VITA GEN'S
Officina: occasione per amare
Quando Sergio ed io siamo
partiti per la Germania, sapevamo che ci attendeva un mese e mezzo circa
di lavoro nelle fabbriche della Opel. Anche se non
conoscevamo l'ambiente in cui ci saremmo trovati, chiedemmo insieme a Dio
di aiutarci a testimoniarlo in quel mondo nuovo che ci attendeva.
Le prime difficoltà di carattere burocratico cui dovemmo far fronte
per essere assunti, ci resero subito nervosi, suscettibili e preoccupati.
Capimmo però che tutto ciò non doveva essere un ostacolo per
amare e cercammo così di preoccuparci anzitutto dei problemi delle
persone che, come noi, erano state afferrate dalla macchina burocratica,
mettendo a disposizione la nostra « 500 » per spostarsi da un
ufficio all'altro.
Quando finalmente ci rechiamo per la prima
volta al reparto presse dove eravamo stati assegnati, ci dicono che
dobbiamo lavorare in turni diversi. La cosa era molto disagevole: per
Sergio si trattava di alzarsi alle tre del
mattino, e per me che non parlavo il tedesco — contavo per questo sull'aiuto di Sergio
—, significava trovarmi in un mondo nel quale mi era impossibile
comunicare. Una situazione imprevista che tuttavia non ci disorientò.
In fondo anche questo era un modo particolare col quale Dio ci amava, e
sapevamo che l'essere nella sua volontà ci
univa ben più della vicinanza fisica. Misi la mia auto al servizio di
altri colleghi spagnoli che facevano il mio turno e quella diventò
la mia nuova comunità per 15 giorni.
Sergio non lo vedevo mai, perché quando uno si alzava l'altro dormiva e
viceversa.
Sul lavoro la tentazione era di fuggire i
posti dove la fatica era più estenuante, ma
soprattutto mi costava cedere il posto a un altro che faceva un lavoro
più pesante. Quando però ci riuscivo notavo che attorno nasceva
uno spirito di solidarietà, fatto di
piccole delicatezze che mai mi sarei aspettato in uomini così rudi.
Anche altri cedevano il proprio posto: così si stabiliva pian piano una
rotazione nei posti più duri e, al tempo stesso, si
rompeva la monotonia di un lavoro ripetuto per 8 ore. Nelle pause,
mentre si fumava una sigaretta, a volte qualcuno, pur tra il rumore delle
presse, mi raccontava qualcosa della sua famiglia lontana.
Uno dei bocconi più duri da masticare era il rapporto con un
ispettore di produzione dal fare molto brusco, qualche
volta altezzoso. Decisi di rompere il ghiaccio anche con lui. Lo salutavo quando lo incontravo e cercavo di stare attento
al suo modo di dare istruzioni fatto unicamente di segni, anche se questo
portava un po' di disagio nel mio lavoro; soprattutto mi sforzavo di non
giudicarlo quando mi faceva fare un doppio lavoro.
Uno dei giorni più difficili fu quello trascorso in una «
catena » che mi costringeva a una velocità di lavoro eccessiva.
Non ce la facevo proprio a smaltire tutti i pezzi ed ero costretto ad
ammucchiarli in terra in attesa di poterli rifinire durante
le pause, naturalmente con doppia fatica. Chiaro che dopo due ore di lavoro in
queste condizioni avevo un diavolo per capello, e una gran voglia di lavorare
male, di fermare volutamente la linea. Dovevo superarmi. Ci provai, anche per non pesare su
quelli che lavoravano nella catena successiva.
Pur nella residenza che ci avevano
assegnato a 15 km. dalla fabbrica l'ambiente era difficile. C'erano
molti emigrati spagnoli, persone lontane per anni dalle famiglie, costrette
oltre che a lavorare, a cucinarsi ogni giorno o il pranzo o la cena, a
lavarsi gli indumenti, in un paese che in fondo li accoglie
sempre come stranieri e che quindi volere o no li emargina. Succedeva
spesso, durante la notte, di essere svegliati dalla melodia di qualcuno che, un
po' brillo, si metteva a cantare nei corridoi. Inoltre la casa poco
pulita e i servizi in comune aumentavano i disagi. Ma tutto doveva
diventare occasione per farsi uno con loro.
La risposta degli altri non tardò a manifestarsi. Le donne di servizio, ad
esempio, notarono lo sforzo che facevamo per tenere in ordine la camera e
ricambiavano con tante piccole delicatezze. Anche il padrone di casa
e un signore tedesco che lo aiutava cominciarono a intrattenersi
volentieri con noi; quest'ultimo ogni giorno ci
regalava il giornale con i risultati delle Olimpiadi e il giorno della
partenza ci invitò a cena a casa sua.
Dopo due settimane ci fu finalmente concesso di lavorare entrambi nello stesso turno.
L'esperienza precedente ci aveva lavorati, ed ora diventava più facile affrontare la routine della fabbrica. Ci
accorgemmo che la presenza di uno accanto all'altro sul lavoro era uno
stimolo di più a donarci e a rendere più vero il rapporto tra di noi, con gli altri e con Dio.
Roberto e Sergio di Torino
Muoversi in armonia
Quando sono arrivato a Roma, dove sto ultimando i miei
studi, ho notato subito che Paco dirigendosi alla nostra casa, imboccava una
strada nuova. Sta a vedere — mi dico — che
è in corso un altro trasloco. Infatti avevo
azzeccato e cosi il tris di spostamenti già operati nel giro di un anno
diventava un poker. Incontrare gli amici con cui vivo, dopo la parentesi
delle vacanze, è stata una festa; la prospettiva di passare un
altro anno insieme ci sembrava veramente un grosso regalo.
E giù
subito al lavoro: il giornale di novembre, già in ritardo, aspettava
di essere sistemato; di tanto in tanto si dava qualche tocco al trambusto
che ancora regnava nella casa, e poi c'era anche l'università che
iniziava, le prime lezioni da non perdere.
Un accavallarsi di
impegni, ognuno con le sue giuste esigenze; ma intanto la casa dopo una
prima provvisoria sistemazione rimaneva disarmonica, fredda:
affrettata la sistemazione dei mobili nelle stanze; libri e roba
personale ancora accatastati; la polvere a regnare un po' dovunque. Non che non fosse avvertito
il disagio di questo stato di cose, ma un po' altri lavori collaterali, più ancora quel pizzico di eccessiva prevalenza
che portiamo dentro per lo studio, ci facevano chiudere un occhio.
Così
per i primi giorni.
Alla sera di una domenica — era stata una giornata ricca di incontri con
varie persone, e per noi di luce su alcuni aspetti della nostra vita di
quest'anno — Paco, dandomi la buona notte, mi chiede cosa pensavo di
fare il giorno dopo. « All'università
» gli dico con tutta sicurezza. Lui
annuisce. ma mi sembra che qualcosa non vada.
Sono momenti belli, se si sanno cogliere,
questi in cui avverti che la tua libertà
non sembra realizzare una unità piena con l'altro.
E' un segnale di allarme. Infatti ci viene spontaneo
di sederci tutti un momento con Felix, Paco, Vincenzo, Pino ed io, e si
ascolta Paco. Il suo è un discorso semplice: « Volevo dirvi che
con la casa in questo stato io non mi ci ritrovo. Non riesco a trovare il clima
per fare qualcosa». E si fa tutti un passo, si
capisce che l'esigenza di dare armonia alla nostra vita esteriore,
all'ambiente in cui viviamo, ha priorità su altri impegni, e si
spostano i propri personali programmi. Quella sera però,
più che il senso di aver perso qualcosa, rimaneva forte la gioia di un
momento di vita di unità assaporata.
E il giorno dopo tutti
all'opera: pareti e porte da pitturare, il pavimento da ripulire; anche nelle
stanze si cerca quella sistemazione che esprima clima di famiglia. Ci si
aiuta sui colori da scegliere, sui mobili da collocare. Dopo alcuni giorni ci
si sente già meglio, e la casa va acquistando
atmosfera di focolare.
Ma il bello è che mentre andiamo mettendo ordine alla casa, anche tra di noi, proprio per questo lavoro, si realizza un
nuovo e più profondo ordine. Non ci sentiamo degli automi nel dipingere
un muro: anche nel lavoro sentiamo che dobbiamo prima di tutto essere in
armonia, muoverci a corpo. E sono tante le occasioni per stemperarci, tanti i
momenti in cui, anche se non senza fatica, si fa più reale tra noi
l'amore che diventa comunione.
Ultimiamo i lavori con una impressione
di fondo: l'attenzione ad un aspetto della nostra vita che ridonda in
pienezza su tutta essa.
Luigi Bonazzi