vivere per credere
Il Nuovo Testamento è tutto quello che è stato detto e che si
dice, ma sarebbe illogico non vederlo anche come diario personale e collettivo
di un gruppo che ha fatto una certa esperienza spirituale e sociale.
Come diario mette in evidenza, tra l'altro,
che la « fede » non è stata il punto forte degli
apostoli e dei discepoli. Quando questi, invece di vivere la Parola che
Gesù comunica, la discutono e ne rilevano la problematica, scende su tutti l'oscurità intellettuale che a sua volta ti
distoglie maggiormente dalla possibilità di credere e, di conseguenza,
dalla vita.
Quando al contrario si situano in un rapporto
di amore, al di là della
problematica, la luce esplode.
La lettera agli Ebrei accosta al fenomeno
dell'incredulità il «cuore
malvagio» che allontana dal Dio della vita, onde è necessario
« esortarsi a vicenda ogni
giorno » per non indurirsi e cedere al peccato (cfr. Ebr. 3, 12-13); dice ancora che Dio ci ha evangelizzati, ma
che la sua parola per essere da noi capita esige una connaturalità con
colui che parla (ibid. 2 ss.).
Ora Dio non è un «
ens rationis », ma amore, e
quindi non è tanto l'intelligenza che riesce a percepirlo nella sua
essenza quanto quel rapporto vitale che potremmo qualificare — analogicamente
— come simbiotico, in quanto è proprio il rapporto umano «
madre-figlio » che esprime maggiormente la
relazione creatore-creatura. Simbiosi è appunto
connaturalità e comunione di vita.
Se Dio è amore, solo l'amore riesce pertanto a percepirlo, magari
confusamente, magari in modo preconscio, ma tuttavia vitale.
«
Chi ama è in Dio e Dio è in lui ». E' la carità,
insomma, che ti rende connaturate a Dio e ti elimina in radice il
«problema» della fede (come viene detto
nella tavola rotonda di questo numero).
Una riprova — sempre analogica — la troviamo
nei rapporti umani. Per fare un esempio, diciamo del rapporto
terapeuta-paziente. Non è difficile al terapeuta fare una diagnosi
oggettiva del disturbo del paziente, ma la sua funzione terapeutica non ottiene
esito se lui non riesce a rivivere, a immedesimare, ad assorbire direttamente
lo stato emozionale del paziente. La medesima « empatia »
è condizione necessaria per un costruttivo
rapporto pedagogico. Se questa comunione di vita manca, si instaura
un rapporto superficiale tra persone fondamentalmente estranee, e allora per
quanto validi e oggettivamente veri siano i principi che l'educatore vuol fare
assorbire, essi restano lettera morta anche se razionalmente accettabili.
Non succede cosi anche per il Vangelo? Le
parole di Gesù che spesso
leggiamo come qualunque altra parola e che di conseguenza restano
inoperanti, acquistano la loro vera dimensione di verità divina ed
eterna e operano una trasformazione vitale in tutto il nostro essere non appena
riusciamo a stabilire un rapporto —
mi si passi ancora il termine — simbiotico con lui.
In questi casi la fede non è più. problema ma
certezza.
Silvano Cola