alcuni
testi patristici su
superfluo e
comunione dei beni
a cura
di Enrique Cambón
«
La comunanza è nostro retaggio più che la proprietà: ed
è conforme a natura » (San
Giovanni Crisostomo, In I Ep. ad
Timoth., hom. 12, 4; cfr. Id., In dictum Pauli, Oportet haereses 2; Id., In Ps. 48, hom. 2, 4; Id., In
Matth., hom. 18, 3; Id., In Genesim 1, 4; Id., In Ps. 48, 2-3; Id., In Io., hom. 15, 3).
«
Non pensiate che tutto quello che avete sia esclusivamente vostro. Fatene
parte anche ai poveri, agli amici di Dio. Di Lui infatti,
che è nostro Padre, sono tutte le cose. Noi siamo fratelli » (San Gregorio Nisseno, De pauperibus
amandis, Oratio
I).
Come determinare quello che è superfluo? Non lo si
può determinare colla stessa misura per tutti (cfr. S. Agostino,
Sermo 61, 11; Id., Sermo 50, 5). Comunque si può
dire, parlando in genere, che la differenza tra superfluo e necessario
consiste in questo: necessario è quanto serve per vivere e
vestirsi, mentre il di più di quello è superfluo ed appartiene
ai poveri (S. Girolamo, Ep.
120, ad Hedibiam, 1; S. Agostino, In Ps. 147, 12). Ci sono dei casi però in cui bisogna dare perfino il necessario
(Lattanzio, Div. Inst., 5;
S. Giovanni Crisostomo, In
Matth., hom. 49, 2; S. Gregorio
Magno, Reg. Past.
Lib., 3, 21; Id., Hom.
in Ev., hom. 20;
«
Se ciascuno prendesse soltanto di che sopperire ai propri bisogni, e
lasciasse il di più all'indigente, nessuno sarebbe ricco, nessuno sarebbe
povero » (S. Basilio, Hom.
in illud Lucae 7).
«
Non allontanare il bisognoso, anzi fà parte di uttte le tue cose con
il fratello e non dire che sono tue personali. Perché se i beni spirituali
vi sono comuni, tanto più quelli materiali » (Didachè, 4, 8; cfr. Lett. Barnaba, 19,
8).
La ricchezza non deve essere adoperata
per godimento nostro, ma « per esser messa
in comune » (Clemente
Alessandrino, Paed. II, 1).
«
Noi che un tempo ci abbandonavamo alle lascivie, ora abbracciamo la
sola castità... noi che appetivamo più avidamente degli
altri ricchezze e fortune, ora mettiamo in comune i beni che possediamo,
dividendoli con tutti i bisognosi... » (Giustino, Ap. I, 14; Ap.
I, 67).
Bisogna « tenere in comune, in qualche modo, con gli indigenti il nostro
patrimonio » e non darne come in elemosina (Origene, In ep. ad
Rom. 9, 12).
«
Non ci sarebbe povertà, non ci sarebbe eccessiva ricchezza, se ci
fosse la carità: ci sarebbe solo quanto di buono può dare
l'una e l'altra. Dall'una prenderemmo l'abbondanza, dall'altra la
libertà dalle preoccupazioni e non patiremmo né le ansie della
ricchezza né la paura della povertà » (S. Giovanni Crisostomo, In ep. I ad Cor., hom. 32, 6).
«
La divisione è una causa di impoverimento, la concordia e l'unione delle volontà una causa di ricchezza. Nei
monasteri si vive ancora come nella Chiesa primitiva. Chi vi è mai
morto di fame? Chi non vi ha trovato un nutrimento abbondante? Tuttavia
gli uomini dei nostri giorni hanno più paura di vivere cosi che di
gettarsi in mare. Se avessimo provato questa vita non la .
temeremmo. Se nel passato qualche fedele — ed i fedeli erano
allora appena ottomila — ha osato, in presenza
di un mondo ostile, senza aspettarsi alcuna approvazione, fare un
tentativo coraggioso di vita in comune, quanto più noi lo potremmo fare
ora che ci sono dei fedeli in tutto il mondo? Ci taccerebbero ancora da
pagani? No, perché li avremmo attirati tutti a noi e conciliati con
noi... » (S. Giovanni
Crisostomo, In Act. Ap., Hom. 11, 3).