Quando la luce è accesa

- esperienze -

 

Con la semplicità di un sorriso

Quando il dottore mi ha detto che le mie condizioni si erano messe in modo tale da richiedere un in­tervento chirurgico sono entrato un po' in agitazione. Non mi andava di finire in ospedale, sotto i ferri. Poi man mano si è fatta strada den­tro di me una voce a dare un senso al mio dolore. Era la voce del­l'umanità che soffre la fame, il freddo e il caldo, la guerra e la mi­seria, ma soprattutto che perde la verità o la cerca senza trovarla.

La mia malattia mi dava una possibilità preziosa di partecipare a tutto questo dolore e di offrire qualcosa per i miei fratelli.

Nell'ospedale — chi l'ha provato lo sà — il tempo passa lentamente, e sono mille gli espedienti per usci­re dal chiuso di questa situazione.

A me piaceva leggere e riposare,

ed avevo proprio un libro in mano quando mi sono accorto che Rena­to, il compagno di stanza, aveva voglia di parlare. Era un signore oltre la mezza età.

Non dovevo fargli sentire che per lui era come se non esistessi, e cosi è iniziata la nostra amicizia.

Renato era molto franco come me, malgrado la differenza di età, ed io cercavo, per quanto mi riuscisse difficile, di mettermi nei suoi panni e di capirlo.

Lui diceva di aver perso la fede, a me sembrava invece che fosse so­lo nascosta nel suo animo: le nostre conversazioni battevano tanto sulla religione, sul come vivere la vita, sul modo di credere.

Gli avevo detto che ero uno stu­dente di teologia, ma lui probabil­mente aveva capito chirurgia, e mi stimava sempre di più come un giovane idealista, sincero e fedele.

Anche la moglie, durante le visi­te, si univa ai discorsi del marito, e la conclusione era sempre qualche frecciata verso la Chiesa e i preti in particolare. Eppure, sotto sotto, c'era una fede ancora accesa, e questo mi aiutava ad amarlo di più.

Un giorno è andato a confessar­si, e al mattino dopo ha fatto la comunione, eppure io non avevo mai parlato di queste cose. Ma è stato un giorno di gioia per tutti e due.

Quel signore se ne è andato dal­l'ospedale prima di me, e ogni gior­no, da casa, mi telefonava, e anche le visite reano frequenti.

Dopo di lui la stessa avventura si è ripetuta con altri.

Avevo capito che, in fondo, quel­lo che valeva era amarli così come sono, di far sentire loro attraverso la semplicità di un sorriso il calore di una vera amicizia.

Le persone hanno sete di Dio e sono pronte ad accettarlo e sce­glierlo con gioia quando s'accorgo­no, attraverso noi, che lui è Amore.

Magdi - Egitto

 

Quella sera di febbraio

Questa esperienza è iniziata nel febbraio dell'anno passato quando mi sono reso conto che ero troppo preoccupato delle condizioni della mia parrocchia e stavo trascurando i sacerdoti che erano impegnati nel­le parrocchie vicine.

Sentii che la cosa più necessaria era stabilire con loro un rapporto più profondo, al di là del solito cameratismo, certo che avrei risolto le mie difficoltà nella misura in cui fossi uscito da me stesso.

D'altra parte, il sacerdote che più mi era vicino era il viceparroco e con lui c'era un po' di ruggine. Era­no in gioco le nostre diverse men­talità che ci vedevano arroccati en­trambi sulle proprie posizioni, men­tre nessuno sembrava disposto a ce­dere.

Quella sera di febbraio, durante la solita passeggiata, avevo trovato il modo di parlargli a cuore aperto cercando di appianare i nostri punti di contrasto e sforzandomi di com­prendere sino in fondo il suo pen­siero.

Così, ristabilita l'unità, gli ho lanciato ad un certo punto l'idea di stabilire, mediante una riunione mensile, dei contatti tra tutti i sa­cerdoti della zona nuova di Sira­cusa.

Avevo trovato subito consenso in lui perché — diceva — è quello che ci vuole per farci uscire final­mente da una visione sacerdotale e

pastorale chiusa nei confini della parrocchia.

Cosi, assorti nel parlare, non ci eravamo accorti di essere arrivati nei pressi di una parrocchia vicina. Ne abbiamo approfittato allora per fare una visita al parroco — un sa­cerdote molto stimato — e per co­municargli subito la nostra idea.

Ci ha accolto con cordialità, e, poiché l'iniziativa gli piaceva, ab­biamo immediatamente imbastito il programma della prima riunione della quale sarebbe stato il modera­tore. L'intesa era stata immediata. Sul punto di congedarci, vedendoci senza macchina, già pensava di riac­compagnarci.

« Abbiamo fatto una passeggia­ta », gli abbiamo detto, « e mentre si passeggia c'è il tempo per vedere come è andata la giornata, di risol­vere assieme le difficoltà, e preven­tivare per il domani ».

La meraviglia gli si leggeva in volto. « Potessi fare altrettanto col mio cappellano! ».

Ricordo, come se fosse ora, l'ul­timo venerdì di febbraio: l'aveva­mo atteso con trepidazione affidan­doci a Dio e puntando tutto sull'uni­tà che c'era tra me e il cappella­no perché non trasparisse nulla di noi ma parlasse la realtà di Gesù in mezzo a noi.

Per questo avevamo deciso di amare in silenzio, di ascoltare tutti sino in fondo senza pretendere niente, qualunque piega avesse preso l'incontro. L'adesione dei sacerdoti interessati era stata unanime. Sca­valcando i punti fissati nell'ordine del giorno ad un certo punto un sacerdote, trattando dell'affluenza alla messa vespertina nei giorni fe­riali, mi chiede come mai io avessi ogni giorno tanta gente, e per lo più giovane, mentre lui aveva de­ciso di abolirla. Ho risposto che la riuscita di una comunità viva di fede era basata su un segreto: l'uni­tà fra me e il cappellano; e ho an­che potuto presentare alcuni aspetti della nostra vita.

Le riunioni periodiche sono con­tinuate nonostante varie difficoltà risolte volta a volta mediante la carità. In questo clima di comunio­ne sono emersi ancora di più i doni di ognuno che diventano ricchezza di tutti.

Qualche sacerdote che si sentiva solo ed isolato ha ritrovato la gioia di vivere in comunione. Infine sono caduti tanti preconcetti: gente che mai si sarebbe sognata di riunirsi assieme a noi porta ora il proprio valido contributo di idee ed espe­rienze proprio perché si è vista ac­cettata senza essere giudicata, e la vita di comunione è aumentata per­ché — dicevano alcuni — è proprio nello stare insieme che il sacerdote ritrova se stesso e può confrontarsi col fratello che gli è accanto e col Cristo presente in lui.

don Paolo - Siracusa

 

Le catacombe parlano ancora

La settimana scorsa sono stato a visitare le catacombe di S. Domi­tilla: un'esperienza molto forte.

Avevo l'impressione — mentre entravo nelle gallerie scavate nel tufo — di immergermi nelle fon­damente della Chiesa, e i simboli incisi sulle lapidi tombali, con i te­mi della pace, della risurrezione, della vita, mi mostravano in sintesi il cristianesimo genuino.

In fondo ho capito che i primi cristiani sono vissuti nella massima semplicità e che la loro santità non consisteva tanto nel l'aver affrontato il martirio, quanto invece nell'aver vissuto, giorno per giorno, con co­raggio e decisione il messaggio evan­gelico. E le catacombe erano per me la testimonianza del loro cri­stianesimo totalitario, radicato nella fede della presenza di Gestì in mez­zo a loro, e tanto vivo che senza indugi affrontavano il mondo pronti a dare la vita per il Regno di Dio.

Con questa realtà nell'anima, ri­tornando nel mio ambiente, mi son messo a vivere il vangelo nella sem­plicità, cercando di inserirmi in que­sta linea dei primi cristiani.

Una cosa è leggere il vangelo, un'altra attuarlo, perché subito, in questo passaggio da una conoscen­za intellettuale della Parola di Dio alla sua incarnazione, mi son tro­vato a dover mettere in discussione tutta quella che io chiamavo la mia personalità.

Se prima pensavo che la santità consistesse nell'aver ricevuto una buona educazione religioso-spiritua­le e una solida formazione teologi­ca, adesso questo mi cadeva e l'esempio dei primi cristiani mi in­seriva decisamente nel concreto del­la vita di ogni giorno.

E' iniziato un nuovo gioco, e ricominciando sempre da capo, mo­mento per momento, ad anteporre Dio al sacerdozio e al mio perso­nale successo, dicendo sì alle mie piccole difficoltà, ho trovato il mo­do di poter vivere ventiquattro ore su ventiquattro da figlio di Dio. Questa vita mi dava il segreto per superare il buio, l'incapacità di co­municare, di sorridere e di accetta­re i momenti più difficili; anzi, in questo sforzo di rimanere con l'ani­ma puntata in Dio, sia nella gioia come nel dolore, ho ritrovato un nuovo rapporto col prossimo e con Dio stesso.

Vincenzo-Brescia