La comunità è ecclesiale
se genera Cristo

 

Sembra che non si possa trovare, nel vangelo, altro principio dell'a­postolato che quello formulato da Gesù prima di inviare gli apostoli nel mondo a predicare e a battez­zare: « Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda », dal momento che alla realizzazione di esso Gesù ha legato ed assicu­rato l'efficacia ed i frutti: « Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli se avrete amore gli uni verso gli altri » (Gv. 13, 35).

In altre parole l'apostolato « ad extra », quello esterno, di annun­cio, di testimonianza, è conseguente e condizionato, si può dire, al rap­porto interno di mutua relazione tra chi si dice e vuole essere se­guace di Gesù Cristo. L'apostolato insomma è non tanto uno scopo estrinseco da perseguire, quanto piuttosto l'irradiarsi spontaneo di una realtà esistente tra i cristiani.

Stando al metro comunemente usato, tra la tipologia umana che aveva sott'occhi Cristo avrebbe dovuto scegliere i più dotati come leaders, — per inviarli nel mondo ad annunciare il Regno di Dio —. La sua scelta invece è caduta su gente normale perché — si può pensare — lui non mirava tanto alle persone quanto a fare dei suoi seguaci un'unità, un corpo, una comunione, una chiesa.

In questo senso lui ha impiegato il tempo della sua vita pubblica, e non senza amari fallimenti se, ai piedi della croce, si trovò unica­mente  il  discepolo prediletto.

Ma ormai le basi erano poste. La Pentecoste consacrò la prima Chiesa e d'allora si può dire con gli Atti (2, 47) che «il Signore aggiungeva ogni giorno alla stessa società gente che si  salvasse ».

D'allora si andarono formando le varie comunità, che si diffusero ovunque.

La linea tenuta dai singoli grup­pi sembra seguire le leggi di un organismo vivente. Il nucleo, la ragion d'essere di questa cellula, era costituita dalla pratica del comandamento nuovo. Non esiste in­fatti negli Atti o nelle Lettere al­cuna norma o precetto o consiglio volti a portare il gruppo ad atti­vità esteriori; si può dire che tutto è orientato verso una dinamica in­teri ore alla comunità, ai rapporti fra i membri, ad un'interazione attiva attraverso la carità. L'uffi­cio della predicazione semmai era riservato   agli   apostoli.

Oggi, nell'ambito del Movimento dei Focolari, assistiamo al sorgere di tante comunità parrocchiali che fanno del comandamento nuovo la legge fondamentale del loro esi­stere. Ripensando alla  linea  delle

primitive comunità cristiane, sia­mo   gioiosamente   sorpresi.

L'apostolato — senza essere no­minato — è vissuto, come dimo­strano la ripresa spirituale delle anime e le autentiche conversioni. Si situano, in breve, nella linea dell'essere più che del fare, se­gnando una svolta decisiva nel campo apostolico e pastorale.

In realtà se il Concilio non è solo un « direttorio » ma veramente una luce ed una spinta dello Spi­rito, qualcosa doveva pur muo­versi in questo senso. Il Concilio infatti dopo aver parlato dell'apo­stolato individuale, parla di apo­stolato  « in   spirito   di unità ».

Ci vuol poco a capire che non si tratta solo di apostolato in équipe come se bastasse sommare aritmeticamente le forze umane e spirituali. Siamo di fronte ad un apostolato di altra qualità che non si basa tanto su meriti o capacità individuali quanto piuttosto sul­l'unità che esiste nella comunità che vive.

Ed il Concilio stesso precisa che esso « corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fe­deli ed al tempo stesso si mostra come segno della comunione e dell'unità della Chiesa di Cristo che disse: dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro » (Apostolato dei lai­ci, n.  18).

Insomma è l'apostolato in cui non siamo noi ad agire ma Lui, l'Apostolo, l'Inviato del Padre pre­sente in mezzo ai suoi nella comu­nità  cristiana   che  opera.

Dice Origene che « dove due o più sono uniti nella fede nel suo nome Egli dimora in mezzo ad essi attirato e sedotto dall'accordo del loro cuore e del loro spirito ».

E questo è bello, accettabile, de­siderabile; senonché la presenza di Cristo suppone un'amore senza esclusioni, un corredo di virtù che prepari e realizzi il « Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me », un orientamento all'unità nel pensiero e nell'azione.

« Il più piccolo neo d'umano che non si lasci assumere nel divino, rompe l'unità con gravi conseguen­ze » (Ch. Lubich, La Carità come Ideale, p. 57).

Non per questo ci si deve sco­raggiare. Cristo ha detto: « dove due o più... ». Il che vuol dire che è alla portata di tutti purché uniti nella carità vera  ed attuale.

Nelle prime comunità i pagani si convertivano vedendo quanto si amavano i cristiani. Nei primi tempi del Movimento le anime si univano al gruppo più che per le parole per l'atmosfera spirituale creata dalla testimonianza d'unità.

Così ancora oggi nella comunità parrocchiale avviene lo stesso fe­nomeno. Non sono i singoli, pur bravi, non sono i parroci con i loro discorsi a rivoluzionare le anime, ma la comunità per quel tanto di amore che lega ciascuno al suo fratello e  a  Cristo.

Sentiamo alcune testimonianze dal vivo.

« Devo dire che ero piuttosto scettico, indifferente, in quanto pre­vedevo un discorso ben cesellato, cattedratico e teologico, tenuto co­me sempre da un sacerdote o da un fervente cattolico. Ma i fatti andarono ben diversamente. Niente elucubrazioni teologiche o mistiche né sacerdoti in veste di dottori. Il primo trauma lo provai quando m'accorsi che erano venuti a tro­varci una quarantina di persone di due comunità. Persone di ogni ceto sociale: operai, impiegati, stu­denti; e mi colpi il loro aspetto felice, sereno, sia quando parla­vano che quando ascoltavano. Mi turbò molto e mi chiesi come po­tevano comportarsi cosi... Non dis­sero solo parole, ma mi fecero toc­care con mano che il Vangelo si può vivere dappertutto, in fabbri­ca, a casa, a scuola, e che era possibile amare il prossimo di qualunque condizione sociale, povero o ricco, credente o meno, bello o brutto.

 

Mi hanno fatto scoprire Dio ».

« In novembre siamo andati col complesso da un gruppo di gio­vani che facevano gli esercizi spi­rituali.

Già in macchina abbiamo cercato di dirci tutto quello che andava e non andava... Tutto, perché l'uni­tà fra noi fosse piena. Ce lo siamo ripetuto: l'unica cosa che vale è essere totalmente uniti tra di noi nella carità, da essere una cosa sola.

L'accoglienza dei giovani fu cor­diale.

A cena ci siamo messi uno o due di noi per tavolo. La sera poi abbiamo cantato, parlato... Io ho dovuto parlare per prima; non me l'aspettavo, ma mi son buttata verso gli altri cercando di amarli fino in fondo.

Al mattino abbiamo ripreso con canti ed esperienze, ma sembrava,

però, che la nostra unità non fosse « perfetta » come la sera avanti; ce lo siamo detti ed abbiamo cer­cato  di  volerci più bene.

Al pomeriggio nella Messa mi sono sentita unita a Cristo e ai fratelli come non mai. Mi sentivo in  famiglia.

La presenza di Gesù nell'Euca­ristia era la dimostrazione di quan­to Lui ci ha amati e quanto ci ama. Mi pareva che Lui era con­tento di venire sull'altare perché vedeva che ci amavamo ed ave­vamo sete  di Lui ».

Ecco l'apostolato in spirito d'uni­tà! Non può far leva su risorse unicamente umane per demolire, incenerire l'avversario e neppure per appoggiarsi ai propri meriti, ma unicamente « far spazio » a Cri­sto annullandoti, morendo per amo­re, come Cristo, perché Lui possa rivivere nelle sue membra ed in­cendiare il   mondo.

P. Rogliardi e G. Aruanno