A colloquio con persone per le quali Dio non dovrebbe essere

il più sconosciuto della famiglia

di Pepe Duran y Duran

 

Oggi molto facilmente trovi sul tavolino di uno studente di teologia l'ultimo libro del teologo attuale più spinto; ma — si dice — questo ag­giornamento non sempre va di pari passo con quello della vita spirituale.

Certo, la crisi presente è una crisi spirituale, e lo si ripete continua­mente, ma forse senza approfondire il significato delle parole.

Per costatare quanto c'è di verità in questo e per cogliere in profon­dità la situazione reale che esiste nei seminari, ho voluto incontrarmi personalmente con alcuni studenti di quattro continenti.

Dalle mie conversazioni sulla loro esperienza di Dio mi sono trovato subito davanti a un panorama ab­bastanza poliforme.

Devo dire le cose come stanno: . per alcuni parlare su questo tema è come se dovessero scalare l'Imalaia, perché mai hanno comunicato ad al­tri la propria vita spirituale. C'è in­vece chi lo trova un fatto molto na­turale perché nato e cresciuto in un ambiente ormai sensibile a un tipo di vita cristiana genuina.

In tutti però c'era una certa per­plessità quando si sono trovati inter­rogati su questo aspetto.

Ho avuto l'impressione che Dio sia ancora per molti un oggetto di stu­dio, di prediche e di preghiere, ma che ancora poco ha a che fare col dinamismo della santità della perso­na e ancora meno col dinamismo della santità della comunità. Ci sono ancora di quelli per i quali parlare di spiritualità è per­dere tempo. Non sono molti; la maggior parte sente il disagio ed è in tensione verso una via d'uscita. Ma non hai la sensazione che Dio sia il più conosciuto della famiglia.

Mi diceva uno di loro:

« Siamo abituati a trattare questo argomento in modo soltanto intellet­tuale, e quasi mai ci domandiamo se la nostra vita reale corrisponde ad una vita di relazione con Dio. Il nostro atteggiamento riguardo a Dio e alla vita cristiana in generale è puramente passivo; viviamo sempre in attesa di un futuro e ci lasciamo sfuggire il presente, e allora che espe­rienza si può realizzare?

L'atteggiamento più normale è quello di lasciarsi prendere dall'ambiente in modo automatico. Così, l'unione con Dio si riduce a quei momenti che il regolamento ancora sostiene indispensabili ».

 

un mondo inferiore sconosciuto

Mi è sembrato che il passo av­venuto in questi ultimi anni da un « interiorismo » sterile ad un « esteriorismo » superficiale, ha lasciato an­cora tanti « ismi », ossia degli scom­pensi. Ognuno ignora semplicemente la vita dell'altro. Si è insieme perché si deve diventare sacerdoti, ma non per conoscersi ed andare uniti verso Dio.

Mentre esponevo i motivi del mio incontro con loro, dicevo che era ne­cessario, anche solo per alcuni mo­menti, « entrare dentro » per poter toccare quello che per ognuno è Dio.

Con soddisfazione, alla fine, tanti mi confidavano che per la prima vol­ta si erano aperti agli altri e si erano conosciuti tra di loro in quella di­mensione spirituale.

Realmente è un peccato sprecare, — perché non comunicato, — il ca­pitale più potente che abbiamo, cioè quella esperienza di Dio che costitui­sce il nostro mondo interiore. E' que­sto che si sente mancare: un clima in cui poter vivere e parlare di Dio senza forzature artificiali.

Mi raccontava a questa proposito un africano:

« Quanto a me, Dio l'ho respirato subito nella mia famiglia e posso dirlo nella mia città, per cui sono cresciuto con delle persone per le quali la vita non è altra cosa che Lui, E quando per maturare la mia vocazione al sacerdozio ho dovuto abbandonare questo ambiente, l'uni­ca cosa che ha sostenuto la mia vita interiore è stato l'impegno di rispon­dere a Dio, dato che nel seminario raramente ho potuto stabilire quél rapporto di famiglia soprannaturale che vivificherebbe anche i nostri rap­porti umani. E' per questo che desi­dero diventare sacerdote: per vivere nella comunità, perché la comunità è la comunità di Dio, e non un'altra cosa. E lì lo troverò sempre più vi­vamente ».

 

ricerca nell'abbandono

Come un bambino perso in mezzo alla folla in una fiera, si corre oggi in tutte le direzioni assetati di qualcosa che sostenga solidamente quel pezzo di edificio che ancora ci rimane.

Ho sentito delle iniziative per tut­ti i gusti, quasi che ognuno ne abbia una propria.

C'è chi concentra tutto sul fratel­lo, chi sulla preghiera di azione, o sulla libertà responsabile. Insomma, ognuno si aggrappa a quello che gli sembra più facile raggiungere o che sembra possa soddisfargli le esigenze più immediate.

Come se tutto dipendesse dallo sforzo personale e il primo atteggia­mento non dovesse essere quello di ascoltare Dio.

In tutti c'è insoddisfazione. Ma non si riesce a trovare una via di uscita sapendo accettare la difficoltà della situazione attuale.

 

la croce della resurrezione

Ho visto dei seminaristi che già cercano di percorrere questa strada e la fiducia che li muove fa presagire tempi di autenticità. Anche attraver­so i contatti avuti con loro mi sono convinto che non ci resta che una cosa da fare: prendere la croce come ci si presenta e con questa farci santi. La crisi trova il suo significato più profondo se sappiamo renderla oc­casione di un amore più forte; se facendo leva sul « nulla » in cui ci troviamo e fissando lo sguardo in Dio cominciamo anche noi a toccare con mano che è Lui che ci unisce, e che le diverse idee e attività trovano in Lui un punto di incontro comune. Questo punto di incontro, che è l'amore alla croce, ci aprirà ad una vita di comunione, dove Dio ha a che vedere con tutto, illumina tutto, tanto il cammino personale come i diversi momenti della vita comuni­taria.

Dio ci vuole santi, prima di ogni altra cosa. Ci dice la Scrittura: « è volontà di Dio la vostra santificazio­ne » (1 Tess. 4, 3). A questo deve mirare la vita del cristiano, e pertanto questo è l'impegno primario di quelli che compongono le comunità dei se­minari.

Però, la santità passa per la cro­ce, e questo mi pare che l'abbiamo dimenticato quasi totalmente.

Abbiamo perso nei nostri rappor­ti quotidiani la dinamicità di quella dialettica « morte-risurrezione » che unicamente può dare senso alla vita e risolvere i problemi che attualmen­te ci prendono.

Mai come oggi tutti cerchiamo nei seminari una impostazione degli stu­di e della vita spirituale che ci fac­cia giungere ad una formazione inte­grale. Cerchiamo di non trascurare tutti gli ultimi sviluppi della psico­logia, della dinamica interpersonale, dello sport... ma raramente si tocca il Cristo crocifisso e risorto come fonte di sapienza e pienezza di ogni studente. Eppure il Concilio ce l'ha ricordato: « vivano il Mistero Pa­squale di Cristo in modo da sapervi iniziare un giorno il popolo che sarà loro affidato » (Optatam totius, 8).

Non bisogna quindi fare grandi programmi. E' necessario soltanto an­dare diritti alla croce, a quella croce che in questi momenti ci angustia e, di lì, rivedere tutta la nostra vita, senza fare dei drammi.

Allora ci accorgeremo che quanto più intensamente ameremo gli altri più ci sentiremo uniti con Dio e con tutti. E Gesù crocifisso sarà il centro di attrazione e di irradiazione. Abiteremo nel paese della croce che ci farà un giorno compartecipi defi­nitivamente della vita trinitaria.

Non c'è altra via che quella di vivere il Vangelo come è. E il Van­gelo non prescinde della croce.