reale, ci mette a contatto con la materia, con il cosmo. Li si acquista quell'esperienza vitale che proviene dal doversi adat­tare alla materia concreta e cercare di adattare essa a noi.

Succede spesso che se quello che si dà è un pensiero vitale, difficilmente si è capiti da coloro che studiano soltanto, mentre forse capisce di più una

massaia, un operaio che lavora tutto il giorno, i quali non hanno delle cate­gorie astratte e degli schemi in testa attraverso i quali filtrare quello che si vuol dire e quindi fraintenderlo. Per questo anche queste persone « semplici » costituiscono la miglior « cassa di risonanza » per aiutarci ad uscire dai libri e dai concetti vuoti, e trovare un pensare che sia vita, essere, umanità.

Una prova di quanto veniamo dicendo la troviamo, ad esempio, quando incontriamo degli operai, dei contadini, dei pescatori, che con la loro espe­rienza ci esprimono non solo la saggezza del loro contatto faticoso con la vita e con la natura, ma della natura ci sanno esprimere in qualche modo anche la concretezza, l'armonia, la purezza. A contatto con queste persone possiamo imparare molte cose su certi valori dell'esistenza umana che nessun libro potrebbe mai darci.

Quindi non dobbiamo — con lo studio — staccarci dal mondo del lavoro, dal mondo della materia, bensì farlo diventare un tutt’uno con noi. Per questo è necessario un lavoro serio, produttivo, concreto. Li si vede se siamo innestati bene nel reale, se siamo veri. E' al contatto con la realtà che l'intelligenza, lo spirito, l'essere dell'uomo si verifica, si staglia, s'illumina, si chiarifica.

Spesso tra i cristiani il lavoro è stato accettato come una punizione del peccato. Intanto è un errore perché non è stato il lavoro ma la fatica connessa ad esso l'eredità del peccato. Ma oltre a ciò gli uomini trovano nella vita cristiana il risanamento di quella punizione, facendo del lavoro un completa­mento dell'uomo. Come dice Paolo VI nell'enciclica « Populorum Progressio », dove fa vedere come il lavoro sia lo sviluppo dell'uomo. E infatti è sviluppo perché è l'inserimento nostro nel cosmo. Attraverso il lavoro il cosmo si comunica a noi e noi ci comunichiamo al cosmo (cf. P. Foresi Teologia della socialità, Roma 19652, cap. « Il lavoro dell'uomo »).

Il lavoro riesce a distruggere buona parte di quello che uno ha imparato solo nozionalmente, lasciando cosi dentro di noi solo quel tanto di verità che era vita, che era, saggezza, quel tanto che è diventato parte del nostro essere al di là di tutto quello che abbiamo imparato. Il lavoro ci fa capire cose molto importanti: tra l'altro ci fa capire che lo studio non è l'unica realtà della vita.

Logicamente non è da considerarsi lavoro soltanto quello manuale. Prima di tutto perché come il lavoro manuale coinvolge la nostra libertà e la nostra conoscenza, cosi anche il lavoro intellettuale fatto bene può implicare in qualche maniera tutto il nostro essere. E poi è anche lavoro e sacrificio ad esempio imparare quelle nozioni necessarie per lavorare meglio e per incarnare bene quello che si studia. E' lavoro pure la fatica umana di leggere certe cose noiose, o d'imparare lingue difficili al fine di poter leggere certi autori. Chi ha il compito di studiare deve fare bene questo suo lavoro. Quanto abbiamo detto però, mette al suo giusto posto il valore degli studi: colui che studia non vale più degli altri, perché in un certo senso lo studio in sé è secondario e marginale.

Evidentemente tutto questo vale soltanto per quelle persone che vogliono non solo erudirsi, ma che debbono dire qualche cosa. Per queste, il lavoro è parte essenziale anche degli studi. Proprio perché è la vita che fa capire.

 

Socialità e conoscenza

Un'altra dimensione fondamentale dell'uomo che porta conseguenze decisive per lo studio è la sua socialità. Se noi diciamo: « l'uomo è naturalmente sociale », esprimiamo una verità che porta delle conseguenze enormi a tutti i livelli, compreso quello della conoscenza.

Si tratta in primo luogo del fatto che la verità va raggiunta « a corpo », e quindi dobbiamo essere sempre aperti a lasciarci completare dalla verità altrui. Tanto più oggi, in cui nessuno può arrivare ad avere una conoscenza che comprenda tutta la realtà, mentre ad esempio di S. Tommaso si è potuto dire che « aveva letto tutto » quello che era pubblicato al suo tempo.

Quello però che vorremmo sottolineare è che non basta un qualunque lavoro « in équipe », un mettere assieme tante idee, tante conoscenze, per trovare una sintesi. Non è possibile prendere più cose morte per farne una cosa viva. Una vera sintesi superiore e diversa potranno farla solo delle persone che non restino sul piano dell'astrattismo, ma che siano loro stesse fuse in unità. Quella comunione profonda che Gesù è venuto a portare tra gli uomini, è fonte di luce sempre nuova. Una profonda unità con Dio e con gli altri offre lumi nuovi per affrontare ogni problema. Ci vuole contemporaneamente la cultura e l'unità per superare teorie sconnesse, appiccicate, e per arrivare sia a una sintesi più alta, sia a certe intuizioni in qualche senso nuove ed originali, impastate di sapienza umana e divina.

 

Cultura di massa

Una scuola cosi impostata risolverebbe anche un problema molto attuale: spesso la scuola, soprattutto quella superiore, è stata concepita come scuola di « élite », cioè come scuola per alcuni uomini, non per l'umanità. Per questo si è specializzata: sembrava più facile andare avanti con le persone cosiddette colte ed intelligenti. In realtà è stato un estraniarsi dalla vera umanità di cui ha sviluppato soltanto alcuni aspetti.

Bisognerebbe invece arrivare (forse è un sogno, forse è un'utopia, ma penso che dovrebbe essere storicamente possibile) ad una cultura di massa: riuscire a fare una cultura che sia profondamente cultura, che sia vera cultura, la più elevata, ma che sia assimilabile da milioni di persone, che sia comuni­cabile a milioni di persone.

Penso che in questa epoca non si possa più coltivare dei geni. Questo è forse l'errore delle odierne Università. Una vera cultura dobbiamo senz'altro darla, però collettiva; e se non facciamo questo non siamo più aggiornati perché l'evoluzione dell'umanità ci sopravanza sulla nostra conoscenza.

Bisogna arrivare ad una cultura intersoggettiva, ma soprattutto ad una forma di comunicazione e di espressione che tutti devono poter capire. Altri­menti non è cultura: è una cultura solo di una parte di umanità che pensa, ma non è la cultura dell'uomo.

Ora non è detto che tutti sapranno tutto, non è questo naturalmente che si vuol dire. Ma dovrebbe succedere come con il Vangelo, che è fatto per tutti gli uomini e se fosse fatto solo per le persone intelligenti non sarebbe più Vangelo; cosi la vera cultura deve essere fatta per tutti gli uomini. O si riesce a dare l'uomo all'uomo, o si daranno soltanto delle astrazioni, delle formule, a pochi uomini che non sono l'umanità.

La vera grande cultura antica era seguita dalle folle. Ricordiamo le grandi tragedie greche, o l'Odissea, l'Iliade, i grandi poemi; erano forse una scuola di élite? No, era il popolo che vibrava, che viveva. E noi oggi diciamo: ma come facevano? Proprio perché era vera cultura vibravano, perché esprimeva l'umanità, non esprimeva delle cose un po' arzigogolate che solo alcuni credono di capire o che dicendo di capirle non cercano altro che di passare per intelli­genti, come succede a volte. Lo stesso quando si leggono le Lettere di S. Paolo. Come faceva a dire delle cose così alte a delle persone cosi ignoranti? — po­trebbe domandarsi qualcuno. E' che noi abbiamo un concetto sbagliato d'igno­ranza. Le persone a cui erano indirizzate quelle lettere erano umanità, e quelle parole erano universali ed in esse s'esprimeva l'umanità; davano delle cose che tutti capiscono perché sono la vita degli uomini. Un Agostino, un Crisostomo, parlavano facendo un'esegesi che adesso i teologi stentano a volte a capire; eppure essi la facevano alle folle. Perché? Perché c'era questo humus, vero, reale, che era vera cultura, era l'« essere umanità » che s'esprimeva.

Se si riesce a parlare non soltanto per alcuni uomini, per i musei, per un'umanità astratta, ma in maniera da essere compresi da tutti, dalle persone vive, dall'umanità reale, dalle persone che vivono il mondo di oggi, nelle esigenze di oggi, con l'intelligenza di oggi, soltanto allora faremo vera cultura.

Se invece non riusciamo a farci capire, bisogna domandarsi se si dicono delle cose vere o artificiali. Perché le cose vere sono per tutti, sono fatte per tutti. Queste universalità di comprensione è uno dei segni per capire se quello che diciamo è invenzione nostra o vera saggezza e sapienza.

I libri possono diventare cattivi compagni se ci allontanano dall'esistenza e dall'essere per trasferirci in categorie astratte e difficili, quando solo nel cuore dell'umanità — la cui intelligenza tende fondamentalmente alla verità — si ha la vera saggezza. Oltretutto, Gesù è nell'umanità, specie là dov'è crocifisso. E' nella sofferenza, è nel dolore che si trova la sapienza.

 

L'insegnamento nuovo

Si tratta insomma di passare da un piano di studio nel senso di nozioni astratte e di erudizione, ad uno studio basato su un altro concetto di uomo e di cultura. Un uomo « unificato » che vale non per quello che possiede o che sa ma per quello che è. Una cultura intesa come essere, come vita, come profondità, come saggezza umano-divina. E questo non solo per conoscere il divino, ma anche per capire tutti i problemi umani, i problemi dell'esistenza scientifica, il problema dell'organizzazione del lavoro, il problema profes­sionale, ecc.

Una scuola di questo tipo non è facile realizzarla in concreto. Bisogna ancora crearla. Ci sono dei tentativi, ma bisogna avere pazienza proprio perché è una scuola che deve nascere dalla vita, non dal pensarla o dal progettarla razionalmente.

Quel che conta quindi non è tanto lamentarsi del passato, o credere che arri­veremo noi all'ottimo. L'uomo è legato al futuro, e forse quello a cui noi ane­liamo sarà vissuto più pienamente domani dagli altri. Ma dobbiamo comin­ciare a vivere noi quelle realtà, se vogliamo costruire veramente. Dobbiamo cominciare a realizzare in un'autentica comunione di vita questa nuova scuola, dove la formazione sia umana, piena, totale, che impegni tutto il nostro essere e che determini la nostra vita, la nostra esistenza per sempre. E' soltanto dalla vita che viene la gioia, la pace, un tipo di conoscenza che i libri non possono dare. Questo lo capisce non colui che si stacca dall'essere, non chi si basa solo sulla cultura nozionistica o sulla ragione, ma solo chi in realtà s'impegna e vive.

 

Pasquale Foresi