interiorità
Parola che mette paura. Oppure tacciata di
oscurantismo quasi che fosse sinonimo di introversione psichica con
conseguente alienazione e fuga dalla realtà esteriore, dal concreto storico, in un mondo che ' all'opposto tende a
rivalutare o spesso a dar valore esclusivo alla « creazione
», ai rapporti sociali, alle opere.
E' chiaro, beninteso, che quando con la scusa
dell'interiorità ci si chiude in un
cieco solipsismo converrebbe andare da uno psichiatra per aprire un
dialogo almeno con lui; e se con la medesima scusa si portasse un giudizio di condanna verso le realtà visibili quasi che necessariamente
maculassero l'immacolatezza dello spirito,
converrebbe consultare qualche teologo. Ma psichiatri e teologi dovrebbero
essere interpellati anche da coloro che giudicandosi sani, realisti, moderni,
vivono unicamente nelle esperienze esteriori cercando di tacitare in ogni modo
la percezione inaffogabile della propria
esistenza vanificata.
Vita interiore e vita esteriore non sono e
non devono essere cosi contrapposte da lacerare l'uomo, bensì vanno integrate e unificate proprio
perché senza unificazione non c'è equilibrio vitale. Il pericolo,
semmai, sta nell'istintiva tendenza a condizionare e ridurre e plasmare la
vita inferiore sulle esigenze pratiche di quella esteriore, a
interpretare spiritualmente azioni ed esigenze della vita
quotidiana che di per sé non sono affatto spirituali.
In verità la soluzione è a senso unico: è l'interiore che deve
«assumere » e
spiritualizzare l'esteriore, appunto come in Gesù è la persona
divina che ha « assunto » e divinizzato la natura
umana. Vale a dire che Gestì, pur accettandoli e servendosene, non
si è lasciato « distrarre » dai valori
terrestri, ma li ha resi «valori» interiorizzandoli. C'è
differenza, in effetti, tra l'abbandonarsi al senso del gusto
perché « tutto è buono ciò che Dio ha creato
», finendo con l'idolatrare — nel senso paolino
— le proprie sensazioni, e il
gustare le cose senza abbandonare (ossia «possedendo ») la propria
anima, senza lasciarsi cioè distrarre o peggio violentare da esse.
L'autentica vita inferiore non è fuga dal mondo, bensì assunzione del
creato nel centro di unità personale e universale che è Dio.
E' li che ogni agire acquista significato e armonia;
è li che « ritroviamo il rapporto con gli uomini e con le cose non
come schiavi, ma come figli di Dio » (Ch. Lubich, Frammenti).
Con l'anima raccolta in questo suo centro,
fattasi silenzio e quasi sorda ai richiami esteriori perché attratta da Colui che è, l'uomo trova,
infatti, la sua vera libertà di movimento; e invece di frantumarsi
essa stessa nella dissipazione della molteplicità di cose e
avvenimenti, prosegue l'opera di unificazione del creato continuandone il
processo di cristificazione. Fino al punto in cui,
nella voragine aperta dalla crocifissione del nostro Io, ogni cosa attorno
a noi precipita irresistibilmente al proprio Centro « naturale », ritrovando il
rapporto giusto con il Padre.
E ti prende allora lo stupore nell'assistere
passivo a un lento ordinarsi delle cose dentro e fuori di te, opera della
Sapienza che « rimanendo in se
stessa rinnova ogni cosa » (Sap. 7, 27).
E' la capacità ricreativa dell'uomo inferiore, l'unico che
conosce — di fatto — la
realtà esteriore.
Silvano Cola