cronaca interiore

di Pino Petrocchi

 

E' 'un tempo ricco questo. Mai come adesso ho sentito il fascino della Sapienza e la sua voce miste­riosa risuonare dentro di me. Possedere la Sapienza, ecco quello che conta. Tutto il resto mi sembra come vetro colorato di fronte ad un diamante. « Anzi, fosse pure uno il più perfetto tra gli uomini, senza la Sapienza, che viene da Te, non vale niente » (Sap. 9, 6). Una frase della Scrittura si è fissata come un chiodo nell'anima, e mi ap­pare come il programma della mia esistenza: la mia « parola di vita »: « l'amai più della salute e della bellezza, e la preferii alla luce del sole» (Sap. 7, 10).

Mi metto a pensare all'immensi­tà del sapere: penso ai milioni di libri che contengono tesori di verità e che bisognerebbe conoscere. Pen­so a tutto il tempo che dovrei de­dicare alla meditazione, alla pre­ghiera, al silenzio. E la mia gior­nata, la mia vita mi sembrano tre­mendamente brevi. Mi sono doman­dato tante volte, e adesso torno a richiedermelo, se coloro che hanno

scelto la solitudine e la riflessione non sono i veri « furbi », quelli che hanno preso la parte migliore.

Certamente in un posto tranquillo e isolato non mi troverei così espo­sto al contatto con gli altri, come mi capita qui. Poco fa è venuto Felix. C'era un articolo da cor­reggere insieme: un pomeriggio in­tero se ne è andato. Poi è stato il turno di Luigi. E' già la terza volta che mi viene a chiamare per rivedere le bozze di Gen's e per bat­terle a macchina, e ogni volta sono ore che volano.

Quello che mi pesa di più è che non riesco a superare l'impressione profonda, indistinta, di « perdere tempo » tutte le volte che non me ne sto in camera a pensare e a stu­diare. Ho un bel ripetermi che le cose che sto facendo hanno un va­lore, sono importanti: mi rimane sempre come sottofondo quella sen­sazione sorda, « viscerale », che sa­rebbe stato meglio se...

Pazienza se queste cose capitas­sero una volta ogni tanto: il fatto è che la vita di comunità sembra fatta apposta per mangiare tempo. Fino ad ora ho tirato avanti perché capivo che era Dio a chiedermelo. Tu lo vuoi? Va bene, mi sforzo di farlo. Certo — mi dicevo — debbo rinunciare alla Sapienza, ma sono contento di perderla per Te.

Adesso l'asse del problema si è spostato: mi domando se è pro­prio volontà di Dio che io faccia questo, che stia qui. A complicare la situazione c'è il fatto che, nono­stante tutto, mi sembra che alla base non ci siano confusioni d'idee e desiderio di evasione. Ho abba­stanza chiara la distinzione tra la Sapienza che è dono dello Spi­rito Santo e la scienza, frutto del­l'uomo. La prima porta all'unione con Dio, invece la scienza umana, se si chiude in se stessa, « gon­fia di orgoglio» (1 Cor. 8, 1), ed è sterile dal momento che « a com­porre libri non si finirebbe e il troppo studiare stanca il corpo » (Eccle. 12, 12). No, non è questo tipo di scienza che cerco, ma la Luce, che è Dio, cioè Amore, e che non può non irradiarsi e co­municarsi ai fratelli.

Quel po' che ho vissuto della spi­ritualità del Movimento dei Foco­lari è bastato a stamparmi molto bene dentro che non c'è conoscen­za dove non c'è amore, e non c'è amore dove non c'è croce.

Per questo la Sapienza, che è Gesù, si può ricercare solo nella partecipazione al suo Mistero Pa­squale e nella comunione con i fratelli, perché li è presente Lui, Via, Verità e Vita. In altre parole è necessario passare attraverso Ge­sù Abbandonato per arrivare a Gesù Risorto, « nel quale sono na­scosti tutti i tesori della Sapienza e della scienza » (Col. 2, 2-3).

Queste riflessioni mi aiutano ad impostare bene il problema, ma non lo risolvono. È' chiaro che per ottenere la Sapienza debbo amare Dio, attraverso Gesù Abban­donato, nei miei fratelli. Ma è altret­tanto chiaro che la meditazione e lo studio, dimensioni essenziali in questa ricerca, richiedono una struttura e un ambiente adatti. Al­lora, Signore: vuoi che ricerchi la Sapienza in modo totale o vuoi che resti qui e mi accontenti di quello che riesco a raccogliere?

La prima cosa da fare è render­mi libero, cioè essere pronto a fare qualsiasi cosa Dio mi chieda. Solo cosi posso mettermi davanti a Lui e parlargli a quattr'occhi. Ma non basta. Debbo anche donare tutto quello che sento nell'unità coi miei fratelli, perché da Gesù in mezzo a noi scaturisce la risposta. Prendo a volo un'occasione che mi capita e con la scusa di parlare un po' in tedesco blocco Felix, che è il re­sponsabile della nostra comunità, e apro il sacco. Parlare con chia­rezza non mi è difficile, quello che mi costa è parlare con distacco. La buona volontà c'è, però non ce la faccio a tappare la bocca all'uo­mo vecchio che, sotto sotto, con­tinua a ripetermi che Felix ha un carattere diverso dal mio. E se lui mi dicesse il contrario di quello che penso, che faccio? Mi accorgo che credere nell'unità quando ci vado di mezzo in prima persona è molto duro. Qui è questione di prendere in mano la situazione e con una spinta dall'Alto fare un un passo a forza di volontà: non prenderò nessuna decisione, fosse anche la più saggia di questo mon­do, che non sia in piena unità con i miei compagni e con Felix in particolare. Mi torna in mente la frase di Chiara Lubich: « è meglio il meno perfetto in unità che il più perfetto nella disunità ».

E' assurdo cercare la luce rom­pendo la comunione, che è di fatto l'unica fonte che me la garantisce.

L'ora del pranzo è arrivata; ab­biamo parlato poco. Non è uscito niente che ribaltasse i termini di ciò che pensavo e, a dire il vero, ne sono contento. Però il passo ero pronto a farlo e questo è quello che conta. Durante il colloquio sono scaturite tantissime cose belle, ma nessuna, mi sembra, ha dato una risposta definitiva all'interro­gativo di fondo: il problema, per­ciò, resta. Tuttavia mi sento libero, non solo perché ho avvertito l'a­more di Felix, ma anche perché so di aver imbroccato la strada giusta. La luce verrà: questo è sicuro. Dio sa quando, ma verrà. Basta perdere la preoccupazione e continuare a credere e ad amare.

La Bibbia, che sto leggendo più spesso e con più attenzione, mi ha indicato pian piano un altro « dove » e un altro « come » nella ricerca della Sapienza. San Paolo a forza di martellarmi con lo scan­dalo della croce ha finito per apri­re una breccia nella mia anima: « Cristo crocifisso... potenza di Dio e Sapienza di Dio. Perché la follia di Dio è più sapiente degli uo­mini... » (1 Cor. 1, 23-25). Per que­sto, se qualcuno cerca la Verità, « diventi stolto per divenire sa­piente. Perché la sapienza di que­sto mondo è stoltezza davanti a Dio» (1 Cor. 3, 18-19).

Intuisco che c'è una Sapienza della pienezza, che consiste nel pos­sedere la Luce di Dio, e una Sa­pienza del buio e del non-essere, che è nell'aver saputo perdere la luce di Dio per il Dio della luce. La Sapienza della Risurrezione ha un'altra faccia nella Sapienza del­la Morte: cioè nella follia della croce. Gesù Crocifisso e Abbando­nato, allora, non è solo il mezzo per raggiungere la Sapienza: Egli è la Sapienza. Una Sapienza miste­riosa, scandalosa per quella uma­na: è la Sapienza del non-sapere, la luce del non-vedere, la pienezza del nulla, perché Amore. Il mistero del Dio uno e trino non si rag­giunse solo attraverso la croce, ma è nella croce, forse si potrebbe di­re: è la croce.

A questo punto i miei pensieri si perdono; posso intuire, ma senza capire. Mi è apparso evidente però che la risposta devo cercarla proprio lì, in quel Crocifisso che mi sta sempre davanti agli occhi e che spesso mi è infinitamente lontano. La verità è che mi fa paura, perché mi mette di fronte senza aneste­tici alle esigenze radicali dell'amo­re. Ora non mi sembra più esage­rata l'insistenza dei santi sul loro nulla e sulla fiducia incondizionata nello Spirito Santo.

Cosi mi è stata offerta la chiave per sbrogliare la mia situazione. Sento la vocazione alla Sapienza e debbo amarla più della salute e della bellezza, e preferirla alla luce del sole.

Certo esiste una Sapienza che esige un sapere, cioè un bagaglio di nozioni, una cultura, una teolo­gia intesa anche come scienza. Il che implica lo studio, un ambiente, una preparazione. Essa, perciò, non è aperta a tutti: è un carisma par­ticolare che Dio suscita nella sua Chiesa (cfr. 1 Cor. 12, 28). Ma c'è una Sapienza come capire, che non comporta necessariamente il sapere: essa è aperta a tutti i puri di cuore, ai semplici, a coloro che amano Dio nella croce. E' la Sa­pienza di quelli che vivono Gesù Abbandonato e che in Lui penetra­no il mistero di Dio. I santi e i mistici ne sono prove viventi.

Non so attualmente se Dio mi chiami anche a quel primo tipo di Sapienza, ma so con sicurezza che adesso mi chiede di capirLo, e quindi di cercarLo nello scandalo del crocifisso. Le conseguenze sono evidenti e formano un progamma troppo pesante per le mie spalle; ma con l'aiuto dello Spirito Santo debbo sforzarmi di portarlo avanti giorno per giorno.

Significa cercare la pace nella sofferenza che il momento presen­te mi offre, la concentrazione in tutte le inevitabili distrazioni della vita in comune, la luce nel buio del non capire, i momenti più belli proprio nel « perdere tempo » per Lui.

In una parola: la Sapienza è Gesù Abbandonato e Dio mi invita ad amarLo « più della salute, più della bellezza, più della luce di Dio ».

Per questo Maria, la Desolata, l'umile, colei che forse sapeva poco, ma che ha capito Dio più di ogni altra creatura, è stata proclamata « Sedes Sapientiae ».

Pino Petrocchi