gli anni difficili

della corrispondenza cristiana

 

Attività epistolare di Clemente e Ignazio - Copisterie commerciali e diffusione dei libri a Roma e nell'Impero - I cristiani obbligati a servirsi di copisti privati - Esten­sione della corrispondenza privata cristiana - Difficoltà e rischi della spedizione.

 

Tra gli anni 95-96 d.C. alcuni cri­stiani di Roma che avevano soggior­nato qualche tempo per affari a Co-rinto, sbarcano a Ostia e vanno di­filato da Papa Clemente per dirgli che in verità a Corinto la comunità non si dimostra così cristiana come dovrebbe: c'è in atto una contesta­zione, da parte di una minoranza, contro l'autorità ecclesiastica locale; la comunità è divisa e dà scandalo. Clemente, con tristezza, verga una lettera per esortare i cristiani di Co­rinto all'unità, lettera che resta il brano più antico di letteratura cri­stiana storicamente documentato quanto ad autore, epoca e motivi di composizione. Clemente sa che ne avrebbero dato lettura pubblica alla comunità riunita, e la redige con cura e con un certo stile letterario.

Settantacinque anni dopo, Dionigi, vescovo di Corinto, scrive a Papa Sotero che la lettera di Clemente viene ancora letta durante le cele­brazioni liturgiche, ma sappiamo da Eusebio che in molte altre chiese av­viene la stessa cosa.

Verso gli anni 101-107 d.C. Ignazio,- secondo vescovo di Antiochia, è in viaggio per Roma sotto scorta ar­mata imperiale. Sa di andare al mar­tirio. A Smirne trova cristiani invia­ti ufficialmente dalle comunità di Efeso, di Magnesia e di Traili per salutarlo e dichiarargli la loro uni­tà, e Ignazio scrive tre lettere alle rispettive Chiese per esortarle a ri­manere sempre fedeli ai superiori ecclesiastici e per ringraziarle viva­mente dell'amore che gli hanno te­stimoniato. E poiché la tappa si pro­lunga, pensa di scrivere anche alla Chiesa di Roma: una lettera accora­ta, bellissima, per pregare i cristiani a non fare nessun passo che gli possa impedire di morire per Cristo. Di passaggio a Troade, scrive altre due lettere alle Chiese di Filadelfia e di Smirne, e una terza, personale, per il vescovo Policarpo di questa ultima città. Non appena viene a conoscenza del martirio di Ignazio, la chiesa di Filippi scrive a Policar­po per aver copia delle lettere, e Policarpo risponde: « Dietro vostra richiesta», vi mandiamo le lettere di Ignazio, sia quelle indirizzate a noi, sia tutte le altre di cui abbiamo co­pia. Ve le allego perché potete trar­ne grande profitto...».

La vita, fra le prime comunità cri­stiane, circolava. Era prezioso tutto quanto si riferiva alla vita della Chie­sa nascente, e si facevano sforzi no­tevoli per conservare e divulgare questi scritti.

Si sa che, all'epoca di Clemente e di Ignazio, a Roma esistevano diver­se librerie che reclamizzavano e ven­devano a migliaia di copie le opere dei più noti scrittori. Già dal tem­po di Cicerone le modeste tabernae librariae si sono trasformate: Attico, straricco, amico di Cicerone, mette in piedi un vero centro commerciale del libro che riesce ad esportare in tutta la Grecia. L'attività privata di trascrizione dei testi quasi scompa­re, soffocata da attrezzate copisterie commerciali che impiegano numerosi

schiavi, copisti, e correttori, capaci di rifornire le librerie di tutte le province dell'Impero. Di un banale elogio funebre, ci assicura Plinio il Giovane, si sono vendute mille copie in Italia e nelle province, e dice che a Lione i suoi libri ottengono lo stesso successo commerciale che a Roma. Le opere di Marziale si tro­vano nelle librerie in Gallia, in Bretagna e Tarragona in Spagna; Orazio prende in giro i « provinciali » africani di Utica e i loro simili di Ilerda in Spagna perché sulle loro bancarelle vendono libri passati di moda.

Era un commercio che prosperava; erano centri di diffusione ideologica; ma i cristiani non se ne potevano servire. I loro scritti, espressione di pura fede, non avevano per lo più pretese letterarie e potevano essere esposti al disprezzo dei raffinati critici della letteratura, che di fatto li giudicavano « redatti da persone ignoranti, zeppi di barbarismi e solecismi ». In più la nuova fede possedeva un contenuto che era sen­za dubbio incomprensibile alla cul­tura dell'Impero, e nessuno poteva immaginare che si trattava invece di un fermento che avrebbe tra po­co tempo rivoluzionato quella stessa cultura e fatto di Roma un nuovo centro di irradiazione spirituale e ideologica.

Ora, un fatto originale è appunto questo, che se nel mondo pagano l'arte dello scrivere era privilegio di pochi specialisti, dotati in più an­che di una certa ricchezza quando non erano sostenuti da mecenati, i cristiani nel fervore della conversio­ne che li spingeva a comunicare agli altri la propria fede e le proprie esperienze, scrivevano anche senza preparazione letteraria; la purezza e lo stile della lingua poco interessava ad essi: l'essenziale era comunicare la vita, sostenere i perseguitati, te­stimoniare la retta fede cristiana di quanti cambiavano comunità, e met­tere questa al corrente di quanto avveniva nella propria. Sappiamo da Eusebio che semplici cristiani del popolo verso il 177 mandavano let­tere ai loro « fratelli » imprigionati, quelli che sarebbero diventati i mar­tiri di Lione, e fu la stessa comunità di Lione a mandare un lungo aggior­namento a gruppi di cristiani in Asia Minore riferendo sul martirio da essi subito e sulla gloria che si riversava sull'intera Chiesa.

Numerosi sono i fatti del genere di cui siamo a conoscenza, poiché era senza dubbio un'esigenza pro­fonda del cristianesimo che aveva fatto di tanti individui altrettanti fratelli. E' bello vedere come Ignazio di Antiochia invita in modo del tut­to naturale i fedeli di Filadelfia, di Smirne e di Filippi a scrivere alla

comunità di Antiochia che lui ha dovuto lasciare. Il martyrium Poly-carpi redatto poco dopo la morte del vescovo da un certo Marcione, lo si trova in una lettera della chiesa di Smirne alla comunità cristiana di Filomelio in Frigia; il testo viene copiato da Caio, da questi lo copia un certo Socrate e da quest'ultimo lo copia Pionio (o chi per lui) che lo inserisce nella Vita Polycarpi, e così dall'anno 156 il testo si tramanda fino al 400, e di qui fino a noi nu­trendo spiritualmente i cristiani di ogni generazione.

Più numerose ancora le lettere uffi­ciali che le chiese si scambiano tra loro.

Attraverso copisti privati e un si­stema privato di spedizione, spesso clandestina, si tesse una rete che col­lega vitalmente tutte le comunità cristiane sparse nell'Impero.

E' interessante dare una occhiata anche alla corrispondenza privata dei cristiani. Da S. Paolo tutti hanno imparato a chiamarsi « fratelli » ed è questo termine che normalmente compare nella intestazione delle let­tere, tanto che i non-cristiani finisco­no con il prenderli in giro; ma Tertulliano risponde con non minore virulenza: « quanto al nome di "fra­telli" con cui ci chiamiamo, se li fa arrabbiare, penso che sia per questo solo motivo, che tutti i nomi di pa­rentela che essi usano non sono al­tro che una bugiarda finzione di amore. Ora è vero, noi siamo anche fratelli vostri per diritto di natura, nostra comune madre, ma è anche vero che voi siete dei cattivi fra­telli e pertanto non siete neppure uomini! Quanto più ragione abbia­mo noi di chiamare fratelli e di con­siderare fratelli quelli che riconosco­no il medesimo Dio come Padre! ».

Questo appellativo di fratello, in­fatti, lo troviamo anche nei semplici biglietti che per vari motivi i cri­stiani si scambiano. Oggi ne esistono delle raccolte — compilate da C. Wessely (Patrologia Orientale voll. 4 e 18) e da G. Ghedini (Lettere cri­stiane dai papiri greci del III e IV secolo, Milano, 1923) dove si viene a sapere ad esempio che il prete Psenosiri raccomanda ai becchini del­la Grande Oasi, fratelli nel Signore, la salma di una donna; oppure che un certo Giustino chiede di essere ricordato dal santo abate Pafnuzio nelle sue preghiere; o ancora che una romana prima di imbarcarsi per Alessandria scrive a degli amici di Faiyum in Egitto per sapere se lì potrà in qualche modo mantenersi.

Ma come funzionava la posta? Sappiamo che S. Cipriano aveva dei lettori e teneva corrispondenza, ol­tre che con tutte le chiese dell'Afri­ca, con cristiani della Gallia, della Spagna, della Cappadocia, senza con­tare Roma e le altre comunità ita­liane. S. Girolamo non è da meno. Mentre il primo li sostiene e inco­raggia durante le persecuzioni, il secondo li nutre di Sacra Scrittura, dà consigli spirituali, morali e peda­gogici e li mette in guardia contro le idee ereticali che spuntano qua e là.

Eppure la Posta ufficiale dell'Im­pero non si incaricava affatto della corrispondenza privata. Questa vie­ne affidata a viaggiatori di ogni ge­nere, turisti, pellegrini, commercianti che fanno la spola tra Roma e le province, toccando tutti i porti del Mediterraneo; ma si conosce il pe­ricolo che correva questa corrispon­denza che spesso non giungeva a de­stinazione o poteva essere recapitata magari dopo due anni o più. E' eloquente a riguardo questo brano di Agostino a Girolamo: « Sono già due lettere che ti ho scritto, ma poi­ché non ho ricevuto neanche un cenno di risposta, ho deciso di ri­mandartele ancora, le stesse, perché sono convinto che non ti sono giun­te. Ma nel caso che tu le avessi ricevute, e siano invece le tue, come può darsi, che non ce l'hanno fatta a raggiungermi... ».

Altro pericolo che correva la cor­rispondenza era quello di venire in­tercettata (quando si trattava di con­troversie teologiche), falsificata e dif­fusa. Sono noti i casi di questo ge­nere nella controversia origenista, e pertanto giustificate le riserve dei destinatari quando non erano certi di ricevere l'originale. In questo contesto si capiscono certe posizioni prese da Girolamo che ad esempio scrive ad Agostino: « Qui sono giunte delle copie di una certa let­tera... lo stile e il modo di ragiona­re, è vero, mi sembrano tuoi, però non ho ritenuto bene prestar fede imprudentemente a delle copie... Se la lettera è tua fammelo sapere chia­ramente... ».

Fu per questo che si presero prov­vedimenti onde assicurare il recapito delle lettere: furono ingaggiati co­me postini (tabelloni), persone del clero. Cipriano ordina appositamen­te lettori e suddiaconi col compito di portare la corrispondenza a Ro­ma; Papa Damaso affida le sue let­tere ad un diacono, mentre la Curia Romana trasmette le lettere a Ci­priano tramite suddiaconi.

E' un capitolo, questo, molto interessante della vita dei primi se­coli del cristianesimo. Ma il fatto è, comunque, che anche la corrispon­denza privata dei cristiani (per quan­to ce ne rimanga relativamente poca), oltre a farci vedere quale comunione esistesse fra loro nei primi secoli, co­stituisce oggi un'imponente documen­tazione della rivoluzione religiosa e sociale che essi sono stati capaci di compiere in un mondo totalmente estraneo e avverso.

Silvano Cola