gridare il vangelo

con la vita

di Chiara Lubich

 

Ci trovavamo ad Einsiedeln,un paese della Sviz­zera che ospita una magnifica abbazia di bene­dettini dove si  venera Maria  santissima.

Non appena si arriva in questo splendido posto soleggiato, in mezzo a prati ondulati, non lungi da un laghetto azzurro, si avverte subito di essere in un luogo sacro: vanno e vengono pelle­grini a tutte le ore, e fra questi numerosissimi i religiosi e le religiose dalle più varie divise. Una volta vedemmo passare in bicicletta una religiosa particolarmente viva nel volto. Indos­sava il vestito decisamente dimesso delle Piccole Sorelle di Foucauld. La sua apparizione in mezzo alla strada fece un gran bene alle nostre anime: sembrava che col suo solo vestito testimoniasse anche a noi l'ideale del suo fondatore, Charles de Foucauld, il quale aveva come vocazione di gridare il Vangelo con tutta la sua vita: il van­gelo degli ultimi, dei miseri, dei più poveri, dei derelitti.

In quel momento ci nacque in cuore il desi­derio di poter anche noi, vestiti così come siamo, come tutti gli altri, trovare il modo di gridare il vangelo in qualsiasi posto, con la nostra vita.

Ma da che cosa avrebbe potuto il mondo cono­scere che eravamo discepoli di Cristo? E salì dal nostro animo la riposta: « Da questo cono­sceranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri ».

Abbiamo visto altre volte che l'inizio del Movimento è stato per noi una specie di conver­sione, è stata una rivoluzione del nostro modo di pensare,  di volere, di  amare.

Anche per quanto riguarda l'apporto perso­nale di ciascuno alla diffusione del regno di Dio, per quanto riguarda quello che si vuol chiamare apostolato, possiamo dire la medesima cosa: non ci soddisfaceva il modo allora in uso fra i più di portare Dio. Quell'apostolato fatto un'ora in settimana, accanto e come tanti altri mestieri, anche se si avvertiva più nobile di essi, non ci sembrava degno di Dio.

All'inizio del Movimento, d'altra parte, tutte le cose, anche le più belle, sono state spostate di fronte all'unico e solo ideale sul quale la nostra mente, il nostro cuore, le nostre forze dovevano convergere: Dio. Si capiva di dover soprattutto amare Dio con tutto il cuore, tutta l'anima, tutte  le  forze.

Ed è stato poi Lui, piano piano, ad insegnarci che per amore Suo avremmo dovuto amare anche il fratello, ed è stato Lui a farci trovare il giusto, nuovo rapporto con esso.

In chiunque fosse passato accanto a noi, nella nostra vita, avremmo dovuto vedere soltanto Gesù, perché qualunque cosa avremmo fatta al minimo l'avremmo fatta a Lui.

Dovevamo quindi, per amore di Dio, amarlo nel prossimo. Non si trattava di conquistarlo alla nostra causa, anche se poteva essere più nobile. Si trattava di servire lui per servire Dio. E grado a grado, abbiamo imparato per amore

di Dio a « farci uno » col fratello mediante la carità, ad attuare quanto sta scritto nella Scrit­tura: « piangere con chi piange, ridere con chi ride ». Dovevamo farci uno coi pensieri dell'altro, con le prove dell'altro, coi suoi dolori, scendere nei suoi gusti anche più piccoli, anche se a volte meschini, purché non fosse peccato.

Come Dio per noi si era fatto uomo e, una volta uomo, si era annientato sulla croce, così doveva essere il nostro amore verso il fratello: farci uno con l'altro, pronti a morire per l'altro: questa la palestra di vita spirituale dettata dal­l'amore.

Questo modo evangelico di amare ha portato delle conseguenze: sentivamo che il nostro spirito ne guadagnava. Stava diventando esperienza per molti di noi la parola: « Siamo passati dalla morte alla vita perché abbiamo amato i fratelli ».

Essendo poi durante il giorno impegnati molto spesso a vivere la vita dell'altro, per farci uno con lui nella carità, questo impegno facilitava anche la morte del nostro io. Non si vive infatti in noi stessi se viviamo le preoccupazioni, le ansie, i dolori, le gioie di un altro per amore di Dio.

Un'altra conseguenza è stata che molti pros­simi, che venivano accostati da questa carità in Cristo, hanno voluto condividere con noi lo stesso ideale. Allora non solo noi cercavamo di farci uno con loro, ma anche loro desideravano farsi uno con noi e soprattutto con quello che era diventato ormai l'ideale della nostra vita: Dio.

Amando ciascuno Dio e per lui il fratello, l'amore fra noi e questi prossimi diveniva vicen­devole; e con l'amore vicendevole Cristo è stato presto in mezzo a noi. Sono nate cosi le prime cellule di questa  rinnovata  vita cristiana.

La Chiesa — visti i frutti e sempre madre provvida per tutti i suoi figli, specie i lontani — ha suggellato questo modo spontaneo, evangelico, ma molto più fecondo in ordine all'apostolato di tanti altri, quasi come un metodo, indicandocelo così: « Accostate — ci ha detto — con l'amore cristiano tutti i fratelli, soprattutto i tiepidi, gli erranti, i lontani, in modo che esperimentando essi l'attrattiva di questo amore, che non è che vita divina in noi, si sentano sollecitati ad accet­tare e vivere integralmente la verità di cui è deposita ria  la  santa  Chiesa ».

Ha incoraggiato molto a costituire queste cellule d'ambiente fra i cattolici, nelle fabbriche, nelle scuole, nei caseggiati, ovunque si presenti l'opportunità, ma specialmente là dove la fede è più insidiata, per dare, con l'unione, una nuova forza alle anime perché resistano al male, e una volta tutelate, rinsaldate, istruite, possano pas­sare dalla difesa alla conquista spirituale dei fratelli, perché — precisa la Chiesa — « l'unione delle anime nel nome di Gesù è la caratteristica di tutto l'apostolato dell'Opera di Maria in quanto nell'unità risiedono le radici della vitalità del­l'apostolato. Gesù ha detto: « Da questo ricono­sceranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri ».

E' questo dunque il caratteristico apostolato di tutti coloro che in una qualsiasi maniera fanno gridare il vangelo

parte dell'Opera di Maria. Se due infatti dices­sero di appartenere al Movimento, ma non faces­sero lo sforzo di realizzare tra loro l'unità voluta da Gesù, vorrebbe dire che essi non hanno cono­sciuto ancora a sufficienza la nostra spiritualità.

Ma se invece essa è stata ben compresa, due persone unite nel nome di Gesù sono destinate ben per poco tempo a rimanere sole, perché la carità è diffusiva di per sé e aumenta con pro­porzioni immani. Ogni piccola cellula, accesa da Dio in qualsiasi punto della terra, dilaga poi necessariamente, e la Provvidenza distribuisce queste fiamme dove crede, perché il mondo sia in più luoghi ristorato dal calore e dall'amore di Dio.

Due o più anime fuse nel nome di Cristo, che non solo non hanno timore o vergogna di dichia­rarsi reciprocamente ed esplicitamente il loro desiderio di amore  di Dio, ma che fanno   dell'unità   fra loro  in   Cristo   il   loro  ideale,  sono una potenza divina nel mondo.

E in molte città queste anime sono sorte, o possono sorgere, nelle famiglie: babbo e mamma, figlio e padre, madre e suocera; possono trovarsi nelle associazioni, nelle parrocchie; in ogni grup­po umano, nelle scuole, nei seminari, negli uffici, dovunque.

Non è necessario che siano già sante, perché Gesù l'avrebbe detto; basta che siano « unite nel nome di Gesù» e non vengano mai meno a questa unità.

Se in una città, nei punti più disparati, s'ac­cende il fuoco che Gesù ha portato sulla terra e questo fuoco resiste per la buona volontà degli abitanti al gelo del mondo, non si potrà non spe­rare che tutta la città sarà accesa d'amore di Dio.

Chiara Lubich