Per rendere più bella la Chiesa

crescere verso l'uno

 

Già nella cultura greca la vita socia­le viene paragonata a quella di un corpo. E, come in un organismo, le nostre relazioni interpersonali posso­no crescere sane e armoniche, oppure ammalarsi e morire. Le cause che pos­sono infettare il nostro vivere insie­me sono molte, ed in genere la dia­gnosi e la terapia non sono facili. Tut­tavia si può stabilire un principio chia­ve: le radici del malessere e della di­sarmonia che colpiscono i nostri rap­porti sono sempre nella persona. « E' dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, che escono i pensieri cattivi, fornicazioni... invidia, maldi­cenza, orgoglio, stoltezza » (Me. 7, 21). Appare chiaro pertanto che fino a quando la persona «non è consape­vole di queste forze, gli stessi con­flitti non potranno essere intenzio­nalmente risolti » '. Perciò la scintilla che dà inizio ad ogni vera trasforma­zione comunitaria scocca solo quando « ci si rende conto sempre di più che i problemi esistono all'interno del sé, invece che all'esterno, e che si è diret­tamente responsabili della loro esi­stenza »2. Il primo passo per cam­biare il proprio ambiente è cambiarsi.

 

L'inflazione psicologica

E' l'inflazione psicologica — se possiamo chiamarla così — la causa dei frequenti « corto-circuiti » che tol­gono energia e luce ai rapporti inter­personali.

Applicato alla persona significa un uscire dai propri limiti, uno straripa­re al di là di ciò che realmente si è; perciò provoca sempre una frattura con sé stessi e con gli altri.

L'inflazione ha mille facce e tutte diverse; è impossibile, di conseguenza, fotografarle una ad una. Segnaliamo solo alcune forme macroscopiche, re­sponsabili delle malattie più comuni e gravi che colpiscono il nostro corpo sociale.

L'humus nel quale l'inflazione si genera e si sviluppa è unico: la non-accettaztone di sé. Si rifiutano e si rimuovono i limiti, le zone oscure, il vuoto del proprio essere. Alla base c'è una paura immensa; paura di non essere amato e di venire respinto: per questo si vuole apparire perfetti a tutti i costi.

L'evasione dal reale, che è sempre in « bianco e nero », e l'identificazio­ne con un'immagine falsa di sé, co­struita da se stesso o imposta da al­tri, ne sono la conseguenza diretta. Da questo momento si incomincia a sentire il peso schiacciante di un « dover-essere» sproporzionato al nostro reale « poter-essere ». Tutto quello che facciamo viene misurato dall'io-inflazionato (in psicologia superio), su quel modello esagerato, e condannato.

Se si assomma a questo la tenden­za (per lo più inconscia) a credere che gli altri ci giudichino come noi stessi ci giudichiamo, il risultato è la con­tinua insoddisfazione, l'ansia per non aver dato quello che avremmo dovuto, il risentimento nei confronti di sé e degli altri.

 

Fare troppo

Una manifestazione tipica dell'infla­zione è la tendenza a strafare. Quando si fonde con una motivazione religio­sa diventa volontà di convenire a tut­ti i costi. Il che è molto diverso dallo zelo autentico, anche se, guardando in superficie, è facile confonderli. La differenza essenziale sta nel fatto — nel primo caso — di pretendere che gli altri accolgano e vivano il nostro proprio ideale (magari santo e vero) scavalcando così i limiti del giusto, dal momento che non si rispetta il di­ritto sacro di ogni persona alla liber­tà. Il vero apostolo invece propone, non impone mai. E di conseguenza, chi agisce in modo inflazionato entra in conflitto con se stesso e si sente in colpa tutte le volte che l'altro non ri­sponde. Accumula, in tal modo, ag­gressività, che finisce generalmente con lo scaricarsi sulle persone vicine.

 

L'inflazione «esportata»

Oggi è un fatto acquisito che ognu­no di noi tende a proiettare fuori di sé tutto l'inconscio, il negativo, il non­accettato che porta dentro. Proiezione infatti è « l'operazione con cui il sog­getto espelle da sé e localizza nell'al­tro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri... che egli non riconosce o rifiuta in sé »3. In base a questo meccanismo psicologico, una persona non realizzata, scontenta, ve­drà scontentezza in tutti e dappertutto, e sarà anche portata ad attribuire agli altri la colpa della propria crisi. E, dal momento che le cose vanno per storto, sentirà il bisogno di riformare gli altri e le strutture lasciando fuori, naturalmente, se stessa. Così giustifi­cherà la sua aggressione e continuerà inutilmente a cercare fuori di sé la causa di quel malessere che ha in sé. Un simile atteggiamento influenza ne­gativamente l'ambiente e spesso lo contagia: in questo modo il conflitto del singolo diventa sociale.

 

Il giudizio sogli altri

Può essere un altro mezzo ideale per esportare all'esterno i propri con­flitti. Il giudizio è un confronto, pre­suppone quindi un termine di para­gone. In altre parole, ogni giudizio implica sempre un modello in base al quale si stabilisce il confronto e si dice si o no. Dire, per fare un esem­pio: « questo non è rosso », presup­pone due cose: l'esistenza in me del concetto di rosso e l'assunzione di questo come unità di misura del giu­dizio. Spesso il termine di paragone delle nostre valutazioni ci appare ma­nifestamente, ma altre volte agisce senza che ce ne rendiamo conto. Il che è particolarmente frequente quan­do l'oggetto del nostro giudizio sono gli altri. Se ci mettessimo a cercare nei ripostigli dell'anima il modello dei nostri giudizi sugli altri, probabilmen­te andremmo incontro ad una amara sorpresa: cioè quella di scoprire che è fatto a nostra immagine e somiglian­za. Questo significa che il più delle volte quando diciamo « tizio è buo­no », o « è antipatico », oppure « è incapace », la misura della sua bontà, simpatia, e capacità siamo noi stessi. Di conseguenza accettiamo nell'altro quello che abbiamo accettato in noi, ma non sopportiamo in lui ciò che abbiamo rifiutato in noi. In fondo condannando l'altro condanniamo sem­pre una parte di noi stessi ritrovata in lui. Per questo quanto più grande sarà il trave nel nostro occhio tanto più implacabili saremo nel denunciare la pagliuzza in quello del fratello.

 

Amore «sotto condizione»

Si sa che amare è voler bene a qual­cuno ma, ecco il punto, è volere il suo bene reale, non quello che si è stabilito a priori come il « suo » bene. Il sistema più micidiale per formare disadattati è proprio quello di crearsi un'immagine di ciò che « l'amato »

dovrebbe essere, ed esigere che vi si adegui; il tutto con le migliori inten­zioni di questo mondo. La forza con la quale si opera questa imposizione è l'amore condizionato: « ti voglio bene se... » « hai la mia amicizia, ma... ». Quando, per paura di essere disappro­vati, non si ha la forza di rompere l'abbraccio di questo amore soffocan­te, si arriva ad adattarsi a un ruolo che non è il proprio e, prima o poi, si fa la fine del merlo che voleva imitare l'aquila.

Il vero amore è sommo rispetto. « Rispetto denota, nel vero senso del­la parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com'è, di conoscerne la vera individualità. Rispetto significa desiderare che l'al­tra persona cresca e si sviluppi per quello che è » 4. Ma ciò « è possibile solo se si è raggiunto un vero atteg­giamento di umiltà, se ci si è staccati dai sogni di onniscienza e onnipoten­za che si hanno da bambini » 5. « L'a­more è figlio della libertà » 6.

 

Umiltà

Qual è, allora, la strada verso la maturità umana e soprannaturale? « Il primo passo è l'umiltà, il secondo l'umiltà, il terzo l'umiltà e, per quan­te volte tu me lo chiedessi, ti rispon­derei lo stesso »7. Umiltà equivale a verità, cioè, coraggio di « essere ciò che veramente si è » 8. Significa perciò guardarsi in faccia senza scandalizzarsi e accettarsi radicalmente, con tutto il negativo, i limiti, il vuoto, il marcio che portiamo addosso. E questo è possibile solo quando ci convinciamo a fatti che siamo poveri e che « ogni realtà creata, poiché riceve l'essere da un altro, considerata in se stessa è nulla »9. Occorre quindi disintos­sicarsi da tutte le forme di inazione, liberarsi dalle immagini mitiche di sé e degli altri, dalla volontà di strafare, dal giudicarsi. Ma tale rivoluzione in noi stessi possiamo farla solo se cre­diamo sul serio che Dio ci ama così come siamo e se cominciamo a vive­re la libertà dei figli suoi, senza l'an­goscia di essere rifiutati, perché « non c'è paura nell'amore; al contrario, il perfetto amore caccia via la paura, perché la paura suppone un castigo, e chi teme non è arrivato alla perfe­zione nell'amore » (1 Gv. 4, 18).

 

Crescere per far crescere

Essere sé stessi è la condizione per cambiare. « E' veramente paradossale: nella misura in cui ciascuno di noi vuole essere se stesso, vede in sé e negli altri con cui è in relazione una modificazione progressiva... ciò signi­fica che se voglio facilitare la cre­scita personale di altri in relazione con me, io stesso debbo crescere e questo, pur essendo doloroso, mi ar­ricchisce »10.

Non capisce gli altri chi non si capisce; non perdona chi non si per­dona, non tollera chi non si tollera: colui che rifiuta il proprio nulla è sempre pronto a scagliare la prima pietra.

E' necessaria un'umiltà da giganti per giungere ad amare senza « se » e senza « ma », facendosi « tutto a tut­ti » (1 Cor. 9, 22), dando senza do­mandare restituzione (cfr. Lo 6, 30), rischiando senza pretendere. Non si

impone niente a nessuno se « la ra­gione per cui si ama il prossimo è Dio: infatti, ciò che noi dobbiamo amare nel prossimo è che egli sia in Dio » ».

Ma proprio quando ci accettiamo e amiamo scopriamo la bellezza di ma­turare e di vedere la realtà con occhi nuovi. « Chi realizza in pieno se stes­so ha una capacità meravigliosa di ap­prezzare in modo sempre nuovo, fresco e ingenuo, i valori positivi della vita, accettandoli con rispetto, gioia, mera­viglia, anche quando per gli altri sono banali esperienze quotidiane»12.

 

Lentamente

Umiltà è pazienza, quindi non è né mollare le redini e lasciarsi andare, né voler realizzare tutto e subito. Si­gnifica saper aspettare poiché « l'es­senziale è il tempo opportuno, ossia il momento giusto e la debita perse­veranza »13.

Oggi pazienza è una parola che suona male alle orecchie dell'uomo mo­derno che crede di perdere tempo quando non fa le cose in fretta. L'u­miltà paziente è all'opposto della rassegnazione. Infatti esige la sapienza, perché sa che nella vita dello spirito le guerre non si vincono con una sola battaglia campale, ma con la guer­riglia.

Esige la forza e il coraggio di rial­zarsi tutte le volte che si va per ter­ra, anche sapendo che si ricadrà di nuovo dopo pochi passi. Esige infine la povertà, perché l'umiltà più gran­de è l'umiltà di sapersi non-umili; e si esprime nella piena e totale fiducia in Dio.

Chi crede concretamente che « Gesù è venuto nel mondo per salvare i pec­catori » (1 Tim. 1, 15), sperimenta « quella speranza che non delude, per­ché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spi­rito Santo elargitoci » (Rom. 5, 5).

Certo crescere così, lentamente, sen­za squilli di tromba e applausi del pubblico è duro ma meraviglioso. Non solo per la costatazione di non cre­scere mai da soli, ma specialmente per la gioia riconoscente di abbando­narsi totalmente nelle braccia di Dio-Amore.

Pino Petrocchi

1 R.S. Lazarus, Psicologia della per­sonalità, Ed. A. Martello, Milano 1970, p. 14.

2 C.R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, Ed. G. Martinelli, Firenze 1970, p. 156.

3 J. Laplanche - J.B. Pontalis, En­ciclopedia della psicanalisi, Ed. Laterza, Bari 1968, pp. 425-26.

4 Erich Fromm, L'arte di amare, Ed. Il Saggiatore, 2a ed. 1971, p. 43.

5 Ibidem, p. 152.

6 Ibidem, p. 43.

7 S. Agostino, Epist. 118, 22; ML, 442.

8 Soren Kierkegaard, The sickness unto Deatb, Princeton University Press, 1941, p. 29.

9 S. Tommaso, I-II, q. 109 a. 2 ad 2.

10 C. Rogers, op. cit., pp. 40 e 80.

11 S. Tommaso, II-II, q. 25, a. 1. 12 A.K. Maslow, Motivation and

Personality, Harper and Brothers, 1954, p. 214.

13 M. Heidegger, Einfiihrung in die Metapbysik, Tubingen, 1957, 2a ed., p. 157.