Intervista in un seminario romano: integrazione di
gnosi e agape
Lo studio della
teologia gioca un ruolo fondamentale nella vita di un seminarista, non solo
perché
rappresenta un campo nel quale sarà chiamato ad avere una specifica
competenza, ma più ancora, direi, perché occupandone gran parte
del tempo sembra fare la parte del leone nella sua maturazione.
Teologia non è sinonimo di sapienza, tuttavia è innegabile che nel fondo di
chi vive questo momento c'è una profonda tensione a valicare, nello
studio, il piano delle pure nozioni per integrarlo in una conoscenza personale,
anche se in veste sistematica, di Dio. Esigenza questa più o meno
manifesta, anche se poi i tentativi di raro attingono i risultati sperati.
Ho cercato di
rendermi conto di come stanno in proposito le cose in una conversazione di due
ore con alcuni amici di uno dei seminati romani.
Sulla scorta di
ricordi personali, ho esordito riportando una situazione che a volte si
coglie in tanti studenti: il desiderio cioè di finire al più presto la
teologia, con l'ansia quasi di uscire da un mondo in cui si perde tempo.
Mi hanno subito fermato e il tono delle risposte suonava: « Non
me la sento di condividere simile generalizzazione; direi anzi che la nuova
generazione manifesta sempre più di anno in anno l'esigenza di dare
più profondità e maggior spazio allo studio. Se c'è
noia non è nei confronti della teologia in
quanto tale, ma di un accademismo nella teologia
».
Mi è piaciuta questa
difesa appassionata, anche se poi, accanto a questo atteggiamento ideale,
prendevano corpo pian piano altre riserve. Si è partiti prima
da una ventilata critica alla impostazione generale nei piani di studio, poi a
rivendicare una presenza più significativa di materie bibliche, poi
a situazioni personali: « Sono entrato in seminario a 23 anni, dopo aver
vissuto alcuni anni come marinaio. Ho affrontato la teologia anche per cercare
risposte a delle esigenze che avevo avvertito prima, nel mio ambiente, e
qualcosa ho trovato ». Un altro: « In liceo lo studio mi
appassionava per i suoi contenuti. C'era al centro l'uomo, ed io mi sentivo
personalmente coinvolto; in teologia non di raro ho avuto l'impressione di
ascoltare predichette ». Situazione ribadita
pure da un altro, che studia ora teologia dopo aver conseguito una laurea in
filosofia: « Sotto il profilo dell'uomo l'esperienza di filosofia
è stata fino ad ora insuperabile... La
teologia mi è servita più per l'incontro di preghiera ».
Dato il tono
della conversazione, ho chiesto allora ad essi non tanto
un concetto tecnico di teologia, ma l'anima, le aspettative profonde con
le quali si erano impegnati in questo studio.
Il discorso si è fatto ancora
più personale. In pratica affermavano tutti con energia che la teologia
è sì uno studio su Dio, ma che, proprio per questo, deve
coinvolgere direttamente, mettere in crisi e portare a una esperienza,
cercata e voluta. Avevo comunque l'impressione che, al momento di precisare
meglio questa esperienza, il discorso si facesse duro e astratto, e i problemi
si complicassero. Uno era più esplicito: « E' difficile trovare
Dio sui manuali o nei trattati. Mi aiutano di più gli autori nei
quali sento una vita: S. Giovanni della Croce ad esempio, Carretto, Merton. Anche i teologi, certo, ma quelli dove sento
che la profondità scientifica è carica di un qualcosa d'altro,
vedi Tommaso, Agostino ».
Mi è sembrato questo il
momento di muovere un interrogativo critico
ad alcuni interventi che già avevano fatto. Avevano rilevato come
il seminario sia un luogo di passaggio, sottolineando di preferenza le
comunità locali da cui vengono come il luogo che meglio aiuterebbe
a integrare con la vita lo studio teologico. Ho detto loro: « Se per
teologia intendete uno studio su Dio, nel quale il momento della conoscenza
critica non sia staccato dalla vita, non vi sembra che il seminario debba essere
maggiormente valorizzato come luogo per una esperienza
teologica? Non c'è il pericolo di puntare troppo sulle
comunità locali e di perdere una occasione concreta
per fare ora, con le persone con cui siete chiamati a vivere, una esperienza di
Dio?».
Questo mi è sembrato il punto
critico della discussione, e mi riesce un po' difficile riportare con
fedeltà il dialogo, poiché si era fatto frammentario; mi sembrava
di percepire più che una posizione chiara (una soluzione interiorizzata
del problema) dei desideri che tradivano Qualcosa che li superava.
Esigenze profonde, una buona volontà provata dalla sofferenza, ma dove
ti accorgi che manca qualcosa.
Ecco alcuni
interventi: «
Per esperienza personale non è tanto lo studio che
mi mette in crisi, quanto accorgermi di vivere assieme ad altri senza che
questa vita trovi uno sviluppo adeguato. Eppure la capacità di offrire durante
gli anni di studio un ambiente speciale in cui, con l'aiuto di compagni e
superiori, gli studi vengano filtrati e
incarnati, potrebbe essere un punto a favore del seminario ».
« Anche nel seminario si possono costruire dei rapporti, una vita
comunitaria è più o meno possibile, anche un confronto, ma
limitatamente rispetto a quello che potrebbe avvenire fuori ».
Avevo
l'impressione che un'esigenza vera, quella di avere alla base dei propri
studi un'esperienza cristiana filtrata nel suo luogo naturale che è la comunità
locale, finisse per impoverire ulteriormente quelle possibilità che
il seminario, luogo di passaggio momentaneo,
può dare, creando una tensione che non permette di vivere bene
né qui, né là. E questa mi è sembrata la sofferenza
più grossa — che non era tuttavia colta coscientemente
—: l'esigenza, profonda di passare dal Dio dei concetti
al Verbo di Vita che è la Luce degli uomini. Però con delle
profonde intuizioni: « E' necessaria una comunità di
credenti, con il loro Dio in mezzo a loro, perché solo questo
può illuminare e rendere vitale ciò che studio sul manuale.
Il seminario deve essere espressione di una comunità più ampia,
se no rimane una forma di compromesso ».
Per finire
vorrei fare un rilievo. Forse mai come oggi si sottolinea il rapporto inscindibile
che deve legare «
gnosi » e « agape »; si parla
di amore, di comunità, di armonia tra teoria e esperienza vitale.
Eppure rimane l'impressione che queste realtà — le più
vitali che esistano —, continuino a loro volta a restare mera teoria, e
che lo spacco tra pensiero e vita continui, aggravato però dal
« questo già si sa» che, strano ma vero, ostacola
il passaggio alla vita, quella spicciola, giornaliera, delle grandi e piccole
cose, vissute ora, qui, nella normalità del soprannaturale senza
del quale la vita cristiana è ridotta a ben povero surrogato.
Luigi Bonazzi