Tavola rotonda sul tema:


"L'esperienza di Dio oggi"

 

seconda puntata

 

Partecipanti: Felix Heinzer {Svizzera), Enrique Cambón {Argentina), Noria Kudo {Giappone), Paco Pérez (Spagna), Vincenzo Zani, Luigi Bonazzi, Zeno Sartori, Tarcisio Benvenuti (Italia)

 

Enrique. Una delle tentazioni : più forti che ci po­trebbe essere oggi a riguardo del cristianesimo è quella di prendere quanto di buono e di bello c'è in esso, tutta la ricchezza umana che contiene, lasciando da parte quanto fa difficoltà all'uomo di oggi, libe­randolo da ogni riferimento ad un mondo mitologico, soprannaturale o preternaturale.

Come verificare in qualche ma­niera che il cristianesimo non con­tiene solo dei valori umani, ma ci dice la verità assoluta, il divino che si offre a noi? Nella mia esperienza ho avuto tantissimi motivi per cre­dere e tanti altri per lasciare e so­no stato al plinto di lasciare la fede. Quello che mi ha salvato è stato fa­re l'esperienza del Vangelo, cercare di vivere assieme ad altri, una alla volta quelle « Parole di vita ». Que­sta è l'unica maniera di verificare la loro efficacia e validità. Non che abbia trovato con questo la « ricet­ta» per rispondere a tutto. Il sen­so della vita non diventa mai qual­cosa di ovvio e scontato, ma è sem­pre da conquistare. Ma ho trovato la speranza, il coraggio di giocarmi la vita per qualcosa che lo merita. Certe cose le credo con la volontà e devo dire: « Signore, credo, ma aiuta la mia fede». E' sempre un rischiare la vita per la speranza che ho scelto, per quelle realtà che si trovano, si, dopo la morte, ma che ho esperimentate cominciate già in questa vita. Ho trovato una tale pienezza di vita e d'intelligenza vi­vendo le parole della Scrittura che mi son detto: la cosa più bella e più intelligente che posso fare del­la mia vita è giocarla per questa speranza.

Luigi ' una continuazione di quello che dicevi: cioè, a me sembra che mai come oggi si parla dell'uomo. Si sente l'esigenza di costruire un uo­mo autentico, un uomo ricco sotto tutti gli aspetti, che faccia tutte le esperienze possibili. E il punto de­bole che io trovo in questa sottolineatura, è che senza accorgersi si fa dell'uomo un ideale che sembra non si possa raggiungere se non a prezzo di sacrificare l'uomo.

E' il pericolo che trovo in Mar­cuse quando ci dice che una socie­tà perfetta sarà quella in cui gli uomini avranno finalmente la pos­sibilità di esprimersi a livello del­l'Eros, della fantasia e del gioco, con quella libertà che ha saputo sciogliersi da ogni limite, da ogni frustrazione ed inibizione che la so­cietà e la tradizione hanno portato. Così anche Skinner quando propone come ideale sociale una cultura effi­cace, tecnologicamente controllata nei suoi effetti positivi e negativi, in cui l'uomo avrebbe la possibilità di manipolare tutto, di trovarsi bene.

Devo anche dire che queste esi­genze di dare spazio all'uomo le sento autentiche, eppure vedo, pro­prio per questo, tanto più urgente oggi il mettersi in ascolto della Pa­rola di Dio. L'esperienza che noi abbiamo fatto è stata che metten­do al primo posto Dio ci siamo sen­titi realizzati come uomini. E' que­sta l'attualità che ha il Vangelo oggi, e l'importanza di prenderlo sul serio, perché nelle sue parole c'è dentro un'autentica esperienza di umanità.

C'è da dire però che il Vangelo mi fa un discorso a prima vista paradossale. Mi parla di « prende­re la croce » di ogni giorno, di rinnegamento, di « saper perdere ».

Precisamente questo « saper per­dere », questo spegnersi per trovare la luce, questo morire per generare la vita, è profondissimo, perché por­ta l'uomo a non ripiegarsi e chiu­dersi in sé stesso. Il Vangelo ti dice: puoi diventare uomo, ma devi passare attraverso il « saper per­dere », e una delle conferme di que­sto è quando si vive con Gesù in mezzo a noi, dove mentre ti sem­brava di metterti in rapporto con altri perdendo te stesso, invece tro­vi il massimo di realizzazione an­che umana.

Seguendo la linea di ENRIQUE. questo che dici tu

vorrei completare quello che dice­vo prima.

Una cosa che oggi fa sof­frire molti è l'ambiguità della real­tà. Tu puoi dire: qui c'entra la gra­zia, la fede, Dio, o puoi spiegare la stessa cosa attraverso meccani­smi psicologici, contesti culturali, ecc. Così praticamente con ogni realtà della vita. E questo produce l'esasperazione. Molti si domanda­no perché Dio ha lasciato le cose cosi, se voleva che tutti lo trovas­sero. E' invece un Dio cosi « poco evidente» che moltissime persone possono lottare contro di Lui in buona fede. Quello che a me perso­nalmente ha salvato la fede, assie­me a quell'esperienza vivissima del Vangelo di cui parlavo prima, è stato l'esperienza" di Gesù in croce rivissuta nella mia vita. Ho capito che la realtà ha queste caratteristi­che (questa assoluta ambiguità di senso e d'interpretazione, questa « non-garanzia », questa « non-tra­sparenza »), proprio perché Dio vuole da noi l'amore, non l'installarsi borghese in un'evidenza. Per que­sto non ci ha lasciato niente su cui « appoggiarci ». Solo con l'amore puoi sorpassare quel negativo, quel­l'ambiguità del reale: soltanto se ami vai avanti e vedi, perché nien­te nella realtà ti permette di ada­giarti, d'essere « al sicuro ». Dio non è mai « evidente », ed il dub­bio può spuntare fuori in qualun­que momento. Mi sembra che que­sta sofferenza sia naturalmente in­sita alla fede, e che tutti l'abbia­mo, anche i grandi santi. Tutto sta nel saper trasformare tutti i « perché » in alimento del nostro amore. Credo che quello che oggi occorre fare è prendere dentro que­sta sofferenza, questo mondo cosi com'è, e vivere il Vangelo al cento per cento, darci a Dio al cento per cento, in maniera che possiamo tro­vare ed offrire Dio con quella vee­menza e quella trasparenza dei san­ti che al Vangelo hanno creduto al cento per cento, non al trenta o al settanta.

Dio prima era per me molto metafisico, molto Ora, ad esempio, avverto, astratto. Ora, ad esempio, avverto che la teologia, che lo studio del­la teologia comincia prima della le­zione di teologia. Quando vado al­l'Università e m'incontro con uno e lo saluto sapendo che in lui trovo un fratello d'amare, lì inco­mincia già la mia teologia, poi ar­rivo alla lezione. Questo Studio (con la esse maiuscola) mi ha dato una intuizione, una luce che ha su­perato le mie aspettative. Non so­no un tipo intellettuale, eppure ho visto che in questa esperienza quo­tidiana di amore e di unità trovo nell'altro un posto dov'è nascosto un pezzo di sapienza, proprio per­ché ogni persona è Parola. Per me il Vangelo non finirà mai, perché le sue parole, hanno la possibilità di essere incarnate in ogni perso­na, e anche la più disgraziata può esprimerne una. Questa per me è una delle conferme che Dio è Amore, perché è capace di andare al di là delle strutture personali di ciascuno dando ad ognuno la capacità di riviverlo in una parola.

sono partito da una esperienza estetica di Dio; in seminario Dio non lo trovavo come volevo, ed allora mi sono rifugiato nella teologia appassio­nandomi per quelle idee di Dio co­me vengono espresse dai teologi di avanguardia, soprattutto se in anti­tesi con quelle tradizionali. Anche questa era in certo senso un'espe­rienza estetica, ma poi ho visto che non dura. Lo constatavo in certi preti giovani che in seminario conoscevo come persone in gamba, di quelle che non si siedono, ma che poi nell'esperienza pastorale falliva­no. L'unica uscita possibile mi sem­bra quella di prendere le parole del Vangelo e di viverle così come sono, senza farci sovrastrutture. Lo incontro con la spiritualità dell'uni­tà mi ha fatto capire che è la vita d'unità che mi porta all'esperienza di Dio, anche se in tanti momenti è un'esperienza sofferta e faccio, più che l'esperienza della fede, la esperienza della sofferenza della fe­de. Ma credo all'unità, vivo per quello, e poi avverto che si tratta di una esperienza vera, per gli ef­fetti e la pienezza di vita che pro­duce in me e negli altri.

Per me è stato logico, nel momento in cui ho avuto la mia crisi di fede, cercare di superarla ricorrendo a dei ragio­namenti. Volevo dimostrare che per me Dio era la cosa più importante nella vita, quello per il quale vale­va la pena di vivere, attraverso una conclusione di sillogismi logici. E naturalmente non ci son riuscito. L'incontro con il Movimento, allo­ra da poco avvenuto, mi aveva mes­so in testa d'incominciare a vivere le frasi del Vangelo, e soprattutto avevo dentro quella che dice: « a chi mi ama mi manifesterò ». E la mia crisi di fede l'ho superata cosi, incominciando ad amare per qual­che mese di fila, e poi è venuto un po' di luce. In questo modo posso dire che tra le tante idee che ho, almeno queste poche frasi le ho esperimentate nella loro realtà.

 

Studiando la teologia è normale sentir parlare di Dio, del mistero del­la Trinità, dell'Incarnazione, di Ma­ria, ecc. A volte diventano discorsi interessanti, e se vuoi attraenti; però questo mare di parole non è mai riuscito a colmarmi quella sete profonda di Dio e quel desiderio di incontrarlo a livello non solo ra­zionale, ma totale, spirituale, uma­no. Un giorno m'è capitato di in­contrare due persone che si ama­vano sul serio e, come ho saputo dopo, erano pronte a dare la vita per me. Non mi hanno parlato tan­to di Dio, ma nelle loro persone, nelle loro parole, Dio era una real­tà cosi forte, cosi bella, cosi reale, che da allora si sono aperti nuovi orizzonti per me ed un incontro nuovo col Dio vivo. Penso che la teologia deve essere sostenuta da una solida base di cristianesimo-esperienza, se vuole essere un vero discorso su Dio.

ENRIQUE: Forse a volte noi sottolineamo molto il limite che troviamo nella teologia e non i limiti che ci sono in noi, mentre se noi non viviamo non siamo nella condizione di compren­dere quanto studiamo. E' proprio questo, mi sembra, uno dei dram­mi dei seminali e di tanti cristiani: la sproporzione tra « testa e cor­po », nel senso che si ricevono tan­te nozioni, tutta la ricchezza enor­me della tradizione cristiana di pensiero, ma che rimangono in alta percentuale a livello di concetti. E' troppa la sproporzione tra il molto che ricevi e quello che tu vivi, e allora quelle belle cose fini­scono spesso per stancarti o non dirti più niente.

E' l'impressione che ho anche di certe teologie attuali, dove si sottolinea tanto la dimensione oriz­zontale, la prassi rivoluzionaria, lo impegno politico, la scelta degli oppressi, I rapporti tra teologia e sociologia, ecc. In questa teologia, assieme alle inevitabili ingenuità ed imprecisioni, trovo tante cose veramente interessanti, originali, suggestive, proposte spesso da cri­stiani che pagano di persona. No­nostante ciò, se prima la teologia parlava troppo esclusivamente «del­le verità soprannaturali in sé », ades­so questa teologia ti affascina in certo senso, ma spesso non ti por­ta a Dio, rischi di non trovarci più Dio.

Per questo mi sembra tanto im­portante questo tipo d'esperienza di Dio di cui stiamo parlando. So­no sicuro che qualcuno potrebbe giudicare questa nostra conversa­zione alienante, astorica, spiritua­lista, intimista. Io direi che se uno non fa questa esperienza ori­ginale, profonda, gli mancherà sem­pre quella potenza e quella sapien­za che poi si potrà esprimere nel­l'ordine politico, nell'ordine scien­tifico, per trasformare la società, ecc. Altrimenti si rischia di cadere nel paradosso di una teologia e di un impegno per gli altri, apparen­temente cristiani, ma in realtà sen­za Dio. Mentre io cambierò vera­mente il mondo soltanto se porto Dio, non soltanto programmi strategico-tattico-politici. E' un discorso di base fondamentale, perché senza questo perdiamo l'originalità del cristianesimo.

FELIX : Anch'io ho fatto questa stessa esperienza, ma at­traverso quella teologia che è un po' l'altro estremo di quelle teolo­gie a cui tu ti riferivi, e che si potrebbe chiamare « teologia euro­pea », soprattutto nella forma che troviamo in Germania. Anche essa ha una radicalità molto grande, però sul piano della riflessione a­stratta. Avviene spesso lo spacco tra la teologia e quello che dovreb­be essere il suo fondamento, il suo punto di partenza: l'esperienza ap­punto di fede, l'esperienza di Dio. Per esempio in un corso di ricerca al quale ho partecipato ho visto come la discussione si muove sem­pre nella superficie, nel senso che non viene coinvolta nel discorso teologico l'esistenza di chi inter­viene nella discussione. Era come discutere su un problema matema­tico. Una volta, uno degli studenti ha segnalato questo fatto. Al che il professore ha risposto che, se­condo la sua esperienza, ha visto che in questi corsi, più gli studen­ti andavano in profondità, cioè più si avvicinavano alla propria espe­rienza religiosa e di fede, meno riu­scivano ad esprimersi. E in quel momento ho capito che l'esperienza che cerchiamo di realizzare tra noi è una grazia anche in questo sen­so, perché si apre l'accesso a ciò che ho chiamato il fondamento, il punto di partenza del discorso teo­logico, cioè all'esperienza di Dio, e inoltre ci «allena» anche a comu­nicare questa esperienza sempre di più e sempre meglio agli altri. E mi sembra che alla teologia di oggi e quindi anche a tanti studenti di teologia manchi proprio questo se­condo aspetto. Mi sembra che la teologia non serva a niente se man­ca questo complemento esperien­ziale.

Un esempio concreto è per esem­pio l'esegesi. E' mutile fare ese­gesi, se ci manca la disposizione per accogliere quello che nella pa­rola di Dio vorrebbe raggiungerci e darsi a noi. E' come nel caso di una spina elettrica: se le manca la presa dove inserirsi, non serve a niente e la luce non si accende. Ora mi sembra — è un'intuizione,

se volete — che il Nuovo Testamen­to sia nato come un frutto di Gesù presente in mezzo alla comunità, e quindi la disposizione più adatta per accogliere la Parola di Dio, non soltanto analizzarla ma capirla in un modo da coinvolgere e toccare la mia esistenza, è l'esperienza di Gesù là « dove due o più... ».

 Infatti è classica la tensione (in diverse espressioni e sfumature), tra il va­lore attribuito alla Parola in sé ed il fatto che quella Parola è nata nella comunità e quindi va capita più profondamente nella vita della comunità. Ora io ho conosciuto de­gli studenti di S. Scrittura che per un'esegesi puntata troppo esclusi­vamente sugli studi filologici, ar­cheologici, letterari, ecc, senza cioè il complemento di un'esperienza a­deguata, andavano in crisi, trovava­no quei documenti « troppo pove­ri » per sostenere la loro fede. E' che se la Parola della Scrittura è espressione di un'esperienza, noi dobbiamo in qualche maniera ri­fare quella esperienza per riuscire a capire ciò che quella Parola dice. Più vivi le parole della Scrittura più le capisci. Per questo il cri­stianesimo non è fatto per una « élite » d'intellettuali, ma succede che una persona semplice arriva attraverso la sua vita a penetrare

di più il senso profondo di certe Parole della Scrittura che non uno « specialista » senza quella vita. Questo spiega la luce e la ricchez­za anche dottrinale che troviamo in tanti santi, ed il fatto che per­sone « non letterate » siano diven­tate « Dottori della Chiesa ».

C'è persino chi dice oggi: « La Bibbia? Non esiste, esiste soltanto la Bibbia sociologica di quello che appare in giro come cristiano! ». Il cristianesimo allo stato puro non esiste, si dice, ma esistono soltan­to le diverse concretizzazioni del cristianesimo attraverso la storia. La Bibbia è già in sé un'interpretazione di quel fenomeno storico che fu Gesù di Nazaret. Poi la Bib­bia che è arrivata a noi è sempli­cemente un insieme di successivi strati d'interpretazioni attraverso le diverse epoche (dogmatici, di di­ritto ecclesiastico, pastorali, ecc.). Per questo bisognerebbe « disintos­sicare » la nostra fede, e sarebbe troppo ingenuo continuare a par­lare di « riferimento al Vangelo » e di criteri « alla luce della fede »...

A parte le implicanze ermeneuti­che sottintese sotto questa impo­stazione che non è il caso di di­scutere qui, l'impressione che mi fa questo tipo di discorsi è che quei gruppi di cristiani non hanno fatto un'esperienza vitale profonda della potenza delle parole della Scrittura. Quindi non hanno la capacità né di cogliere fino in fondo quanto di ve­ro, di buono, di bello c'è nel mon­do e nelle dottrine non cristiane, né sono capaci di esprimere una propria originalità e di porgere una alternativa che affascini il mondo di oggi e gli offra il vero Dio.

a cura di Enrique Cambòn