Comunicazione e solidarietà
nella
Chiesa dei Padri
La situazione della Chiesa dei primi secoli
era quella della « diaspora ».
Era quindi d'importanza vitale lo sforzo delle singole comunità di
tenersi collegate tra di loro, per condividere gioie e
sofferenze. Ma ciò, oltre ad essere una reazione necessaria per
sopravvivere, era anche e soprattutto attuazione
spontanea della natura stessa della Chiesa, della sua unità e
della sua carità cioè. Ecco a proposito un brano di Tertulliano:
«
Cosi le Chiese, per quanto numerose e varie, non sono altro che quella Chiesa
primitiva degli Apostoli dalla quale provengono tutte. Pertanto, essendo una,
sono tutte primitive ed apostoliche, e perciò tra di
loro si scambiano la pace, si chiamano col nome di sorelle e si accolgono
luna l'altra con ospitalità ». (Tertulliano, De
praescriptionibus. 20; ML 2, 32).
Ad un caso concreto si riferiscono alcuni
passi dell'epistolario di S. Ignazio d'Antiochia. Egli, avendo
dovuto partire per Roma, si era lasciato alle spalle la propria comunità in un momento di crisi e ne aveva informato
alcune delle Chiese vicine, raccomandando la sorella sofferente alle loro
preghiere (cfr. ad Eph. 21,
1; ad Magn. 14; ad Trall. 13, 1; MG 5,
661.673.684). Ora, che la pace è ristabilita, egli invita le altre
comunità ad unirsi in gratitudine e gioia alla Chiesa antiochena rinfrancata
(cfr. oltre al brano riportato: ad Phil.
10; ad Polyc. 7-8; MG 5,
836-837.869-872):
«
Perché dunque la vostra opera sia perfetta in terra ed in cielo,
sarebbe bene che, per onore di Dio, la vostra Chiesa scegliesse un suo
rappresentante sacro e lo mandasse in Siria per gioire con loro del fatto che
il loro "corpo" è ristabilito. Mi è sembrato infatti una cosa degna che mandaste qualcuno con una
lettera per lodare Dio assieme a loro per la pace che, con la grazia di Dio, hanno
ritrovato e per aver raggiunto, con l'aiuto delle vostre preghiere, il porto
sicuro che è Cristo». (S. Ignazio
d'Antiochia, Ad Smyrnaeos.
11; MG 5, 856).
Un altro esempio ce lo
offre la lettera che Cipriano, il vescovo di Cartagine,
manda ai vescovi della Numidia assieme ai fondi
raccolti nella Chiesa cartaginese per i cristiani numidiani catturati da bande
di ladri:
«
Con tanto dolore nell'anima e con le lacrime agli occhi abbiamo letto,
carissimi fratelli, le vostre lettere nelle quali, spinti dal vostro amore, ci
avete fatto sapere che i nostri fratelli e le nostre sorelle sono stati
catturati. Chi è che non soffre in casi del genere e che non fa proprio
il dolore del fratello, come dice l'Apostolo Paolo: "se un membro patisce, allora anche tutti gli altri
patiscono con esso, e se uno di essi gioisce, anche tutti gli altri
gioiscono"? (1. Cor. 12, 26). E altrove: "chi
è debole che non lo sia anch'io, e chi subisce un torto che non ne
soffra anch'io?" (2. Cor. 11, 29). Per cui dobbiamo ritenere che
con i nostri fratelli catturati siamo catturati anche noi, e che il loro
patire e il pericolo che corrono siano anche pericolo e patire nostro. Il corpo
della nostra unità infatti è uno solo, e
sia l'amore che la fede debbono spingerci e darci forza per liberare quelle
membra che sono i nostri fratelli catturati ». (Cipriano, Epistola 60, 1; ML 4, 360).
A cura di Felix Heinzer